“Sono tutti uguali”

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24 Gennaio 2018

“Sono tutti uguali”: una frase desolantemente qualunquista, che di questi tempi mette d’accordo tutti quando si parla di politica.

Lo spettacolo portato sulla scena del teatro Verdi di Milano da Giulio Cavalli e Giuseppe Civati prende spunto dal consunto luogo comune per ribaltarlo nel tema che è il filo conduttore di tutto il discorso a due voci: la disuguaglianza.

Al mondo, come raccontava Trilussa, ci sono le “aquile” e i “galli”: quelli che volano alto, irraggiungibili e quelli che si arrabattano in un cortile. I primi sono i privilegiati, i ricchi, i corruttori, i bancarottieri, gli arroganti che non pagano mai pegno perché “i soldi sono come le unghie, prima o poi ricrescono”; sono i politici mediocri, piazzati da qualche potente o “arrivati” comprandosi i voti; sono i signori del “nero”, che sfruttano il lavoro dei disperati, esportano capitali o trafficano armi e petrolio.  I secondi sono i poveracci, i profughi, gli immigrati, le persone disprezzate e senza diritti; sono i nostri figli dal futuro incerto.

C’è un abisso di disuguaglianza tra gli uni e gli altri; ma c’è un tratto comune in ciascuna delle due categorie. Gli arroganti si somigliano tutti, con la loro strafottente stupidità, la loro ottusa avidità, la meschina furbizia; i loro ritratti, tratteggiati con maestria soprattutto da Cavalli, fanno sorridere amaramente. Ma sono davvero tutti uguali anche gli altri, gli oppressi raccontati, con dolcezza, da Civati: il profugo che fugge dalla guerra con il figlioletto per mano e l’anziano padre sulle spalle è il siriano o l’afgano di oggi, ma la sua storia è identica a quella di Enea che portava con sé Ascanio e Anchise, identico è il coraggio disperato, identico il bagaglio di memoria viaggiante; gli emigranti italiani del secolo scorso hanno subìto lo stesso disprezzo, gli stessi pregiudizi che oggi riserviamo a chi sbarca sulle nostre coste dopo aver attraversato il Mediterraneo; eternamente uguali sono i precari, coloro che devono ottenere “con una preghiera o una supplica” il loro diritto di esistere.

Le cause del divario sono economiche, fiscali, sociali e vengono indicate con precisione lungo il racconto; ma la sua vera radice è un deficit etico che riappare ovunque, con accenti ora seri, ora di satira. E proprio dall’origine individuale del problema scaturisce, spontanea, la via per affrontarlo: il coraggio (la virtù “da allenare con il sorriso, il sorriso di chi crede in quello che fa”, evocato sin dall’introduzione quasi autobiografica di Cavalli) e la responsabilità verso i nostri figli, che di quel coraggio – o della sua mancanza – un giorno ci chiederanno conto, perché sono le nostre scelte di oggi a decidere se il loro mondo e la loro vita saranno da oppressi o da uguali.

La sequenza di racconti sempre diversi per tono, ritmo, atmosfera spiazza e coinvolge gli spettatori, a tratti catturati o provocati, così che l’applauso diventa un mezzo troppo povero e goffo per partecipare a una rappresentazione che è soprattutto un’esperienza: quella di un’assunzione di responsabilità necessaria, anzi urgente, opposta agli alibi qualunquisti che purtroppo infestano il nostro discorso pubblico.

(in copertina la locandina dello spettacolo)

 

 

 

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CAT: Teatro

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