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Filosofia

Quant’è falso (e pericoloso) Dio

di Antonio Vigilante
23 Settembre 2018

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno?
Abbiamo bisogno di senso, dice Givone. E chi potrà negarlo? Che le religioni siano nate proprio per rispondere al nostro bisogno di senso lo capisce anche un bambino, così come capisce che un Dio-Tappabuchi (Bonhoeffer) è evidentemente falso, nulla più che un feticcio consolatorio per soggetti fragili e narcisisti. E chi abbia anche solo qualche rudimento di filosofia sa che abbiamo cominciato a pensare – a pensare filosoficamente – perché la risposta delle religioni non era soddisfacente. Perché offendeva – offende – l’intelligenza. Perché non regge al pensiero critico. E perché è violenta. Ed è questo il punto sul quale è bene soffermarsi. Givone conclude evocando il sacro come antidoto al male presente. “Se il sacro non ci fosse, il bene e il male verrebbero immediatamente catturati all’interno di un relativismo che li svuota di valore” (p. 160). C’è da dubitarne. Il sacro, così difficile da definire, da cogliere, da circoscrivere, non si lascia ridurre all’etico. Ogni processo di sacralizzazione è accompagnato, sempre, da un processo di dissacrazione. Il sacro prepara, giustifica e fonda il massacro. E’ questo processo che fa della Bibbia un libro così atroce, una spaventosa macelleria di uomini, donne, bambini stuprati, sventrati, massacrati per la gloria di Dio e del suo popolo. “Nessuna persona votata con anatema può essere riscattata; sia messa a morte” (Levitivo, 27, 29). Senza nessuna pietà.
Non bisognerebbe mai parlare di Dio senza specificare di quale Dio si sta parlando. Perché Dio può essere il burbero patriarca ebraico-cristiano, il motore immobile aristotelico, la Natura spinoziana o il Brahman induistico, e sono realtà diversissime tra di loro. Benché non manchi di accennare ad una metafisica della luce che potrebbe aprire spiragli su tutt’altro (ed è appena il caso di notare che lo fa senza alcun riferimento al grande Sohrawardi: non si può pretendere che un filosofo italiano conosca la filosofia islamica), il Dio di Givone è quello ebraico-cristiano. Non gli crea alcuna difficoltà logica sostenere che solo il popolo ebraico “è realmente unito a Dio”, e che tutti gli altri sono esclusi dal patto perché “appartengono alla natura esattamente come Israele appartiene a Dio” (p. 41) (e dunque appartengono alla natura, per dire, gli indiani che con il Buddha e Mahavira già cinquecento anni prima di Cristo affermano che bisogna evitare la violenza contro qualsiasi forma di vita). Non gli crea alcuna difficoltà, naturalmente, parlare di Satana e dell’Anticristo. La sua tesi si può rovesciare. Non è tutto possibile perché Dio non c’è. E’ tutto possibile sull’uomo quando ci sono un Dio e un anti-Dio, una separazione che si riflette sulla terra nella distinzione tragica e criminale tra esseri che sono da Dio ed esseri che sono da Satana. Con i primi che si ritengono in diritto di sterminare i secondi. E di farlo in nome di Dio. Se Dio c’è, nessuno è al sicuro. Hitler non ha seminato orrore e morte in nome del nulla o dell’ateismo. Il suo motto era Gott mit uns. Dio è con noi. Ed è davvero patetico risolvere la faccenda del terrorismo religioso sostenendo che esso è il prodotto “di una fede che non c’è più” (p. 158). Come se non ci fossero secoli e secoli di storia cristiana a dimostrare quanti crimini – e quanto terribili – è possibile compiere in nome di Dio.
Presso Adelphi è uscita la traduzione italiana di un bel libro di Hervé Clerc, che non è filosofo (almeno non in senso accademico), ma che appare molto meno ingenuo di Givone: A Dio per la parete nord. Esistono due modi di concepire Dio e il Divino, sostiene. Il primo è il Dio-Persona della nostra tradizione ebraico-cristiano. L’altro è il Ciò dei mistici, una Divinità sfuggente, non riducibile ad alcun bisogno umano, che è tuttavia al centro di una esperienza religiosa straordinariamente ricca e che ha tratti comuni nelle diverse tradizioni: dalla mistica di Eckhart e Silesius al sufismo di Ibn Arabi e Al Hallaj al buddhismo, al Brahman induistico ed al Dao. E’ il Dio (ma si può anche non parlare di Dio) cui si arriva dalla parete nord, quando la parete sud è diventata impraticabile. La tesi di Clerc è che la morte di Dio annunciata da Nietzsche è la morte del Dio-Persona, evento che può aprire l’accesso all’altra parete. “Se tale intuizione è corretta, – scrive Clerc – il fenomeno che chiamiamo ‘modernità’ contiene in nuce qualcosa di nuovissimo, sbalorditivo, persino sconcertante, di cui possiamo scorgere già i segni premonitori”. Ma Clerc osserva la crisi della religione in un’ottica interculturale, attento alla complessità del fenomeno. Un’ottica, ripeto, improbabile in italia. Paese nel quale tocca invece assistere ad improbabili scalate del versante sud della montagna col solo fragile puntello della retorica.

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