La chiusura della Betafence e lo sporco lavoro del private equity

4 Settembre 2020

La chiusura della Betafence di Tortoreto non è l’effetto della recessione, ma l’ennesimo caso di speculazione finanziaria sulle spalle di centinaia di famiglie e di interi territori, sacrificati agli interessi di azionisti i cui dividendi sono intoccabili. La politica italiana di Carlyle, il fondo di private equity guidato in Europa da Marco De Benedetti, ci mostra come funziona questo sistema.

E’ nell’estate di 3 anni fa che la proprietà di Praesidiad, player mondiale nel settore delle recinzioni, passa da CVC Capital Partners, che l’aveva acquistata meno di tre anni prima, a un altro fondo di investimenti: Carlyle Group, 220 miliardi di dollari di asset in tutto il mondo, attività a cui si  affiancano le operazioni nel settore immobiliare ed energetico. Fondata negli anni ’80 a Washington con un capitale iniziale di 5 milioni di dollari Carlyle è diventata un importante fondo di investimenti, il cui prestigio è legato anche alla perizia mostrata nel reclutare azionisti e consulenti  nel gotha della politica e dell’economia mondiale: tra questi la famiglia Bush, l’ex premier britannico John Major, ma anche la famiglia Bin Laden (uscita di scena dopo l’11 settembre) e George Soros.

Di Praesidiad, insieme a marchi come Hesco e Guardiar, fa parte anche Betafence, con otto siti produttivi nel mondo, di cui uno a Tortoreto, vicino a Teramo: 155 addetti, che arrivano a 300 se calcoliamo anche l’indotto. Ed è qui che a fine luglio i manager londinesi di Praesidiad hanno annunciato ai rappresentanti sindacali di FIOM CGIL e FIM CISL che ai primi del 2021 la produzione sarà delocalizzata per questioni di produttività. Dove? Probabilmente in Polonia. E’ stesso destino che a fine ottobre dovrebbe toccare anche all’impianto Hesco Bastion a Leeds nello Yorkshire. Qui i posti di lavoro persi saranno una cinquantina – denuncia il sindacato GMB – e per questo a luglio il deputato laburista eletto nel collegio di Leeds Central, Hillary Benn, ha scritto all’ad di Praesidiad Dino Koutrouki per chiedergli di riconsiderare il trasferimento di tutte le operazioni di produzione, assemblaggio e stoccaggio a Kotlarnia, cittadina di 750 abitanti nel sud della Polonia, già sede di uno stabilimento Betafence. Nel 2018 il gruppo aveva annunicato anche la chiusura dello stabilimento di Sheffield, che produceva recinzioni agricole e impiegava 90 dipendenti, salvo cambiare idea l’anno dopo e cederlo alla Hamtpon Steel.

