PAKISTAN, 27 marzo 2016 – Un attentato terroristico al parco Iqbal a Lahore, nella regione del Punjab in Pakistan, tinge di sangue e di morte la domenica di Pasqua 2016. Almeno 69 vittime e 200 feriti, molti dei quali esponenti della piccola comunità cristiana locale (Lahore è comunque il luogo di maggiore presenza di cristiani) Secondo le prime ricostruzioni, il kamikaze si sarebbe fatto esplodere vicino all’area bambini, da cui alto numero di piccole vittime. L’attentato è stato rivendicato dal Ttp (il principale gruppo di talebani del Pakistan) e da un gruppo dissidente, Jamatul.
Dall’attacco alle Torri gemelle, l’11 settembre 2011, il Paese ha registrato circa 60mila vittime per attacchi terroristici. Non è la prima volta che vengono presi di mira, deliberatamente, i bambini: nel dicembre 2014, i terroristi talebani attaccarono una scuola a Peshawar uccidendo 132 bambini, su un totale di 140 vittime.
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Che cosa significa vivere in un paese dove la violenza terroristica è altissima e costante, non occasionale? Quali sono gli spazi d’azione dei cosiddetti moderati? Come sviluppare un’agenda contro il radicalismo che vada di là dall’azione bellica?
Dopo l’attacco a Charlie Hebdo avevo pubblicato su Stati Generali due articoli che presentavano una prospettiva diversa da quella dominante in quel momento, di schieramento pressoché unanime (“Se non proviamo a capire l’Islam facciamo il gioco dei terroristi” e “Il vero pericolo non è l’Isis in Libia ma il terrorismo in Europa”). Senza cadere nel giustificazionismo, avevo presentato la tematica della violenza terrorista così come vissuta dai paesi islamici, come quello in cui io attualmente vivo e lavoro, il Pakistan. Questa volta seguo quella stessa linea senza ripetere gli stessi argomenti, presentando una prospettiva che ritengo comunque essenziale per cercare d’inquadrare il fenomeno senza cadere in un autoreferenzialità che sempre porta a risposte inefficaci.
Il Pakistan è uno dei paesi-chiave nella galassia del terrorismo mondiale: se ISIS vi è per il momento poco diffuso, basti pensare che a fronte delle centinaia di vittime del terrorismo in Europa, il Pakistan ha avuto tra i 50 e 60.000 morti per terrorismo dall’11 settembre 2001 in poi. Fino alla crisi siriana, è stato anche il Paese che ha ospitato più rifugiati al mondo: dal vicino Afghanistan, dai 3 milioni degli anni ’80 si è passati al milione e mezzo di rifugiati attuale, qui da trent’anni. Parliamo di unpaese il cui reddito pro capite non raggiunge 5mila dollari, rispetto ai 35mila dell’Italia. Tanto per far capire le proporzioni della sfida quando paragonate alle nostre e la poca fattibilità della ricetta “che ci pensino loro”.
Primo, come si vive in un Paese dove il terrorismo è di casa, colpendo quasi giornalmente? Al di là dal fatto che l’ultimo anno ha visto una diminuzione nel numero degli attentati e che non tutte le zone del Paese siano sullo stesso livello di rischio, stiamo ancora parlando di migliaia di morti in questo 2015. All’inizio, la macchina blindata, i posti di blocco, le scorte stordiscono. È comunque molto limitato il numero di persone (membri del governo, diplomatici stranieri, persone molto affluenti) che si possono permettere quelle protezioni, comunque imperfette rispetto a terroristi suicidi.
L’orribile attentato di Peshawar del 16 dicembre 2014 (141 tra bambini e professori massacrati a colpi di mitra) ha certamente rappresentato una svolta nella lotta contro il terrorismo, sia nelle zone a presenza talebana che nel controllo del radicalismo verbale dei leader religiosi, fin lì incontenibili nei loro attacchi all’Occidente. Ciò non toglie che il pericolo permanga, e che ogni semaforo rosso sia un momento d’apprensione, ogni luogo affollato un potenziale pericolo, ogni moto che ti affianca vada guardata con attenzione, ogni sguardo si carichi d’inquietudini.
Le prime vittime del terrorismo integralista non sono gli occidentali ma i musulmani, che nella loro stragrande maggioranza non possono permettersi nessuna misura di sicurezza: sedersi a prendere un tè o un caffè all’aperto un rischio, perché qualunque macchina posteggiata azionata a distanza può esplodere accanto a te. Alcune moschee sono luogo di genesi del terrore, altre ne sono le prime vittime. Qualsiasi edificio pubblico accessibile è a rischio d’attentato suicida, che tra l’altro di solito colpisce le forze di sicurezza che ne sono all’esterno e i passanti occasionali, quasi mai le persone altolocate. Ultimamente, gli autobus sono divenuti un target.
