Novant’anni fa si chiudeva la “Questione romana”

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11 Febbraio 2019

Ci sarebbero voluti quasi settant’anni per sanare la profonda ferita creata dal conflitto Stato Chiesa, nato all’indomani dell’unità del Paese.

Quella ferita si chiamò “Questione romana”, dovuta allo status della città di Roma, già sede del potere temporale del Papa, divenuta, dopo la breccia di Porta Pia, capitale del Regno d’Italia.

Un conflitto che aveva avuto pesanti riflessi sul ruolo dei cattolici italiani i quali, per disposizione pontificia – e fu il caso del non expedit – si erano autoesclusi dalla vita pubblica nazionale costituendo, di fatto, una delle grandi criticità nella costruzione della nazione.

D’altra parte, i responsabili del nuovo Stato unitario si erano resi conto della gravità del problema e avevano, fin da subito e maldestramente, tentato di risolvere il problema con la legge delle “guarentigie”, un provvedimento che si ispirava al principio cavouriano di “libera Chiesa in libero Stato” e che cercava in questo senso di garantire libertà al pontefice e alla Chiesa ma che aveva il difetto di essere atto unilaterale.

Quella legge non risolse nulla visto che non venne accettata dal destinatario. La storia che seguì fu segnata dal succedersi di timide aperture, che pur suscitarono qualche speranza, e brusche frenate dietro le quali spesso, e mi riferisco allo Stato, ci stavano le lotte fra le elite.

Fu, soprattutto, il processo di laicizzazione, accentuatosi in corrispondenza della lunga stagione crispina di fine secolo, che ostacolò la conciliazione e che divenne il più fertile terreno di scontro.

Non si dimentichino, a questo proposito, i reiterati tentativi di introdurre nella legislazione italiana il divorzio o di laicizzare gli istituti di assistenza già controllati dal clero. Il momento più alto del confronto-sfida fu raggiunto nel 1889 a seguito dell’erezione a piazza Campo de’ Fiori del monumento a Giordano Bruno, proprio lì dove il monaco eretico era stato arso vivo a seguito della sentenza – poco cristiana – di condanna del Sant’Uffizio, pronunciata nel lontano 1600.

Questa contrapposizione fra Stato e Chiesa, con il mancato esplicito riconoscimento del primo da parte della Chiesa, si era però lentamente attenuata con l’avvio del nuovo secolo e l’affacciarsi delle nuove dottrine socialiste considerate pericolose sia dalle elite liberali dominanti che dalla stessa Chiesa cattolica.

Pio X, papa tradizionalista e conservatore, aveva infatti alquanto attenuato il “non expedit” e permesso, anche se in modo cauto, una prima partecipazione dei cattolici alla vita nazionale.

Fu però la guerra e il successivo irrompere del fascismo a determinare le condizioni favorevoli per risolvere il problema in modo definitivo.

E se nel 1919 le gerarchie cattoliche avevano consentito la nascita del Partito Popolare, immaginando di farne lo strumento di difesa degli interessi della Chiesa nel contesto dello Stato liberale, a partire dal 1924, trovando nel fascismo il soggetto che, ufficialmente ed in modo più incisivo, sembrava occuparsi di porre fine a quelle che venivano considerate aberrazioni laiciste, abbandonarono il partito al suo destino e decisero di puntare, strumentalmente, proprio sul partito di Mussolini.

Il duce del fascismo, colse al volo la grande opportunità che gli veniva offerta su un piatto d’argento, chiudere la “Questione romana” sarebbe stata per lui un risultato eccezionale. Infatti le trattative, condotte in modo discreto e riservato, si conclusero felicemente, con la firma dei “Patti lateranensi”, proprio l’11 febbraio 1929, e segnarono la conciliazione fra lo Stato e la Chiesa.

Gli stessi “Patti lateranensi”, che troveranno riconoscimento anche nell’art. 7 delle Costituzione repubblicana, restituivano la sovranità al pontefice romano anche se in una porzione limitata ai palazzi apostolici della città di Roma, creando lo Stato della Città del Vaticano, e aggiungevano un Concordato che regolava i rapporti fra lo Stato e la Chiesa oltre ad una convenzione finanziaria relativa ai risarcimenti dovuti alla Chiesa per la perdita dei domini temporali.

Quel capitolo drammatico, che aveva pesantemente inciso sull’unità nazionale, si concludeva con il riconoscimento da parte della Chiesa dello Stato italiano che, come corrispettivo, ne riconosceva l’autonoma al suo interno.

Non è un caso che il pontefice del tempo, si trattava di Pio IX, nell’allocuzione che fece seguito alla firma, si riferisse ad “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”, parole che la pubblicistica liberale volle malevolmente equivocare, quasi che il Papa avesse definito Mussolini stesso come “l’uomo della Provvidenza”.

TAG: Concordato, L'uomo della Provvidenza, questione romana
CAT: Storia

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