“Sette minuti”, l’urlo soffocato di un’umanità che muore
Avere i minuti contati. E’ quanto accade a tre palestinesi fuggiti dai campi profughi che, sperando in una vita migliore, cercano di arrivare in Kuwait. Dopo un’ iniziale reticenza, si accordano con l’ autista per attraversare il deserto iracheno stipati in un’ autocisterna vuota per poter così eludere la sorveglianza
Sette sono i minuti che li divide dalla morte. Un viaggio al limite della sopravvivenza dove sotto il sole infuocato vengono messe a dura prova la capacità d resistenza del corpo, martoriato, umiliato, in condizione di asfissia. Così come della mente che deve accettare la sfida di dover resistere a condizioni disumane per realizzare l’unico disperato tentativo che potrebbe condurli verso un futuro meno amaro
Questo è quanto racconta Luisa Guarro in “Sette minuti”, spettacolo da lei scritto e diretto, liberamente ispirato al romanzo “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani, scrittore e promotore della resistenza palestinese. La rilettura teatrale è un racconto asciutto, diretto, nudo, come i corpi costipati dentro la cisterna. Fisico, che al tempo stesso attanaglia l’anima.
Diretto con uno straordinario senso della misura ed interpretato in modo realistico senza nulla concedere alla demagogia e alla retorica. Come sottolinea l’autrice, non ci sono analisi sofisticate nel dramma narrato, la riflessione è rimandata all’osservatore che si trova dinanzi all’uomo che, lontano da speculazioni metafisiche, in situazione estreme e di scelte obbligate, è scoperto, senza orpelli, con i suoi bisogni primari da soddisfare: la fame, la sete , respirare.
Oltre ai tre profughi, altro protagonista in scena, quasi antagonista, è un sole a cui resistere, un sole che non darà tregua ai tre uomini arsi nel corpo, infiammati nell’animo.
C’è poi il deserto, metafora esistenziale di un destino già segnato fatto di solitudine, indifferenza, morte. Un deserto che ci riporta alla mente “La Terra Desolata” di Eliot, la cui arida pietra non conosce suono d’acqua. L’odore del terriccio umido sentito da Abu Kais , uno dei tre profughi, è, infatti, solo frutto della sua fantasia poiché qui non c’è neppure “ roccia rossa a donare la sua ombra”.
La narrazione del terribile viaggio si conclude con la morte dei tre uomini in quanto il coperchio della cisterna non viene aperto per più di sette minuti stimati come il limite oltre il quale la resistenza all’asfissia sarebbe stata impossibile.
Si conclude soprattutto con un interrogativo che Abu Kais si pone e ci pone: “Perché non hanno bussato alle pareti della cisterna ribellandosi alla morte?” Una domanda dalla risposta quasi scontata: uomini inermi non possono opporsi alla sconfitta , la reazione del popolo palestinese è stata vana e inadeguata per l’eccessiva disparità delle forze contrapposte
E’ una domanda, però, che rende il dramma dei tre palestinesi di respiro più vasto perché riguarda l’umanità tutta. Sia che tocchi il dramma del popolo palestinese che di quelli che fuggono dalle guerre in atto nel proprio paese trovando nel Mediterraneo una fossa comune, la condizione esasperata dei tre fuggiaschi è quella in cui si trova, in realtà, ogni uomo: l’impotenza assoluta.
Superando la contingenza del fatto narrato, quanto rappresentato in “Sette minuti” è, perciò, espressione di un dramma cosmico, di una crisi insita nella condizione umana. È allo stesso tempo un grido di denuncia contro la barbarie di ogni tempo, anche contro le responsabilità di un occidente riottoso a accogliere, che, preferendo corazzarsi, vede crollare pezzi di Shengen e con fili spinati e muri abdica alla propria dignità umana. Un Occidente ambiguamente schizofrenico che mentre tende una mano caritatevole, usa l’altra per sovvenzionare e sostenere militarmente eserciti, alimentare conflitti, appoggiare governi che impediscono democratizzazione e sviluppo.
Il romanzo di Ghassan Kanafani scritto ne 1963, sembra quasi profetico e dinanzi al rigurgito di xenofobia e il riemergere di nuove cortine di ferro non può che configurarsi come una lente critica per esaminare un’ identità europea dove il significato di un sentire comune e il sistema valoriale che lo supporta sembrano frantumati in reticolati.
La riscrittura teatrale di “Sette minuti” è, pertanto, un invito a non voltarsi dall’altra parte, a non corazzarsi, a non essere omertosi. Mette sicuramente a dura prova le nostre coscienze, si spera per un tempo un po’ più lungo di sette minuti. Apparentemente un soffio. Come la vita di tanti essere umani.
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