Cinque anni dopo viaggio ad Haiti che si rialza dalle macerie

16 Gennaio 2015

Era il 12 gennaio del 2010, la scossa arrivò improvvisa, colpì un Paese già piegato dalla disperazione della miseria: Haiti. I morti, oltre 300mila, altrettanti feriti  e quasi 2 milioni i profughi accolti nelle tendopoli. E poi un’epidemia di colera che ad oggi ha provocato oltre 8.600 vittime. Gli stupri, gli edifici dati alle fiamme, i saccheggi e i linciaggi. Tutto sembrò perduto. Ma oggi «Stanotte bruceremo, stanotte saccheggeremo» è soltanto la voce di Bob Marley, nelle parole di Burnin’ and Lootin’ e sui canali di Radio Boukman, a creare un ricordo di ciò che accadeva a Port-au-Prince nel gennaio di cinque anni fa. Il ritmo salmodiato in levare e la malinconia dei testi dei Wailers pervadono la redazione dell’unica emittente di Cité Soleil.

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Un quartiere di Port-au-Prince distrutto dal terremoto (7° Richter) del 12 gennaio 2010, (CC) UNDP

 

«Tutto il mondo conosce questo quartiere – racconta seduto alla scrivania della redazione, mentre si prepara alla messa in onda Jean Joceler, capo dell’informazione – Bande armate, traffici, raffiche di M16 che rincorrono quelle di Ar-15 e poi il terremoto e la morte ovunque. Cité Soleil era tutto questo, ma le cose stanno cambiando». Una camicia di qualche taglia più larga travolge la sagoma del capo informazione che, nelle spalle strette e negli occhi stanchi, nasconde invece la determinazione di chi ha trovato, in un microfono e nelle frequenze 95.9, lo strumento personale con cui contribuire alla rinascita del Paese. «Siamo 35 giornalisti in totale, facciamo cronaca, inchiesta, musica, rubriche e mandiamo in onda in creolo perché, causa l’alto tasso di analfabetismo, la radio è lo strumento mediatico di cui c’è più fruizione».

I ritmi all’interno della radio, che porta il nome di uno dei leader della lotta di liberazione di Haiti, sono frenetici. Chi provvede alla messa in onda delle canzoni, chi prepara la scaletta dei programmi, chi organizza le telefonate agli ospiti. Intanto Joceler spiega: «Durante il terremoto, non avendo subito danni alla struttura, provvedevamo a dare istruzioni logistiche. Tutti i giorni lanciavamo appelli su dove fossero i campi di raccolta, dove avveniva la distribuzione dei viveri e quali fossero le norme da adottare per prevenire l’epidemia di colera. Oggi il nostro impegno è soprattutto sensibilizzare all’importanza dell’educazione scolastica e del lavoro». Non si nasconde nel dire che target delle loro dirette sono anche le bande armate, ma nell’irregolarità dei bassifondi la malavita è spesso autorità. «Non sono mancante minacce. Più volte membri di gang ci hanno sottoposto a intimidazioni e una volta hanno fatto pure irruzione nella nostra sede. Noi non ci fermiamo perché tutta la società haitiana sta cambiando e rinascendo, e noi non possiamo essere da meno».

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Haiti, Port-au-Prince, foto di Blue Skyz Studio 

 

La rinascita di Haiti infatti è visibile non soltanto nelle statistiche sulla situazione a 5 anni dal sisma. Meno di 100mila sfollati vivono ancora nei campi, quasi la totalità dei detriti presenti nelle strade sono stati rimossi e l’epidemia di colera è stata contenuta notevolmente, registrando 132 morti nel 2014; il cammino di ripresa lo si scopre nei vissuti dei singoli che oggi, ebbri del presente, riscuotono il proprio credito di vita in odio alla morte, pervasi da un senso di vendetta collettiva nei confronti del terremoto e di quegli uomini che durante i giorni della tragedia si macchiarono loro stessi dell’orrore. Le violenze sessuali all’interno dei campi profughi infatti furono molteplici, incalcolabili. Un rapporto delle organizzazioni umanitarie stimò che il 14% delle famiglie haitiane tra il gennaio 2010 e il gennaio 2012 contava almeno un membro del nucleo famigliare vittima di abusi.

Un problema, quello degli stupri, che ad Haiti ha radici ancor più profonde. Durante le dittature di François Duvalier “Papa Doc” e del figlio Jean-Claude Duvalier “Bébé Doc” lo stupro era utilizzato come strumento di tortura contro gli avversari politici, stessa pratica venne adottata dal presidente golpista Raoul Cédras dal 91 al 94 e poi ancora: dal 2004 al 2006, nel periodo che andò dal colpo di Stato che depose l’allora presidente Aristide e che durò sino all’elezione di René Preval a nuova guida del Paese, secondo i dati del consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti, si registrarono oltre 35mila casi di violenza nei confronti delle donne. Il tutto in un Stato che fino al 2005 considerava la violenza sessuale semplicemente un reato contro la morale pubblica.

