Teatro, uno sberleffo per i nostri “Tempi moderni”
Sono brevi, ma accattivanti varietà, utili per i periodi crisi. Divertono, portando il buonumore e scacciando i cattivi pensieri. Riconducono pure la gente a teatro. Se poi gli attori sono professionisti sensibili, i musicisti virtuosi e le danzatrici leggiadre e capaci, ancora meglio: c’è da rifarsi gli occhi e lo spirito in una serata di spettacolo garantito e popolare. Il viaggio inoltre vale la scoperta di una delle località più intriganti d’Italia. Anche perché le location prescelte da Aldes/Spam teatro per il festival “Tempi Moderni”, dedicato alla commedia rivista, presentata in spazi diversi dal 14 luglio ai primi di agosto in territorio di Capannori, sono senza eguali. Aie e corti dove un tempo si batteva il frumento, diventati angoli comunitari condivisi da grappoli di case, quasi sempre linde e ben ordinate. In buona parte restaurate, erano un tempo cascinali con granai e ricoveri per animali. Siamo a un tiro di schioppo dalla bella ed enigmatica Lucca, centro ben conservato rinchiuso da imponenti mura rinascimentali attraversato quotidianamente da turisti tra vicoli e viuzze che si aprono su slarghi e piazze. Fuori dal recinto urbano è circondata da un’ampia linea di verde, monti e colline, porzioni di terra strappate alle vecchie paludi. Uscendo dalla porta San Pietro, per andare alla scoperta del suo circondario, l’impressione è come di lasciare un ambiente protetto perché, tra vie e palazzi, è come ci si trovasse dentro casa. Poche centinaia di metri, mentre nella coda dell’occhio scompare la linea bruna delle fortificazioni viene incontro la periferia. Lunga e monotona, un po’ zona commerciale che evapora per far posto, mentre la strada si restringe, a campi coltivati dove l’acqua fa capolino in canali delimitati da tigli e cipressi, prati rasati e abitazioni ricoperte di fiori impreziositi dalla luce del tramonto, un arancio caldo che si stinge nel blu del cielo. Siamo in quello che una volta era dominio lucchese e ora è il più esteso comune rurale d’Italia, Capannori, una parte del quale è occupato da stabilimenti industriali nei cui cortili si scorgono, stoccate in ordinate pile, centinaia di balle di carta straccia. I capannoni, in cemento bianco e grigio, presiedono i bordi di un dedalo di strade che costeggiano campi coltivati a granturco e rii che si indovinano dalle linee di un verde più intenso.
“ Qui _ spiega Francesca Stefani ricercatrice e studiosa conoscitrice dei luoghi_ tutta la zona è ricca di acqua necessaria per riciclare la carta straccia. Sarà trasformata in fazzoletti, rotoli e rotoloni. E’ questo uno dei più grandi distretti di lavorazione cartacea della Comunità Europea. Qui hanno la sede le fabbriche di marchi più o meno famosi che hanno dato lavoro a molti residenti come a quelli arrivati in cerca del lavoro, albanesi e rumeni soprattutto. I contadini che popolavano le contrade _ racconta ancora Stefani _ nel tempo sono diventati operai di aziende che, portando benessere, hanno cambiato di fatto la vita e le consuetudini degli uomini”.