Chi vive in un Paese come questo deve però continuare a vivere: è solo una minoranza che se ne va, la grande maggioranza rimane e nonostante tutto deve abituarsi a questo stato di cose, che limita movimenti e possibilità di svago. In Pakistan si parla di resilience, capacità di resistere comunque contro tutto: un sentimento che avevo già riscontrato in Libano e in El Salvador quando chiedevo alla gente come aveva vissuto durante le rispettive guerre civili. Tutti ti sorridono e ti dicono: «Non puoi farci niente: ti butti a terra, e poi ti rialzi e continui a vivere come puoi». Per chi, come me, in realtà come queste vive solo per qualche tempo, si impara a rivalutare il valore supremo della libertà che la nostra civiltà europea ci garantisce: una passeggiata in una qualsiasi città europea ha effetti galvanizzanti.
Nel caso dei Paesi musulmani, qualcuno dice “problemi loro, se la sono cercata”. È una tesi prevalente negli ultimi tempi. Il ragionamento equivale al sostenere che nei tempi di massimo potere della mafia tutti i siciliani in fondo fossero complici di quel sistema. Ma una cosa è dire che esista una certa situazione ambientale che può favorire un fenomeno, un’altra che tutti diventino colpevoli, come si dice ora dei musulmani. Indubbio che la reazione deve venire dal di dentro, come fu in gran parte in Sicilia; altra cosa che le vittime in prima fila vengano trattate come complici dei mandanti e degli esecutori.
D’altro canto, il fatto che il 99% degli attentati siano compiuti da musulmani non può essere ovviato facilmente. Del resto, anche il 95% delle vittime del terrorismo islamico sono musulmani. È chiaro che all’interno del mondo islamico esistono molti problemi non risolti, le cui radici sono in parte anche religiose (diverse interpretazioni della lettera coranica, conflitto sciita-sunnita che risale al VII secolo e si è ravvivato nell’ultimo), ma soprattutto sociali (immobilismo) e politiche (incompatibilità apparente con la democrazia). Problemi che sono all’interno dell’Islam e che esso deve affrontare, magari con l’aiuto dell’Occidente, ma non la cui soluzione non può venire da fuori.
In questo senso, si ripete spesso che i musulmani moderati non esistano, facendo un passaggio logico ardito: se non ti ribelli, non meriti niente di meglio di quello che ti succede. Questo ragionamento, oggi molto diffuso, si scontra con centinaia di milioni di musulmani che non hanno scelto la via della violenza, che solo una visione minoritaria della comunità islamica considera invece accettabile, fondandosi in una lettura letterale del Corano propugnata dai wahabiti, padri spirituali di talebani, ISIS e Boko Haram. È relativamente facile invocare un’iniziativa dei moderati, ma si dimentica l’asimmetria tra la forza di chi è armato ed è disposto a morire rispetto a chi solo può usare la parola e la ragione, nel quadro poi di Paesi nei quali non esiste uno stato di diritto che tuteli adeguatamente i cittadini.
Nella fase storica in cui siamo, anziché la primavera democratica che ci si augurava stiamo vivendo una regressione, visibilissima quasi ovunque nel mondo musulmano. In questa città sono appena stati chiusi, per ragioni apparentemente lontane dal tema in discussione, tutti i ristoranti; le donne velate sono sempre di più, quelle vestite all’europea sempre meno, quando la proporzione era inversa solo un paio di decenni fa; milioni di bambini non hanno altra scelta che le màdrasse (scuole coraniche) e uno dei fenomeni più inquietanti dell’ultimo periodo sono i sempre più numerosi laureati formati in Occidente che si radicalizzano (leggasi lo splendido libro Il fondamentalista riluttante di Mohsin Ahmid per una presentazione brillante di tale processo, assurdo ai nostri occhi).
I moderati sono maggioranza, troppo silenziosa questo sì, ma sono a mal partito contro i violenti, perché le loro armi sono drammaticamente impari. Ciò nonostante solo da lì si può ripartire: un’iniziativa militare contro ISIS in Siria e Iraq è probabilmente divenuta inevitabile, ma non potrà che fallire se s’insisterà a negare l’esistenza di questi moderati silenziosi, che vanno aiutati e non ridicolizzati o stigmatizzati. Se si continuerà ad affermare che “tutti i musulmani sono uguali” si farà esattamente il gioco dei violenti, che vogliono proprio una guerra di religione.