«Abbiamo dato vita a un’associazione di vittime per le vittime e la nostra battaglia è quella di dare supporto logistico psichiatrico, medico e legale a quelle donne che vengono abusate. Inoltre facciamo prevenzione e conduciamo battaglie legali perchè lo stupro venga condannato con pene severe»: A parlare è Jocie Phirstein, rappresentante dell’amministrazione generale di Kofaviv, l’associazione creata nel 2004 da Marie Eramithe Delva e Malya Villard Apollon, quest’ultima donna dell’anno 2012 per la CNN. Violentata due volte, Malya perse il marito massacrato di botte perché cerco di difenderla durante una violenza di gruppo e poi, come se il destino si ripetesse con una ciclicità di pura perfidia, affrontò anche il dramma di una figlia che venne abusata a 14 anni all’interno di un campo profughi.

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All’interno di una casa di accoglienza Kofaviv, Port-au-Prince, Haiti, (CC) Digital Democracy

 

«Oggi Malya vive negli Stati Uniti perché le minacce a lei e alla sua famiglia facevano temere il peggio per la sua incolumità, ma le donne di Kofaviv proseguono nella lotta e così, dal 2010 ad ora, abbiamo dato assistenza a 2000 donne, abbiamo intrapreso più di 450 azioni legali ed essendo noi stesse, donne che lavoriamo a Kofaviv, vittime, abbiamo abbattuto il muro di stigmatizzazione e paura che prima avevano le donne quando si trattava di denunciare i propri aggressori e la violenza», piega sempre la rappresentante Jocie Phirstein. Poi, a prendere parola, è Nadia Saintir, 20 anni, stuprata in un campo profughi. «Io sono stata violentata nel 2012. Decisi di denunciare e trovai subito supporto a Kofaviv. Il mio stupratore venne condannato, dopo due anni di galera, però venne rilasciato e ora io vivo nell’albergo dell’associazione dove posso essere sicura che lui non venga a vendicarsi. Ma ora voglio che la mia vita abbia un nuovo inizio». Si interrompe Nadia, il labbro trema e gli occhi esplodono in lacrime di rabbia, confessando così il dolore di chi convive con un passato privo di nostalgia, ma fatto di ricordi divenuti attraverso la condivisione della sofferenza lo strumento per cui non infossare l’atrocità, ma combatterla.

La lotta per una nuova Haiti la si riconosce nelle lacrime, ma anche nei sorrisi e in ogni inquadratura della realtà caraibica. I mercati sono ritornati a popolare ogni via, il traffico caotico dove i Tap Tap, i popolari bus o taxi collettivi haitiani, creano ingorghi è un finimondo di ripresa e nel baillamme collettivo si incontrano studenti che vanno a scuola e operai che si avviano ai cantieri, attori che vanno a teatro e passeggeri senza meta semplici spettatori della rinascita di ogni giorno. Come a Jacmel, dove ogni sera, sul lungo mare Lagou-New York, uomini e donne seduti ai tavolini cenano tra la brezza del vento e la salsedine. Le partite di domino sono infinite e le casse dei “ghetto blaster” degli anni 2000 diffondono musica compas e racine. Tombole improvvisate, bottiglie di rum che infuocano la bocca e incendiano i sorrisi e un’allegria da dopoguerra, autentica, riconfortante e sincera che si mescola insieme alle onde che si infrangono contro gli scogli e il vento che fa danzare le palme.

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Un tap tap a Port-au-Prince

E la danza oggi è ovunque ad Haiti, anche nelle manifestazioni contro il governo che vanno in scena da novembre, organizzate dai partiti dell’opposizione e appoggiate da una larga fetta della popolazione contro l’attuale presidente Michel Martelly. Il peggior avvenire che si prospetta per Haiti è appunto quello di una crisi politica che possa minare la ricostruzione attuata sino adesso. Ad oggi infatti il Presidente Martelly ha posticipato ripetutamente le elezioni della Camera, del Senato e delle amministrazioni locali e ciò causa la mancanza del rinnovo dei membri del Parlamento. L’attuale Presidente si trova a governare per decreto, concentrando il potere nelle proprie mani. L’opposizione oggi accusa Martelly di aver messo in atto una strategia golpista e a invocare la democrazia è anche la società civile, con i suoi intellettuali e artisti, tra i quali lo stesso cugino di Martelly, Richard Auguste Morse, cantante del gruppo di musica vodou R.A.M.. Dal palco dell’hotel Oloffson, dove Graham Greene ha ambientato “I Commedianti”, Richard lancia attacchi contro il presidente e utilizza la sua musica, fatta di parabole e tradizioni religiose, per parlare di Haiti.

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Haiti, Proteste alle elezioni del 2010, (CC) Digital Democracy

 

Foto in apertura di Marco Dormino UN/MINUSTAH

TAG: Haiti, Kovafiv, Port-au-Prince, terremoto
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