Quando la cultura rischia di diventare mero prodotto o reperto da museo

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8 Maggio 2019

“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita”.
Perdere e smarrire hanno in comune un concetto base: cessare di possedere, non avere più la disponibilità di una cosa. Le parole smarriscono la loro funzione, cessano di essere portatrici di idee forti e robuste e si rendono disponibili alla legge del mercato. Le parole, perció, sono merce e in quanto tale tutti hanno diritto a venderle. É in sintesi quanto mi pare sia accaduto al Salone del libro di Torino.
Il problema più che il fascismo, mi pare sia il liberismo.
Il mercato ha invaso tutte le istituzioni sociali, compresa la letteratura e le istituzioni pubbliche che dovrebbero presiedere alla sua tutela. Al pari della ricchezza che si concentra sempre di più in poche mani, anche la cultura, il sapere, lo spazio del comunicare, si concentra in oligopoli in cui prevale su qualsiasi considerazione morale la logica del mercato.
Il Salone del Libro è un evento organizzato e finanziato da soggetti pubblici o para-pubblici. Se una casa editrice fascista, il cui proprietario è stato coinvolto in diversi pestaggi e aggressioni di stampo neofascista, può tranquillamente esporre le sue indecenze, la responsabilità è da imputare a chi dirige l’evento, a cui non interessa minimamente utilizzare denaro pubblico per consentire l’apologia di fascismo. Basta andare sul sito della Fiera per leggere i nomi dei soci sostenitori: dal MIBAC alla Regione Piemonte passando dalla Banca Intesa San Paolo.
Chi risiede in queste istituzioni non ha, chiaramente, alcun rapporto con il sentimento della Resistenza e della Costituzione: non c’è scandalo nel nazifascismo, non c’è orrore nell’idea che una scolaresca possa passare per i loro banchi e apprendere che quelle idee hanno dignità di espressione come qualsiasi altra. I contratti già firmati hanno la priorità, all’idea liberista di democrazia consegue che le parole sono mercanzia da vendere.
Oggi ci sono i fascisti, magari domani troveremo mafiosi e ndranghetisti a dire la loro. Del resto chi era abituato ad abbinare l’angusta parola cultura alla Treccani o al Premio Nobel, sentendo parlare della cultura della mafia deve fare un salto di qualità in basso e immaginare un fucile spianato (immagine cara a Salvini), prendendo atto della dilatazione semantica dei confini di questo vocabolo col quale non si designa più ció che é colto, coltivato ma tutto ció che é. Una cosa, per il solo fatto di esistere é già cultura. Il vocabolo é divenuto da intellettualistico a onnicomprensivo. Bisogna, invece, ritornare ai tempi in cui “ cultura” era una parola che dava fastidio agli autocrati, un impiccio che spinse Il nazista Hermann Goering ad affermare che al sentir pronunciare la parola “cultura”, toglieva la sicura alla rivoltella.
Oggi, invece, se qualche relitto del Museo di Auschwitz si ribella, tanto meglio: la polemica fa audience, solletica i media, crea maggiori flussi di pubblico e perché no, farà vendere a prezzi maggiorati gli spazi espositivi l’anno prossimo.
La questione, perció, mi pare legata all’egemonia culturale. Più che i sostenitori di Salvini e CasaPound, l’avversario non è rappresentato tanto dagli stolti ancora legati a logiche inneggianti Hitler e Mussolini, mi sembra, invece, che sia da stanare in un’élite depoliticizzata e amorale che dirige fondazioni, banche, università, ministeri e che di fronte al fascismo pensa di potersi comportare come di fronte a un prodotto in scatola.
É evidente che il fascismo non è sparito nel 1945: la sua visione del mondo e la sua traduzione in comportamenti quotidiani sono, purtroppo, più coriacee di Benito Mussolini. Lo diceva già Umberto Eco nel suo “Il fascismo eterno” 24 anni fa in cui individuò alcune caratteristiche utili per disegnare l’identikit del fascismo eterno, appunto. Smascherare la sua replica in altre forme più insidiose e pervasive, stanarlo sotto le sue mentite spoglie, debellare i meccanismi su cui basa il suo consenso, é compito dell’intellettuale.
Dante ritrova la sua strada grazie a Virgilio; smarrire, infatti, implica la speranza del ritrovamento. La vicenda del Salone cosí come é venuta a profilarsi in seguito alla denuncia dello scrittore Christian Raimo puó considerarsi una strada smarrita o una scommessa persa laddove il “perdere” implica una cessazione intesa in modo definitivo?
Credo che Il Salone del libro in quanto sede che ospita cultura dovrebbe essere più selettivo, dovrebbe ispirarsi al rigore che vige nel quasi identico “coltura” perché nessuno meglio di un torinese sa che nella coltura del riso le erbacce vengono eliminate senza pietà.

TAG: salone de libro
CAT: Letteratura

Un commento

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  1. cristiano 5 anni fa

    Il tema è indubbiamente complesso sia per quanto riguarda il rapporto tra libertà e democrazia, sia per quanto riguardo quanto detto dall’autrice del blog in merito al rapporto tra mercato e cultura.
    Mi ha però colpito la frase di chiusura sulla coltivazione del riso (che non è propriamente uno specifico torinese) e sulle erbacce. Oggi si inizia faticosamente a parlare di biodiversità e si inizia a introdurre proprio nelle risaie sistemi di coltivazione che cercano di risolvere, attraverso rapporti di equilibrio tra diverse forme di vita, la produzione di quelle specie che rappresentano un valore e una risorsa per gli uomini.
    È un modo certamente più difficile ma più rispettoso della vita nelle sue diverse forme.
    Mi viene in mente il film di Di Costanzo, “L’Intrusa” dove si parla dello sforzo e del coraggio di una donna per superare la facile esclusione dalla vita sociale coloro che appartengono a famiglie pericolose e condannate. Non si tratta di accettare tutti per ragioni di mercato ma è forse però opportuno da parte di coloro che si dichiarano uomini di cultura alzare il livello del confronto, superando schematismi e facili contrapposizioni, e introdurre intelligenza e visione.

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