Gli investimenti italiani di Carlyle

Del resto lo ‘sporco lavoro’ dei fondi di private equity è proprio questo: acquisire partecipazioni societarie per poi rivenderle realizzando una plusvalenza per i propri azionisti, che nel caso di Carlyle sono investitori privati ma anche banche, fondi sovrani e fondi previdenziali, tutti beneficiari, pur in misura diversa, di un sistema perverso in cui si può persino giustificare il licenziamento di centinaia di persone al di qua dell’oceano dicendo che serve a pagare la pensione agli ex dipendenti pubblici della California! In Italia Carlyle ha svolto quel lavoro acquistando e rivendendo numerose imprese di varia stazza e in diversi settori. Nel 2000 compra il 50% dell’azienda veronese Riello specializzata in caldaie e lo rivende 4 anni dopo alla famiglia di imprenditori che glielo aveva ceduto, che però non riesce a risollevare l’attività dalla crisi e alla fine la vende a un’azienda americana. Anni dopo Ettore Riello racconta: ‘Se dicessi che rifarei tutto, sarei uno stupido. Sicuramente non mi riprenderei dentro il fondo Carlyle, che aveva obiettivi troppo elevati di rendimento sull’investimento e troppo immediati’. Nel 2003 la società di Washington compra il 70% di FIAT Avio, ramo aerospaziale della casa automobilistica (Finmeccanica acquisisce il restante 30%) e lo rivende tre anni dopo al fondo britannico Cinven, ricavandone una plusvalenza da un miliardo di euro. Nel 2013 Avio finirà ceduta all’ americana General Electric, terza vendita in 10 anni, un caso che tre anni più tardi il Sole24Ore, condensando il senso di un opuscolo dedicato alla vicenda da un ex manager del gruppo FIAT, definirà ‘emblematico della finanza senza scrupoli che divora l’economia reale’. Lo stesso anno Carlyle acquista Marelli Motori, che rivende l’anno scorso alla britannica Langley. Nello stabilimento veneto di Arzignano nel 2013 ci sono 600 dipendenti, che nel 2018 sono scesi a 550 e i nuovi acquirenti annunciano subito 40 esuberi. Nel 2015 viene acquistata Sematic, azienda di automazioni industriali specializzata in ascensori. L’anno scorso nello stabilimento di Osio di Sotto (Bergamo) vengono annunciati 60 esuberi su un totale di 300 addetti, causa il trasferimento di una quota della produzione in Ungheria, ma la reazione dei lavoratori riesce a stoppare l’operazione. Lo stesso anno nel carniere di Carlyle arriva anche Comdata, importante gruppo che gestisce tra gli altri i call center di WindTre e dell’INPS (quest’ultimo se l’è aggiudicato con un ribasso dell’81%, a seguito del quale ha dichiarato di non poter applicare la clausola sociale ai dipendenti). Tre anni dopo Carlyle sembra sul punto di vendere Comdata, che dovrebbe fondersi con un concorrente tedesco. Poi però l’operazione sfuma e arriva l’annuncio di oltre 200 esuberi, poi convertiti in 900 contratti di solidarietà. L’ultima acquisizione nel settore manifatturiero è Forgital, azienda vicentina della famiglia Spezzapria fondata nel 1873, con 9 stabilimenti e 1.100 dipendenti, specializzata nella produzione di anelli forgiati e laminati impiegati nel campo aerospaziale, petrolifero, nelle costruzioni e nel settore energetico. A marzo, in pieno lockdown, i lavoratori dello stabilimento di Velo d’Astico sono costretti a scioperare per chiedere la sospensione della produzione a tutela della salute e ai  primi di aprile – denunciano FIOM FIM UILM – Forgital è una delle 3.000 aziende del vicentino a riprendere l’attività in autocertificazione, pur non possedendo un codice ATECO che l’autorizzi a riaprire (AltoVicentinoOnline0504020).

Nel settore della moda Carlyle nel 2008 compra il 48% di Moncler, partecipazione che negli anni viene ridotta fino a essere definitivamente liquidata nel 2014, e nel 2012 Twin Set, azienda di abbigliamento e accessori di lusso di Carpi (Modena), che lo scorso gennaio viene affidata a JP Morgan per la vendita. L’anno scorso l’azienda, che ha chiuso il 2018 con 42 milioni di profitti (su 235 di fatturato), si scontra col sindacato perché i lavoratori chiedono un premio di produttività. Nel 2017 il carniere di Carlyle si arricchisce anche di IRCA, casa produttrice di cioccolato di Gallarate con 323 milioni di euro di fatturato nel 2019 e nel 2018, insieme a un altro fondo, Carlyle dà vita a Design Holding, polo italiano della progettazione d’interni e dell’arredamento di lusso.

Infine quest’estate il fondo americano ha presentato un’offerta per rilevare le Officine Maccaferri di Zola Predosa (Bologna), altra azienda familiare, attiva nel campo dell’ingegneria civile, circa 3.000 dipendenti, finita in concordato preventivo. A fine luglio però il piano presentato da Carlyle veniva bocciato perché ‘Il tribunale, tra l’altro, ha sottolineato i costi previsti a favore dei professionisti al lavoro sul dossier (una parcella da oltre 3 milioni, un conto salato per una società a corto di soldi) e un tasso superiore di diversi punti ai limiti consentiti dalla legge che sarebbe addirittura a rischio usura. In totale l’esposizione di Officine sfiora i 250 milioni’ (CorriereBologna250720). Nei giorni scorsi a imprimere una battuta d’arresto al tentativo di acquisizione è arrivata la notizia dell’interessamento di un’altra multinazionale straniera, di cui però non è stato rivelato il nome.