La zona industriale non si percepisce immediatamente. Resta curiosamente mimetizzata tra campi e gruppi di abitazioni. Ci si finisce deavanti senza rendersene conto. Da queste parti accade così un po’ dappertutto. Difficile capire dove stia il centro. Il fatto curioso e spiazzante è la sua assoluta assenza. Perlomeno come punto baricentrico attorno al quale ruota e si riferisce una comunità. Quanto, da qui, sembra lontana e distante un secolo l’ordinata Lucca, fatta di incroci che riportano sempre al cuore, la piazza dominata dalla chiesa medievale di San Michele coincidente con l’antico foro romano. Ecco, a Capannori il cuore invece è come fosse esploso e ricadendo abbia lasciato qua e là tanti segni di vissuto. Piccoli e medi agglomerati attorno a prati verdi, qualche ruscello cristallino, dell’aria pulita. Così si può ammirare nella deliziosa enclave prospiciente la Chiesa a navata unica di San Giusto di Compito, già citata nel 983, ricostruita nel 1862 e restaurata nel 1914. A pochi metri il residuo di una cinta muraria punteggiata da merli, un ponte che collega a sentieri e strade che vanno in salita. Un silenzioso micro borgo in zona collinare fatto di dimore ricoperte da rampicanti e fiori, quasi una piccola Svizzera. L’orgoglio del luogo sono le camelie di una bellezza tale che, dicono, è difficile trovarne altrove.Un terreno coltivato con questi fiori amati dalla cortigiana Marie Duplessis _ che ispirò Alexandre Dumas per il suo celebre personaggio de “La dame aux camelias” _ confina con il giardino piccolo ingombrato da qualche albero e profumato di erbe aromatiche, pertinenza della vecchia canonica. Gli attori e i musici piantano il palco sistemando i pochi oggetti necessari per uno spettacolo che ha il sapore del varietà di una volta ,“Le Seppie e la Pasionaria”, non a caso costruito con un collage di testi di Achille Campanile, Giovanni Guareschi e il cabaret di Karl Valentin.
Un po’ teatro e varietà elegantemente porti da una coppia collaudata di attori, Alessandra Moretti e Mariano Nieddu con gli interventi puntuali a complemento delle uscite cabarettistiche di Davide Arena. A dare tempo e ritmo è un singolare musicista, un one man band come Stefano Giannotti che suona una infinità di strumenti, dal banjo al pianino, alcuni dei quali anche prodotti dalla sua brillante inventiva. Brani originali come “L’acciuga marinata” regalano così brio e vivacità agli intermezzi degli attori: una performance leggera e pervasa di pathos interpretativo. Giannotti passa dalla chitarrina alla fisarmonica, dà il tempo alla grancassa per regalare pure degli spassosi effetti speciali. Perfetti per deliziare il pubblico: si ride e si canta in un giardino luminoso, respirando a pieni polmoni una buona aria a contatto con la natura tra gente che si incontra dopo il tempo passato in solitudine. Il biglietto in questi spettacoli allestiti nelle corti non si paga, ma gli spettatori offrono beni di prima necessità che saranno poi immessi nel circuito della solidarietà sociale. Anche perchè dicono ad Aldes “il teatro può anche essere modello di inclusione e di un circolo economico e virtuoso”.
Prossima meta è Matraia, esattamente all’opposto, in perpendicolare, a San Giuseppe di Compito dove dalla corona di monti soprastante si inquadra la valle che da Lucca porta a Pistoia. Il viaggio taglia in due quella che qui chiamano la Piana, composita tavolozza di appezzamenti ben curati, qualche vigneto e molte case sparse, diverse rimesse a nuovo. Lasciata la Piana e attraversato Capannori occorre arrampicarsi per una strada tortuosa costeggiante boschi ombrosi e fontane d’acqua. Spuntano anche qui come un po’ dappertutto, delle ville patrizie. Antiche e blasonate abitazioni diventate meta di un turismo sui generis. Ospitano eventi e vengono affittate per convegni e matrimoni, feste private etc…
Imponenti magioni di quanti nei secoli passati avevano fissato qui la dimora. Sono circa duecento. Le prime risalgono al quattordicesimo secolo, come quella di Castruccio Castracani a Massa Pisana; due secoli dopo nascono i “palazzi in villa” e si continua a costruire sino all’Ottocento. Tra quelle più conosciute la Villa Reale a Marlia, la villa Grabau a San Pancrazio, infine tra le tante, esempio di barocco in Toscana quella di Camigliano.
