Bagatelle shakespeariane

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25 Agosto 2018

Noterelle volanti su due romances di Shakespeare, Pericles, Prince of Tyrus e Cymbeline

O Helicanus, strike me, honour’d sir;
Give me a gash, put me to present pain;
Lest this great sea of joys rushing upon me
O’erbear the shores of my mortality,
And drown me with their sweetness. O, come hither,
Thou that beget’st him that did thee beget;
Thou that wast born at sea, buried at Tarsus,
And found at sea again! O Helicanus,
Down on thy knees, thank the holy gods as loud
As thunder threatens us: this is Marina.
What was thy mother’s name? tell me but that,
For truth can never be confirm’d enough,
Though doubts did ever sleep.

E’ il riconoscimento finale di padre, figlia, moglie nel Pericles, Prince of Tyre di Shakespeare.

Piano a parlare di opera confusa! E’ lo specchio della confusione della vita, che solo il Racconto d’inverno e La tempesta – in parte, solo in parte – rischiareranno. In mezzo quella sorta di sintesi di tutto il teatro shakespeariano che è il Cymbeline, e la misteriosa avvolgente figura di Imogene, può darsi la Grazia: arbitraria, ma costante, quanto la gioia e il dolore. I primi cinque versi pronunciati qui dal vecchio Pericle toccano il sublime dei sonetti e di certe uscite di Lear.

C’è una traduzione di Giorgio Albertazzi, pubblicata da Newton Compton, in Shakespeare, Tutto il teatro, 2 voll., abbastanza fedele, scritta per una regia del Pericles allestita da Giancarlo Cobelli. Il ritmo, in Shakespeare, che sia verso o prosa, è essenziale. La parola teatrale, ma anche poetica, di Shakespeare, ha il vibrare del respiro umano. Può innalzarsi fino all’urlo, all’ululato (Howl, howl, howl, howl! di Lear), ma spesso si attenua fino al rantolo:

I kiss’d thee ere I kill’d thee: no way but this,

Killing myself, to die upon a kiss (Othello).

e scompare.

In margine: impossibile rendere in italiano l’allitterazione e la consonanza di kill/kiss. E la rima this/kiss.

La traduzione che Albertazzi conduce del Pericles è teatralissima, pensata per la voce e non per la lettura, e cerca di restituire questo ritmo. Ma la diversità delle due lingue finisce per avere la meglio.

For truth can never be confirm’d enough, commenta Pericle, prima di arrendersi al riconoscimento della figlia. Sembra il sigillo di tutto il suo teatro.

Sta qui, infatti, il nodo di tutta la vicenda, il senso profondo del dramma. La magia dissolve l’apparenza della morte, Thaisa può risorgere, quasi miracolosamente, ma nessuna magia non può spiegare il dolore, la sofferenza, le vicissitudini del caso. E tanto meno il non vedere ciò che vediamo o, peggio, vedere ciò che non vorremmo vedere, come Troilo, in “Troilo e Cressida”, o Giulia, nei “Due gentiluomini di Verona”. Il mare della felicità, this great sea of joy, c’inonda quando vuole, e non sempre. Più spesso ci succhia il baratro del grido, o ci spegne lo smorzarsi del rantolo.

 

Shakespeare è un drammaturgo che conosce i pensieri e i sentimenti delle folle meglio di chiunque altro. Analizza la lotta dei potenti con spietata lucidità. Ma sa guardare anche i sottomessi. E il ritratto che ne disegna non è confortante. Anzi. Basterebbero le due scene – stupende! – del discorso di Bruto e poi di Antonio ai Romani, nel Giulio Cesare, e ancora più quella specie di elemosina dei voti, una parodia di comizio elettorale, che è la scena in cui Coriolano, nella tragedia omonima, chiede ai Romani di eleggerlo console. Non a caso – più che nella storia inglese – Shakespeare analizza questi meccanismi collettivi nei drammi romani. La storia di Roma fu, nel Cinquecento – e non solo in Italia, si pensi alle mirabili pagine di Montaigne (che Shakespeare probabilmente conosce) – il banco di prova e di conferma delle più diverse e opposte teorie politiche.

