Moni Ovadia, nel mondo sciocco di “Oylem Golem” c’è un Ebreo errante
E’ nell’Eterno Esilio in quel “Mondo sciocco”, “Oylem Golem”, che si trovano i grani di saggezza, ma anche le feroci intuizioni sulla condizione umana, lungo il travagliato cammino dell‘Ebreo Errante. Straordinariamente attuale, davvero inossidabile è il caso di dire, lo spettacolo che Moni Ovadia ha portato in scena nella sala “Leo De Berardinis”, quella più grande dell’Arena del Sole di Bologna, per iniziativa dell’Ert, Emilia Romagna Teatro/Teatro Nazionale, con folta partecipazione di pubblico, una presenza ampia fatta da gente di ogni età e condizione. Ma soprattutto tanti, tanti giovani. Non c’è da stupirsi. L’allestimento che, esattamente trenta anni fa, inventò il teatrante di origine bulgara, e ora ha ripreso, possiede tutte le caratteristiche di uno spettacolo divertente e godibile, non solo per via delle belle musiche kletzmer, eseguite da fior di musicisti come quelli della Stage Orchestra, ma anche e soprattutto per l’assenza di ideologismi e ipocrite sovrastrutture mentali con cui si raccontano verità evidenti. Senza dogmi né ideologismi precostituiti. “Oylem Golem” è così una trascinante costruzione spettacolare che mette assieme musica e racconti pescati da quell’enorme contenitore che è la memoria del popolo ebraico. Attraverso aneddoti, ricordi e storielle incredibili e coinvolgenti è in grado di suscitare il riso per l’irresistibile carica di umorismo. Moni Ovadia, al centro del palco circondato da un tavolo, dei bauli e, soprattutto dai fedeli strumentisti, è d’altra parte un impagabile affabulatore: racconta con trasporto e ironia tradizioni e contemporaneità.
Un quotidiano fatto di un miriade di storie. Protagonisti, dai rabbini alla gente comune, con i loro peccati e le loro furberie sono uomini e donne colti nel loro vissuto, nell’arco di un tempo dilatato, tra antico e presente. Sono polacchi e tedeschi, americani.. Il risultato è un ben calibrato incontro di musiche e parole, un formidabile e trascinante cabaret che tiene incatenati: suscita l’ilarità e commuove. E, dopo un trentennio, per giunta, non conosce crisi. Per un totale ragguardevole di oltre due ore di incontro ravvicinato con il pubblico: occorre dire che non si risparmiano certo attore e musicisti. Questi ultimi poi incantano con una musica che prende il cuore. Malinconica come un blues dell’anima, nasconde sottotraccia le sofferenze e i dolori dell’esilio, ma è capace anche di regalare attimi di straripante gioia di vivere ed allegria nelle sue esplosioni di melodie e ritmo che invitano e chiamano al ballo. Sono tutti musicisti formidabili a partire dal violinista Maurizio Dehò, la violoncellista Giovana Famulari, il fisarmonicista Albert Mihai, il clarinettista Paolo Rocca e al cymbalon Marian Serban. Questi artisti, diventati da subito beniamini degli spettatori, dopo i bis, alla fine dello spettacolo, accompagneranno il pubblico suonando fino all’uscita dal teatro.
“Oylem Golem” – prodotto da Corvino produzioni e dal CTB, Centro Teatrale Bresciano– ha avuto il merito di diffondere anche in Italia , dopo il suo debutto nel 1993 la cultura yiddish. E continua a farlo tuttora in modo superbo. Sin dai primi minuti, appena accese le luci sul palcoscenico, “Oylem Golem” è una immersione totale nell’universo della diaspora e dell’esilio. Quella degli ebrei di origine ashkenazita (secondo molti studiosi sarebbero gli eredi delle tradizioni religiose delle accademiche talmudiche babilonesi, mentre i sefarditi invece sarebbero i discendenti delle tradizioni galilee e giudee) in gran parte provenienti dall’Europa centrale ed orientale, perseguitati prima e durante la Seconda guerra mondiale dal regime nazista che a milioni rinchiuse nei lager e mandò a morire nei forni crematori. Una cultura che si è diffusa dall’Europa all’America ma poco in Italia dove, solo dagli anni Settanta si è incominciato a conoscere meglio grazie all’opera di divulgazione di musicisti, teatranti e scrittori (Claudio Magris). La lingua yiddish a partire dalla fine dell’Ottocento produsse importanti opere di letteratura diventando in pochi decenni un linguaggio letterario compiuto grazie a scrittori come Mendelè Mōkēr Sĕfarīm, che scrisse novelle e romanzi sugli ebrei russi, il polacco Isaac Leibe Peretz autore de “il tempo del Messia” e altri racconti e Sholem Aleichem, scrittore statunitense di origine ebraico-ucraina, autore di novelle e romanzi umoristici in yiddish.
Si trasferì in America a causa dei continui progrom nella Russia meridionale. Durante il periodo della Shoah si registrò una intensa attività memorialistica: da segnalare sono le opere di scrittori come Itzhak Katzenelson, poeta e scrittore di origini bielorusse, residente in Polonia, mandato a morte ad Auschwitz e Abraham Sutzkever, poeta e partigiano scampato all‘Olocausto. Ma è solo nel 1978 con la consegna del Nobel a Isaac Bashevis Singer -autore di romanzi famosi, da “Il mago di Lublino” a “La famiglia Moskat” – che avviene la consacrazione ufficiale dello yiddish come espressione culturale. Poesie, scritti e canzoni segnate dalla malinconia: questo è stato il lungo fiume a cui questa letteratura si è abbeverata. Storie di ebrei poveri ed esuli che parlavano una sorta di volgare coltivando e arricchendo le tradizioni e la loro musica. Parte di quelle radici che lo stesso Moni Ovadia definisce come “il suono dell’esilio” o la “musica della dispersione” cioè della diaspora in quanto raccoglie elementi folcloristici provenienti dalle tradizioni musicali tedesche, rumene, ungheresi e polacche che nel tempo si sono mescolate a canti ebraici, influenze arabe e gitane.
“Oylem Golem” andrà in scena fino a questa domenica al Teatro Vascello di Roma.
Dal 2 al 5 febbraio sarà invece in cartellone al Teatro Carcano di Milano.
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