L‘Aia Saponati a Matraia è una corte linda, rigurgitante fiori colorati: l’aria è familiare, buoni odori, bambini che scorrazzano e voci che si rincorrono dalle finestre affacciate sulla corte stessa al cui lato si offre un panorama bucolico, fatto di file ordinate di olivi e odorosi limoni a far da cornice. Con lo sguardo lungo si domina dall’alto la Piana e si distinguono i rilievi di monti e colline. Mentre i teatranti stanno ultimando il sound check per suoni e luci, i primi spettatori fanno da sé sistemando le sedie davanti alla scena, tra battute, saluti, frizzi e risate quasi si fosse ad una riunione tra amici. Le prime file sono riservate ai più piccoli. Anche il titolo previsto per la sera sembra andare d’accordo con l’atmosfera: “L’ombelico del mondo” della libanese Crystèle Khodr. Fa pensare a dove si nasce, ai luoghi degli affetti, alle nostre madeleine proustiane. La drammaturga e scrittrice libanese raccontando le storie personali ricostruisce le memorie collettive. Significativo il suo recente lavoro teatrale, “Augures” andato in scena pochi mesi fa con l’interpretazione di due grandi attrici, Hanane Hajj Ali et Randa Asmar, che si interrogano sulla scomparsa di una scena una volta vivace ed impegnata come quella di Beirut. Ennesima e dolorosa conseguenza dello stato di crisi economico e politico in cui si dibatte il Libano. In “L’ombelico del mondo” Khodr narra di “quanto profonde siano le radici che uniscono le culture dei popoli che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo”. Greci, arabi, spagnoli, italiani, libanesi etc…, stessa gente, simili tradizioni, moltissimi i punti in comune che testimoniano antichi incontri, scambi commerciali e culturali. A fotografarli conducendo per mano il pubblico verso questo mondo di connessioni mediterranee è Caterina Simonelli nelle vesti di narratrice e coro lasciando ampi spazi a una danzatrice armoniosa, Martina Auddino, che cuce assieme una vertiginosa tarantella con conturbanti serie di figure rubate alle danze d’Oriente. Di gradevole swing l’accompagnamento al pianoforte dello stesso autore delle musiche, Paolo Pee Wee Durante che non tradisce un’anima soul sostenendo le melodie e i ritmi dei duetti di attrice e danzatrice, prontamente sottolineati dagli applausi del pubblico che dopo lo spettacolo si attarderà nell’aia godendo del fresco della sera.
Non tutte le location sono uguali. La sera successiva, nella Corte Luporini di Santa Margherita i raggi del sole al tramonto illuminano ancora in parte la pedana dove Auddino sta dando vita alla sua performance seguita con un’espressioni di meraviglia da un folto gruppo di bambine e bambini Gli occhi restano incollati sulla danzatrice e il sorriso esplode prontamente alle gag scambiate con il pianista. Pubblico di sole donne e bambini. Nella corte Luporini gli uomini a quest’ora sono ancora a lavoro e stanno per tornare. Le case si affacciano tutte sull’ampia spianata riempita di ghiaia. Ci si parla da porta a porta per commentare lo spettacolo o sorridere di qualche uscita dei bambini che dopo la rappresentazione improvvisano imitando lo show degli artisti. Si intuisce il mescolamento etnico e le comune radici proletarie. Anche qui non mancano i piccoli orti familiari. Rettangoli di verde dove fiammeggiano pomodori, zucchine…
Prima di arrivare a Corte Luporini una fermata a Porcari, comune limitrofo di Capannori dove c’è lo stato generale che governa una rassegna così controtendenza, significativa per il mescolamento delle persone che qui risiedono. Luoghi dalla storia unica. Esattamente come quella del torinese Roberto Castello approdato da queste parti nel 1993, alla guida di Aldes. E’ stato tra i protagonisti del riscatto della danza contemporanea italiana, quella che si formò inizialmente a La Fenice di Venezia con la geniale Carolyn Carlson. Con quel gruppo di danzatori diede vita alla compagnia dei Sosta Palmizi che nel 1985 esordì con il capolavoro de “Il Cortile” (premio Ubu nello stesso anno). Con Castello altri importanti coreografi e danzatori come Michele Abbondanza, Raffaella Giordano, Giorgio Rossi con i quali condividerà per alcuni anni un percorso d’arte e ricerca. Lasciato i Sosta Palmizi nel 1991 debutta con un suo lavoro (“Enciclopedia”). Seguiranno altre opere e la fondazione di Aldes (1993), altri premi Ubu e le collaborazioni con Peter Greenway, Eugéne Durif, Studio Azzurro etc.. Fondatore dell’Adac Toscana, ha insegnato fino al 2015 coreografia all’Accademia di Brera. Continuando a macinare spettacoli e progetti come “Tempi Moderni “ di cui ha curato personalmente tutte le regie.
