Pinocchio di Latella trasforma la favola del Piccolo
C’era una volta al Piccolo il post-Ronconi, un vuoto artistico difficile da colmare da quando il maestro si è ritirato dalle scene in ogni senso, dopo aver concluso l’epopea dei Lehman, con antenati e discendenti in attesa del fallimento finanziario e metafisico. Poi gli anniversari hanno imposto L’opera da tre soldi: ma almeno che sia glamour! con Rossy de Palma e l’impostazione da quasi musical di Damiano Michieletto, facile da vendere al pubblico (botteghino da settecento cinquantamila euro), meno alla critica.
Invece con la stagione in corso si osa di più: Toni Servillo a porte chiuse per le lezioni di Jouvet, Fracassi e Ragonese giovani spose in un Balzac al femminile, Emma Dante che vuole spogliare tutti nel suo inferno in scena. Spettacoli appena visti e che vedremo, tutti coraggiosi, tratti da testi raffinati o persino per addetti ai lavori: un bel passo in avanti rispetto all’anno scorso. Ma la grande scommessa di quest’anno è il debutto di Antonio Latella in una produzione del Piccolo appena andata in scena e che ha diviso da subito il pubblico, meno la critica.
Sul palco le marionette, ma non sono i Colla. È Pinocchio, il romanzo che dall’Unità in poi ha insegnato agli italiani a parlare – ovviamente insieme a Cuore -, e che quindi tutti fingono di aver letto dopo un ripasso con Comencini se va bene, con la Disney se va meno bene. Una storia di verità e menzogna, costruita sulla meraviglia di una simbologia densissima: grilli e altri animali parlanti, fate bambine e vecchie, assassini che spuntano nel buio e la pancia del «terribile Pesce-cane» come rifugio fino all’ultimo respiro. Ma nonostante questo sterminato immaginario che pare irrappresentabile, il romanzo di Collodi ha davvero uno stile teatrale: monologhi a non finire, vere e proprie didascalie e note di scena sparse tra i trentasei capitoletti, e in generale un’irrinunciabile atmosfera da commedia dell’arte, quasi con un canovaccio, un carattere per ogni ruolo.
Nella versione di Latella tutto questo diventa misura della sincerità del palcoscenico stesso, perché anche a un teatro può crescere il naso, che d’ora in avanti cercherò ogni volta a fine spettacolo, col sipario calato. Chi si ricorda il paradosso del mentitore? «Questa frase è falsa», sentenziò un Cretese, forse un bugiardo: se la frase è vera allora è falsa, se invece è falsa sarà vera. Che c’entra col teatro? C’entra perché una rappresentazione deve avere le sue logiche, formali e informali, e ovviamente l’unica verità sulla scena è menzogna. Invece guai alle tentazioni di un naturalismo naïf, con candele vere, fiamme vere, in cui si mangia davvero, si beve davvero. Se c’è una bugia a teatro è la verosimiglianza, e Latella ci aveva già scherzato nel finale finto Cechov di Ti regalo la mia morte, Veronika.
Ma il naso a Pinocchio non cresce solo quando mente: anche per fame, per istinto, per la disperata vitalità di chi viene al mondo come difettosa intelligenza artificiale. Difettosa per come si inceppa quando interagisce con il male dei truffatori, mostri, assassini, ma anche con il bene di chi consiglia, cura, si preoccupa. È sempre il linguaggio, solo il linguaggio a porre uno scarto sull’intenzione del burattino, uno scarto che in scena lo fa balbettare. E allora Pinocchio ci riprova, nello sforzo di pronunciare, accentuare, correggere con sinonimi, assonanze e onomatopee. Ma il linguaggio ha anche una mimica: è corporeo ed esige colpi e colpetti sul ceppo di legno che ogni attore si porta sempre addosso, anche quando non è un burattino.
Questo è uno di quegli spettacoli che ne ha cento sotto, da contare uno per uno come fa il grillo, che può mettere alla prova per la densità degli stimoli e dei linguaggi, ma che va seguito con «fede di bambini» – forse messa troppo alla prova nei primi venti minuti in cui proprio non si capisce dove si sta andando. Ma anche quando ogni cosa sembra «un nodo avviluppato» come un pezzo d’insieme di Rossini, anche quando nella scena semivuota c’è tutto fuorché un regno delle fiabe, basta un gesto invisibile perché lo spazio si riempia di senso, di significato, di connessioni orizzontali. E finalmente il regno arriva in scena, «al tempo stesso l’albero e il seme» dice la fata citando Carrère.
Straordinario il cast, a partire da Christian La Rosa, passato dai delitti di Micene in Santa Estasi (qui la recensione) alle pene del burattino più famoso del mondo: la nascita in bottega, poi corse, ricerche, suppliche, dispetti e frustrazioni, sempre con vocine e vocette che riempiono il palco di dolcezza e trasgressione. Magnifico Massimiliano Speziani, Geppetto col piede che trema in sogno mentre gli impiccano il figlio, muto fino alla trasfigurazione nel finale. E ancora gli animali e maschere di Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo.
C’era una volta al Piccolo il post-Ronconi. Poi è arrivato Latella, antiretorico e antiaccademico, con quella ricerca tormentata di un linguaggio che improvvisa la sua sintassi man mano che si costruisce. Un autore incapace di ripetersi anche quando si ripete, perché l’angolazione è sempre nuova: la lingua è salvata, pazienza per il naso.
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