Teatro

Il gioco dei potenti: una ri-lettura dell’Adelchi di Manzoni

Più di duemila versi condensati in mille, e la rappresentazione che diventa lettura. Ma Adelchi mantiene la sua carica esplosiva di critica della storia come storia di potenti.

11 Maggio 2025
L’idea è formidabile. Recitare l’Adelchi di Manzoni come la lettura di un testo, non come una rappresentazione teatrale, bensì come lettura di una rappresentazione, e sostenendo poi la lettura con un flusso continuo, sottostante, di musica. Ma allora che sia davvero lettura, non declamazione. I versi – e lo vado sostenendo da sempre – vanno detti, non urlati. La musica che accompgna lo spettacolo da parte sua deve essere discreta, non coprire le voci, che altrimenti, appunto, sono costrette a urlare. Niente di tutto questo si è riscontrato nello spettacolo allestito al Teatro Arcobaleno di Roma, dove un’amplificazione esasperata sparava la musica a livelli di discoteca e gli attori si vedevano costretti a gridare per superare il volume della musica. Adelchi, si ripete, non è una tragedia scritta per le scene, ma per la lettura. Lo si era detto anche di Seneca, E invece proprio da Seneca nasce il teatro moderno, prima in Italia, poi in Inghilterra. Non è vero, infatti, che Adelchi sia una tragedia poco teatrale. È teatralissima. Ma bisogna vedere che cosa s’intenda per teatro. Anche Byron fu accusato di non essere teatrale. In Inghilterra, tuttavia, lo si rappresenta con successo, e in Italia Carmelo Bene ha dimostrato che si può recitarlo con successo. Addirittura adoperando come “colonna sonora” la musica di Schumann. Altri drammi di Byron hanno ispirato melodrammi, per esempio i Due Foscari di Verdi. Ma torniamo all’Adelchi di Manzoni, messo in scena o, piuttosto, letto al Teatro Arcobaleno di Roma, da Vincenzo Zingaro che interpreta anche la parte del protagonista, affidando ad altri attori gli altri personaggi: Giuseppe Pambieri è il Re Desiderio, Annalisa Lombardi Ermengarda, Pieo Sarpa Re Carlo, Giovanni Ribò il Diacono Martino, Fabrizio Passerini Svarto, Francesco Polizzi, Vermondo e Anfrido, Alessandro Marverti Guntigi, Sina Sebastiani Ansberga, Paolo Oppedisano, il Legato di Carlo. Musica percussiva, aggressiva, invadente, e banale, di Giovanni Zappalorto. I musicisti sul palcoscenico, le percussioni, di Maurizio Trippitelli, sotto la scena le tastiere dello stesso Zappalorto, il flauto di Francesca Salandri, il corno inglese di Stefania Mercuri, il violino di Angelica Ziccardi, la viola di Chiara Ciancone e il violoncello di Eleonora Young. La regia è di Vincenzo Zingaro. La scena ospita le percussioni, come si è detto, e gli attori, che recitano leggendo il testo da un leggio, fermi. Leggono davanti un microfono. Il volume dell’amplificazione è assordante. Le voci continuamente urlanti per superare il volume della musica. Con un effetto di declamazione esasperata che fa perdere tutte le sfumature espressive del verso. Nemmeno Alfieri va declamato, ma va detto, recitato. Tanto più allora Manzoni che, pur seguendo la tradizione, e l’influsso alfieriano si sente, tende tuttavia a scioglierne le asprezze e a costruire un verso più discorsivo, non enfatico, di conversazione. Tutta la poetica manzoniana del quotidiano, di uno stile di conversazione, di riflessione, va perduta. Il miracolo di questa tragedia sta invece proprio nel tono discorsivo con cui si dicono esperienze sublimi. Piacque a Goethe per questo. Il poeta tedesco vi riconobbe l’operazione del suo stesso teatro: il verso come misura ritmica e non come amplificatore di un’enfasi esteriore. Si pensi a testi come Stella, Torquato Tasso, Ifigenia in Tauride. La declamazione conduce perfino fuori strada, come quando Adelchi dice: “incontro / L’apostolico sire il campo tosto / Ei moverà“. “Tosto” non è attributo di “campo” ma avverbio che precisa il senso del verbo, “ei moverà”. Senso: “egli si muoverà presto incontro al signore apostolico”. Invece l’attore, Zingaro, fa una pausa dopo “tosto”, parola in fine di verso, e poi attacca “ei moverà”. Perciò l’orecchio percepisce un “campo tosto”. La pausa andava dunque fatta tra “campo” e “tosto”, e dire di seguito “tosto ei moverà”, perché l’orecchio percepisse l’avverbio che precisa il significato del verbo. Altrove si è anche modificato il testo. Con l’idea di renderlo più comprensibile al pubblico di oggi (lo fece anche Albertazzi, mettendo in scena l’Agamennone di Alfieri, ma sbagliava anche Albertazzi): nell’ultimo, sublime, appello di Adelchi morente c’è una visione ancora pessimistica della storia, dove trionfa l’arroganza dei potenti e viene oppressa la gente comune. Manzoni tenterà una risposta meno pessimistica sulla storia nei Promessi Sposi. Adelchi dice:
Godi che re non sei; godi che chiusa
All’oprar t’è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v’è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto…
Zingaro modernizza la lingua. “Patirlo” diventa “subirlo”, “dritto” diventa “diritto”, con il che oltretutto è reso ipermetro il verso. Quando si mette in scena un classico, o se ne accetta anche la lingua, o l’idea di modernizzarla di fatto ne modifica l’impostazione. La lingua di Alfieri, come poi quella di Manzoni, è la lingua di quel teatro. Se la si ritiene oggi troppo difficile, troppo letteraria, e dunque poco teatrale, allora, forse, l’operazione da compiersi è un’altra. Riscrivere tutta l’opera in un’altra lingua. Ma l’opera resterebbe poi la stessa? Per un poeta, per un drammaturgo, la scelta della lingua non è un optional, ma tutto, l’essenza stessa della sua poesia, della sua drammaturgia. Chi rimprovera a Pirandello la sua lingua, come lontana dalla lingua che parlavano e parlano gli italiani, dimostra di non avere ben compreso il teatro di Pirandello, che non si preoccupa affatto di una corrispondenza realistica con la realtà. Riuscite a immaginare il suo teatro in un’altra lingua?