Anche questa iniziativa parte da un singolare caseggiato sistemato in un angolo poco appartato di una periferia fuori schema. Come incredibilmente fuori schema, in modo affascinante, è questa singolare casa del teatro. Palestra di creazione e lavoro intrecciata combinando assieme dei container in una costruzione di legno e acciaio: uno spazio scenico essenziale. Da questo microscopico punto sulla carta geografica della Toscana catapulta idealmente verso Parigi per richiamare alla memoria qualche atelier d’artista a Montmartre o, per non muoversi lontano dalla Senna, suggerisce la fantastica zattera della Medusa di Gericault, fantastica tela esposta nelle sale del Louvre. Una zattera che sfidando i fortunali va in cerca di nuovi approdi.
Scanzonato e irriverente. E spassoso in modo elegante e intelligente. Andrea Cosentino, attore tra i più creativi della scena nazionale, esce dal coro delle commemorazioni per i Settecento anni della scomparsa di Dante Alighieri per ritagliarsi una originale e divertente rilettura dell’opera del Sommo in “Un Dante corretto bravo grazie”. La base, come in tutti gli spettacoli presentati in rassegna, è quella della rivisitazione della rivista all’italiana, filtro utile per capire anche il nostro tempo, e con cui Cosentino gioca in modo funambolico. Dietro ha i tempi e l’aplomb di un Petrolini, ma anche le folgoranti intuizioni di un Marcello Marchesi, mentre a tratti sembra vestire i panni di un clown beckettiano, spiazzando per quella certa aristocratica lontananza con cui padroneggia in scena la materia drammatica. La cornice è quella di un numero di varietà con l’aggraziata danzatrice Erica Bravini, perfetta spalla di Cosentino che introduce e interloquisce reggendo il gioco all’attore chietino. A dare sostanza musicale al tutto è il pirotecnico drummer Matteo Sodini. Per la verità anche Cosentino, appassionato di jazz, suona la tromba (nello specifico un trombino, una Classic cantabile brass) e se la cava pure bene.
Ma il cuore teatrale di “Un Dante corretto bravo grazie” è la bella capacità dell’attore a dipanare il doppio filo della riscoperta del “volgare” come lingua (quella di Dante) mettendo nel mirino tanta volgarità culturale italiana. Per farlo inserisce in un trascinante gioco a incastro citazioni dalla “Commedia”, padroneggiando versi e rime alternate che fanno percorrere allo spettatore coinvolgenti voli sull’ottovolante della poesia. Una intuizione che meriterebbe ulteriori ricognizioni e approfondimenti. Lo spettacolo di Consentino seguito da una jam tra l’ottimo Sodini e il sassofonista Renzo Cristiano Telloli in “New Orleans second line, la joie de vivre”, si è tenuto nella Corte Cristo a Lammari, probabilmente quella più popolata. Nella ampia corte è stata ricavata una accogliente arena che si è riempita come un uovo e da dove l’occhio guardando verso l’orizzonte , mentre calava il tramonto perdeva la linea di confine verde smeraldo dei campi coltivati. Una corte popolata di alberi e cespugli, peschi, tigli e ancora gerani, agavi… Al termine dello show, come per magia è comparso un tavolo di legno vestito da una lunga e immacolata tovaglia, cestini di cibo e bottiglie di vino. Perchè il teatro non è solo la vita di tutti i giorni ma anche e soprattutto condivisione. E festa.
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