Machiavelli non era noto in Europa solo per il frainteso, e più spesso ipocritamente frainteso, Principe, ma anche per i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio. E’ probabile che Shakespeare, per lettura diretta o indirettamente, citati da altri, li conoscesse. Machiavelli è oggetto di ammirazione e riprovazione insieme, e non solo in Inghilterra; il suo nome, in inglese Nick, diventa il nome del diavolo. Auden lo immortala quando chiama Nick Shadow il diavolo, nel bellissimo libretto della Carriera di un libertino che scrive per Stravinsky. Il famoso monologo di Enrico V, prima della battaglia, analizzato mirabilmente da Auerbach in Mimesis, è la sintesi di una lunga tradizione sulla caducità della gloria dei potenti. Ma è shakespeariana la lucidità con cui un re esamina la fragilità del proprio potere. Ora, una lucidità simile, ma da parte del sottomesso, manifesta Guiderio, nel Cimbelino. In realtà Guiderio è figlio di Cimbelino, ma non lo sa. Crede, anzi, di essere un povero contadino, che vive in una caverna e si sfama con la caccia. Ecco il passo in cui descrive la vita dei sottomessi:

GUIDERIUS.

Out of your proof you speak. We, poor unfledg’d,
Have never wing’d from view o’ th’ nest, nor know not
What air’s from home. Haply this life is best,
If quiet life be best; sweeter to you
That have a sharper known; well corresponding
With your stiff age. But unto us it is
A cell of ignorance, travelling a-bed,
A prison for a debtor that not dares
To stride a limit.

Non abbiamo mai volato fuori dalla vista del nido, né sappiamo che aria ci sia lontano da casa. Un tempo la si sarebbe chiamata maggioranza silenziosa. Oggi è il popolo della Lega e del Movimento Cinque Stelle. Della Brexit e di Vysegrad. Di Trump. But unto us it is / A cell of ignorance. Ma per noi è una cella d’ignoranza. Non sapessimo che il passo è stato scritto quattro secoli fa, diremmo che l’ha scritto un drammaturgo contemporaneo.

Il lieto fine è una convenzione teatrale. Nella vita è rinviato di generazione in generazione. Come l’inno alla libertà che chiude il Fidelio. Perché siamo a teatro. Nella vita, Florestano sarebbe stata eliminato. Nessuna moglie avrebbe potuto salvarlo. Shakespeare negli ultimi drammi ci dice qualcosa di simile. Il teatro è lo spazio della fantasia, del sogno, della fiaba. Quella che Lear spera di raccontare alla figlia. E che Prospero dissolve con un colpo di bacchetta. Strano, cupo dramma questo Cimbelino, nonostante il suo finale riconciliatore, in cui tutte le contraddizioni si sanano, i malvagi sono puniti o si pentono dei propri crimini.

La notte dell’Epifania del 1531 l’Accademia degli Intronati di Siena mette in scena una commedia anonima, frutto di qualche accademico, o della collaborazione di più accademici, che ha per titolo Gli Ingannati. E’ una commedia bellissima, nella quale il travestimento di una giovane, Lelia, in giovane gentiluomo – si fa chiamare Fabio – ha un ruolo decisivo per lo svolgimento dell’intricato intreccio. Shakespeare ne trasse il plot della sua commedia intitolata Twelfth Night, or What You Will, che è poi la notte dell’Epifania.

Anche in questa commedia il travestimento ha un ruolo decisivo. L’ambiguità amorosa, già intensa e ricca di equivoci nella commedia italiana, è accresciuta dal fatto che nel teatro elisabettiano i ruoli femminili sono ricoperti da ragazzi ancora imberbi. Senza essere nominato, l’amore omoerotico vi ha un rilievo enorme, con accenti che assomigliano a quelli dei sonetti. In un personaggio è poi dichiarato senz’ambiguità: Antonio, il capitano albanese che salva Sebastiano, fratello di Viola, la quale, travestita da ragazzo, assomiglia come una goccia d’acqua al fratello Sebastiano, e fa innamorare di sé Olivia, mentre lei s’innamora di Orsino, l’equivoco è perciò duplice, amata da una donna perché la crede un uomo, innamorata di un uomo, al quale così travestita da uomo, non può dichiararsi. Ma è commedia troppo famosa, per riassumerne qui la vicenda.

Sbarcati sulla costa dove, a insaputa di Sebastiano, c’è sua sorella Viola, Antonio, congedato dal giovane, non riesce a staccarsi da lui, perché ne è irresistibilmente e focosamente attratto, e pronuncia queste parole:

The gentleness of all the gods go with thee!
I have many enemies in Orsino’s court,
Else would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.

Twelfth Night, II, 1

Dopo di che, esce al suo inseguimento. E rischierà perfino la vita, per restargli accanto.

