Effetti della Presidenza Napolitano: tenuta del sistema, caduta della sinistra

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11 Novembre 2014

Ricordo bene le impressioni di quei giorni del Maggio 2006 in cui Giorgio Napolitano fu eletto Presidente della Repubblica. Il dispiacere per la mancata vittoria del centro-sinistra di Prodi e gli amari presagi di un prevedibile collasso della coalizione, dati i ristretti margini della maggioranza in Parlamento, furono in parte compensati dal raggiungimento di un altro obiettivo inedito e sperato: l’approdo di una delle migliori menti della sinistra europea al Quirinale. In quel momento la conquista della Presidenza della Repubblica si caratterizzava come una sfida più simbolica che politica per la sinistra italiana: si era persa di nuovo l’occasione di essere maggioranza e non si poteva disporre della forza politica per governare il Paese, ma questa volta si presentava la possibilità di far sedere ai vertici delle istituzioni statali una personalità che fosse espressione di una visione del mondo organica alla tradizione del socialismo europeo. Furono in molti a ritenere che lo spirito profondamente repubblicano ed europeista, la prassi politica tesa al confronto ed al dialogo, l’estremo rispetto delle istituzioni, la convinta adesione al dettato costituzionale, la figura solida e rassicurante del vecchio Presidente avrebbero definitivamente convinto un paese di moderati dell’affidabilità della sinistra italiana.

Da quel momento all’interno della sinistra italiana si verificò un mutamento genetico: non fu lo spirito di sinistra ad egemonizzare le istituzioni ed il Paese, ma al contrario furono le istituzioni a diventare una questione organica alla sinistra. A partire dall’elezione di Napolitano l’iniziativa del centro-sinistra italiano si incanalò su due binari: il primo, quello partitico-parlamentare, fu caratterizzato dall’irrilevanza politica e dalla subalternità culturale rispetto al berlusconismo-leghismo, il secondo, quello istituzionale, interpretando rigidamente i limiti e le tutele della carta costituzionale e servendosi di buon senso e di tanta retorica del politicamente corretto, funse da argine contro la deriva populista e xenofoba delle destre maggioritarie. Una simile operazione, nel garantire la tenuta democratica del sistema, alienò all’estremismo berlusconiano la maggioranza moderata del Paese tenendo l’Italia aggrappata al novero dei paesi normali, attraverso le relazioni con le cancellerie internazionali, i contatti con l’Europa e le sue istituzioni, e la rappresentazione di un’immagine alternativa del Paese, rispetto al bunga bunga di Arcore.

Con il declino del berlusconismo e l’avvio della fase di transizione post-Seconda Repubblica l’azione di Napolitano si trasforma profondamente. Le grandi doti di equilibrio esercitate sino ad allora sono adesso declinate in una prospettiva di forte attivismo politico. Mentre, nel corso del 2011, la crisi speculativa investe l’Italia, Il Presidente stringe un rapporto preferenziale e quotidiano con Mario Draghi, dal quale trae le linee guida per interpretare la contingenza europea e direzionare le politiche di salvataggio del Paese attraverso una via d’uscita tecnocratica dal berlusconismo.  In concomitanza della lettera dei 39 punti recapitata dalla BCE al governo Berlusconi, Napolitano assume le redini del Paese favorendo l’operazione Monti, volta a congelare la dialettica politica con la grande coalizione e a mettere la guida del governo nelle mani dei tecnici per perseguire senza obiezioni o negoziati  le ricette di ristrutturazione strutturale che la Merkel e la Troika avevano in serbo per l’Italia, riassumibili in due parole: internal devaluation, ovvero politiche di riposizionamento competitivo basate sulla svalutazione dei salari. Mentre, anche per effetto delle misure restrittive dei tecnici,  Il PIL crolla, la disoccupazione aumenta, i consumi calano e la spirale recessiva si diffonde, agli occhi degli elettori della sinistra “Re Giorgio” non sembra muoversi abbastanza per favorire una mediazione politica del rigore imposto dall’Europa e per promuovere politiche di equità che redistribuiscano risorse dalle classi più abbienti, mostrando anzi persino una crescente irritazione nei confronti delle sempre più diffuse manifestazioni di dissenso provenienti dal mondo del lavoro subordinato e precario.

In particolare, Napolitano commissaria la linea politica e strategica dello schieramento di sinistra, privando il PD di Bersani della facoltà di decisione di ultima istanza (staccare la spina al governo Monti), e plasma a sua immagine una sinistra delle responsabilità sostenitrice di politiche di austerity spesso superficiali, inique e sbilanciate (anche sul piano del discorso pubblico: basti pensare al giovane “choosy”, allo studente “sfigato”, al lavoratore “privilegiato”, oppure alla vicenda degli “esodati”) a svantaggio dei ceti più poveri. Quest’opera di svuotamento della politica, e soprattutto della funzione mediatrice del PD rispetto al mondo del lavoro, della critica sociale e del disagio, esalta una dialettica tutta antipolitica tra tecnocrazia e populismi che svilisce l’iniziativa politica riformista precludendogli ogni margine d’azione e di efficacia propositiva nella risoluzione dei conflitti. Tale dinamica ha finito con l’allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai canali di rappresentanza tradizionali spingendoli a riporre la loro frustrazione in movimenti antisistema come quello di Grillo e la Lega.

Al di là della nomina di Monti, che priva il PD della possibilità di giocarsi eventuali elezioni anticipate sulla scia del disastro berlusconiano, vi sono altri frangenti in cui si verifica plasticamente il commissariamento della sinistra da parte del Presidente Napolitano (con conseguenze a mio parere negative per il Paese): a metà 2012, quando la spinta propulsiva del governo Monti si dimostra del tutto esaurita, l’inquilino del Colle fa capire in tutti i modi di non essere disposto a sciogliere le Camere, reprimendo i fisiologici e comprensibili tentativi bersaniani di approdare alle elezioni con una piattaforma programmatica laburista e anti-austerity;  nel corso della campagna elettorale del 2013, quando il discorso pubblico del leader del PD si dimostra essere forzatamente connotato da un’insostenibile vaghezza sia sui vincoli europei che sul tema delle alleanze, sempre a causa della pressione istituzionale; nel periodo successivo alle elezioni del 2013, quando Napolitano si rifiuta di conferire formalmente il mandato esplorativo a Bersani, non consentendo al leader democratico di sfidare fino in fondo i grillini sul terreno del cambiamento.

Nella criticità del momento storico in cui si trova a “governare” il Paese, dunque, Napolitano dirige il processo di transizione italiana verso una configurazione post-berlusconiana più simile ad una riedizione della Prima Repubblica che alla dimensione di un normale paese europeo. Nel fare questo, il primo presidente post-comunista della storia italiana dà l’impressione di effettuare una netta scelta di campo a favore della prosecuzione dei vecchi equilibri di potere, tutelando soprattutto gli interessi della finanza, del grande risparmio e del grande capitale, in piena continuità rispetto alle politiche conservatrici caldeggiate dal consesso europeo negli ultimi anni. Il Napolitano Presidente sembra, dunque, essere rimasto vittima della sindrome tipica del politico “migliorista”, per la quale a forza di rinunciare a ciò che si ritiene giusto per privilegiare ciò che si reputa necessario si finisce con lo snaturarsi e l’allontanarsi sempre di più dalle esigenze di coloro che in origine si intendeva rappresentare.

 

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