Ciò detto, come si diceva all’inizio, l’idea è formidabile, ma pur troppo attuata a metà. Un uso più discreto della musica e una dizione più discorsiva dei versi conferirebbe allo spettacolo un più incisivo segno di attualità. Il primo coro della tragedia suona, infatti, particolarmente pertinente nella situazione attuale della politica italiana e del mondo. Due potenti, il re longobardo e il re dei Franchi si spartiscono un paese. E il paese immagina in uno dei due un liberatore. Ma nelle scene finali il liberatore stringe patti con i potenti del re sconfitto, quelli che lo hanno tradito per conservare il potere, che hanno anzi permesso la vittoria del liberatore proprio con il proprio tradimento. Le parole di Adelchi morente sono l’unico commento possibile: al mondo non resta che far torto o patirlo. Il pubblico segue con interesse lo spettacolo e applaude anche a scena aperta. Il confronto con i nostri classici non è mai vano. Manzoni poi, se lo liberiamo dall’aura, non sua, di messaggero cattolico della civiltà italiana, ha ancora oggi molto da dirci. Magari tutti i cattolici italiani fossero moderni, aperti, critici di ogni potere, anche di quello della Chiesa, come lo fu Manzoni.

In coda, qualche esempio di come si recita un classico, e i suoi versi, fuori d’Italia. Ralph Fiennes nel Coriolanus di Shakespeare, il Torquato Tasso di Goethe, recitato da una compagnia tedesca, il Manfred di Byron recitato da un solo attore, e con la musica in sottofondo, uno splendido esempio di lettura. Come si può ascoltare, né gli attori inglesi né quelli tedeschi pensano che perché devono recitare dei versi debbano declamarli. Li dicono con naturalezza, fluidità, con uno stile perfetto di conversazione. La musica del verso sta nella sua metrica. Non c’è bisogno di enfatizzarla. Del resto, più volte, dopo avere visto un film o francese, o di lingua inglese, nella versione originale, riguardando poi la versione con il doppiaggio italiano si resta disorientati dall’enfasi inutile, dalla voce fastidiosamente impostata dei doppiatori, come se doppiando il film non avessero ascoltato gli attori francesi, inglesi dire nel film le proprie battute. E nei film, in genere, si recita in prosa. Di seguito Carmelo Bene, in un passo del Manfred. Attore che faceva ricorso anche all’enfasi. Ma che si rivela adeguata all’impostazione del passo. Quasi una lente che lo distanzia. In conclusione si ascolti come l'”enfatico” Gassman dice – sì. dice – il racconto del Diacono Martino.

https://www.youtube.com/watch?v=DN-SOKLteKM

https://www.youtube.com/watch?v=oG0Dj9oULk8

https://www.youtube.com/watch?v=HUyUudR9KoE

https://www.youtube.com/watch?v=wpcMvFXkmeE

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.