Come sarà inutile combattere sul terreno senza soffocare i circuiti finanziari e commerciali che in parte illegalmente (petrolio controllato da ISIS e venduto di contrabbando) e in parte no (circuiti finanziari paralleli via stati del Golfo) alimentano il terrorismo. ISIS non sono i talebani, che vogliono evitare la penetrazione occidentale nel loro Paese, l’Afghanistan, né Al-Qaeda, che per far sognare i diseredati musulmani attaccò l’Occidente come primo passo per sviluppare un’agenda centrata sul controllo del potere nel mondo islamico. ISIS è oggi concorrente di Al-Qaeda, da cui ha però adottato le modalità operative.
Un dato significativo sulla dimensione economica di Daesh. ISIS può oggi stipendiare un soldato a circa mille dollari al mese, pagabili a vita alla famiglia del “caduto” dopo il sacrificio. Non strano che con queste risorse economiche si trovino persone disposte a farsi lavare il cervello nei campi profughi del Pakistan o del Medio Oriente: stiamo parlando di una prospettiva infinitamente più concreta che quella offerta da molti dei Paesi in cui l’integralismo islamico impera.
Come sconfiggere il radicalismo alla radice se la via bellica non basta (combatte il fenomeno, non le cause) e quella finanziaria neppure? Entrambe queste dimensioni sono necessarie e vanno molto rafforzate, ma la dimensione che permetterà di vincere la battaglia una volta per tutte è culturale: solo un’istruzione di massa e di qualità, che offra prospettive di là dall’insegnamento coranico d’impostazione puramente letterale e lo sviluppo della cultura della tolleranza e della diversità possono rompere il muro d’indifferenza nei confronti dell’altro che esiste attualmente nel mondo islamico. Se l’Occidente si abbassa al livello dei terroristi, rinchiudendosi su stesso e facendo d’ogni erba un fascio, negandosi ad aiutare l’Islam a debellare i propri demoni, alimenterà ulteriormente la macchina del terrore.
Dalle esperienze che come Unione Europea stiamo cercando di portare avanti in Pakistan abbiamo imparato che l’agenda contro il radicalismo dev’essere modesta, concreta e soprattutto non pretenziosa. La cooperazione in materia di antiterrorismo, tra i giovani nelle università a rischio di radicalizzazione, sui media per sgonfiare la narrativa del terrore va portata avanti con molta circospezione, senza ricette preconfezionate (che nessuno ha), pronti a fare un passo avanti e tre indietro, ma senza perdere di vista che sono appunto i moderati d’entrambe le parti che vinceranno alla fine la partita. Per il momento, si nota in Pakistan un notevole abbassamento dei toni retorici e anti-occidentali.
Qualche settimana fa, in un seminario su questo tema a Karachi, ho preso conoscenza d’un dato che mi ha impressionato: l’80% degli studenti dell’Università di Peshawar è convinto che l’Islam sia sotto attacco da parte dell’Occidente. Se uno analizza la storia dal XIX secolo in poi si renderà conto che gli avvenimenti possono essere interpretati in quel modo, almeno sino all’11 settembre. E in parte anche dopo. Così l’hanno vissuto per esempio gli afghani. In Occidente, un simile studio darebbe il risultato opposto. A mia maniera di vedere, nessuna delle cose è del tutto vera: tra Islam e Occidente (per loro mondo cristiano) esiste un’incomprensione di fondo, fondata in secoli di non-dialogo e di squilibri che adesso si sono trasformati in terrorismo (v. anche Mario Giro su Limes, che condivido completamente).
Il conflitto vero rimane interno al mondo islamico, che non ha ancora digerito le proprie fratture successive alla scomparsa di Maometto né la centralità che gli ha procurato il petrolio dal 1945 in poi. E che lotta con difficoltà in parte contro l’idea stessa di modernizzazione. In questo quadro, attaccare l’Occidente è una diversione tattica dall’obiettivo di fondo di tutti i gruppi islamici radicali, il cui obiettivo è criminalizzarlo per evitarne l’espansione sui loro territori. Quella del califfato è una bufala, loro attaccano l’Occidente per narcotizzarlo, alimentare l’odio e ridurne l’appeal sul mondo islamico. Ma esiste, nel mondo globale, la possibilità di rimanere lontani e separati? Non credo sia più possibile tornare indietro verso società culturalmente omogenee: siamo condannati a capirci.
* L’autore è Ambasciatore aggiunto dell’Unione Europea in Pakistan. Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali.
In copertina, Monumento in memoria delle vittime dell’attentato alla Army Public School di Peshawar, foto di Masroor Gilani
DATA ORIGINALE DI PUBBLICAZIONE: 17-11-2015
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