Nel Cimbelino abbiamo il travestimento di Imogene. E due giovani fratelli s’innamorano di lei, nonostante o proprio perché lo credono un ragazzo, che appare a loro di divina bellezza. Ecco la scena:

GUIDERIUS

I love thee; I have spoke it.
How much the quantity, the weight as much
As I do love my father.
BELARIUS

What? how? how?
ARVIRAGUS

If it be sin to say so, sir, I yoke me
In my good brother’s fault. I know not why
I love this youth, and I have heard you say
Love’s reason’s without reason. The bier at door,
And a demand who is’t shall die, I’d say
‘My father, not this youth.’

Cymbeline, IV, 2

Si scoprirà poi che i due giovani sono in realtà figli di Cimbelino e non, come credono, di Belario, e sono fratelli dunque di Imogene. Ma intanto Shakespeare si è lanciato in uno dei passi più lirici di tutto il dramma, con accenti, appunto, che ricordano i sonetti. Il travestimento gli permette di oltrepassare i limiti di genere per rappresentare l’amore come universale attrazione di tutti per tutti: Love’s reason’s without reason. Come dice, sentendone le forza, Arvirago.

Sul filo di questo incantamento, i personaggi sembrano, proprio attraverso questi stati in cui li vediamo uscire fuori da sé, riconoscere la propria natura. Un sogno, in cui compaiono suo padre e sua madre, e infine Giove stesso, rivelerà a Postumo che Imogene, sua moglie, è viva. Il pentimento di Iachimo, la confessione della regina, avvengono come per opera di una trance. Tutto è sospeso in una sorta d’irrealtà, gli dei giocano con il nostro destino, gli orrori della guerra sono sorvolati dalla magnanimità di amicizie che scavalcano gli schieramenti e il nemico si confonde con l’amico. Tutto, appunto, è sospeso come in un sogno. L’ultimo Shakespeare sembra rievocare le commedie giovanili. E non soltanto la famosissima che nomina il sogno anche nel titolo, ma addirittura la prima, Love’s Labour’s Lost (si noti l’allitterazione), Pene d’amor perdute. Commedia che ha un finale spiazzante: un messaggero annuncia alla figlia del Re di Francia che suo padre è morto. E’ come se la realtà irrompesse all’improvviso e interrompesse un sogno. E non si può non ammirare la libertà e l’arditezza di Shakespeare che conclude così tristemente una commedia, come se ne infrangesse le regole. Del resto, anche Cymbeline, che cos’è? Commedia, tragedia, dramma storico? La tradizione lo inserisce tra le tragedie. Ma e le commedie cosiddette “nere”? Misura per misura, Tutto è bene quel che finisce bene, e in fondo anche I due gentiluomini di Verona. Shakespeare sta stretto nei confini di un genere. In questo aspetto di libertà strutturale, trova un mondo speculare nel teatro spagnolo del siglo de oro, nel quale, anche, i confini di genere sono labili. Tant’è vero che poi in spagnolo la parola “comedia” ha finito con il denotare qualunque spettacolo teatrale, un po’ come l’inglese “play”. La vita è sogno di Calderón de la Barca sta sospeso tra tragedia e commedia. E, come in Shakespeare, i confini tra vita e sogno sono fluidi, mutevoli, oltrepassati e percorribili. Per non parlare del Don Chisciotte, romanzo che contende a Shakespeare l’analisi lucidissima dell’inafferrabilità della vita. Ecco, sbaglierebbe chi volesse leggere in questi aerei versi che accennano a un’attrazione omoerotica, un deciso stigma di omosessualità. Shakespeare è più ambiguo, più sfuggente. Anche l’amore fugge, infatti, le regole. Può in un attimo trasformarsi in odio. O rivelare un’attrazione per l’altro come specchio di sé stesso. E allora, più che di omoerotismo, bisognerà parlare non tanto di narcisismo – anche -, quanto di denudamento del lato nascosto di ciascuno, di svelamento della natura fondamentalmente amorale di qualunque amore: il Pericles comincia con l’enigma svelato di un incesto, tra un padre e una figlia. L’orrore che ne prova il giovane Pericles, scoprendolo, è annichilito dalla naturalezza con cui invece la figlia lo vive. La realtà di un bordello, in seguito, non è meno deprecabile, e offende, anzi, più profondamente la donna. Ma stiamo scivolando su un terreno ambiguo quanto la poesia di Shakespeare. E’ tuttavia proprio questa ambiguità a svelarci quei segreti della vita che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. E ciò che desta più meraviglia è la leggerezza con cui Shakespeare ce li svela.

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CAT: Teatro

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