Dunque il tessuto produttivo italiano, fatto in larga misura di piccole-medie imprese a gestione familiare, spesso con una storia secolare alle spalle, ma perennemente in crisi di liquidità e con problemi di internazionalizzazione, offre prede particolarmente succulente a investitori pronti a comprare, smembrare, delocalizzare e vendere, preoccupati soprattutto di gonfiare i propri dividendi, senza far troppo caso all’impatto sociale di tali operazioni. Forse non è un caso che a guidare Carlyle Europe Partners sia stato chiamato un italiano che di capitalismo familiare se ne intende, Marco De Benedetti, figlio di Carlo, ex ad di Telecom Italia, azionista delle aziende di famiglia Cofide e CIR, di recente autore coi fratelli della vendita del Gruppo GEDI (Repubblica-Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX) agli Agnelli, che ha fatto infuriare il padre e messo sottosopra redazione del giornale fondato da Scalfari, infine membro del cda di numerose aziende della galassia Carlyle, tra cui Moncler e Twin Set, Marelli Motori e Sematic.

Come scaricare i problemi sui lavoratori

Sono tempi ‘duri’ per i fondi di investimento. Le vendite rallentano ed entrate e profitti crollano. A fine ottobre 2019 Carlyle registrava una riduzione del 25% delle entrate su base annua (Reuters311019) e con l’arrivo del coronavirus le cose non sono migliorate: soltanto nel primo trimestre del 2020 il fondo ha fatto registrare perdite nette per 612 milioni di dollari equivalenti a 1,76 dollari per azione (Barrons300420). E se diminuiscono le entrate calano i profitti e i dividendi degli azionisti. Per Carlyle alle difficoltà legate a un trend generale del settore si aggiungono gli effetti di operazioni andate male. A marzo Forbes scriveva, ad esempio, che col fallimento di Acosta, importante azienda americana del settore alimentare, ‘l’investimento da 1,4 miliardi di dollari di Carlyle e dei suoi coinvestitori è stato completamente spazzato via. E’ stata la più grande perdita accumulata in un’operazione di buy out nella storia lunga 33 anni della società di Washington’ (Forbes040320).

Alle difficoltà di Carlyle Praesidiad aggiunge le proprie. Lo scorso ottobre Moody ha abbassato il rating del gruppo denunciando una diminuzione della capacità di generare profitti per varie ragioni, tra cui ‘un -17% delle entrate di Hesco per la riduzione dei volumi, i ritardi nella realizzazione di alcuni progetti nella divisione Guardiar e alcuni investimenti aggiuntivi per rafforzare il management team di Betafence e la divisione commerciale di Guardiar. Le entrate nella prima metà del 2019 sono scese del 20% e, per le stesse ragioni, l’EBITDA rettificato del 41%, anche se le iniziative prese per migliorare la profittabilità nella divisione Betafence hanno cominciato da dare un contributo positivo e, dopo i risultati negativi del 2018, hanno prodotto una traiettoria positiva  dell’EBITDA della divisione nel secondo trimestre 2019’ (Moodys221019). A maggio poi anche Fitch ha abbassato il rating di Praesidiad, prevedendo una diminuzione dei profitti del 6% nel corso del 2020. Insomma le difficoltà nel settore produttivo e gli effetti di operazioni andate male sono amplificati da mercati finanziari modellati sul dogma per cui anche nei momenti più drammatici l’azionista deve guadagnare. A non avere diritti acquisiti è solamente chi sta sul gradino più basso della scala, come i 300 addetti di Tortoreto, che pure, ulteriore beffa, possono vantare risultati economici positivi (al 31 luglio i profitti di Betafence Italia erano in crescita del 20%).

Di fronte a una catena di comando unificata che si dirama in tutto il mondo, comandando centinaia di aziende e decine di migliaia di lavoratori, questi ultimi invece si ritrovano spesso divisi, privi di coordinamento, se non addirittura in competizione tra loro per aggiudicarsi uno stipendio con cui vivere. La plancia di comando da cui Carlyle dirige aziende come Betafence, Hesco, Marelli Motori, Forgital, Comdata è unica, porta avanti in modo coerente una politica che ha il solo scopo di far affluire dividendi agli azionisti e può decidere di sacrificare questo o quell’impianto, scegliendo per ciascuno il momento più favorevole. Mentre i lavoratori si trovano a difendersi in ordine sparso, con la prospettiva magari di un anno di cassa integrazione a 900 euro al mese, poi la NASPI e infine un programma di ‘politiche attive del lavoro’ dai risultati aleatori. Del resto è una frammentazione che si riproduce pari pari anche nel territorio. Nel teramano oltre a Betafence le vertenze aperte sono già numerose e riguardano aziende come Veco, ATR, Yokohama. Solo nel settore metalmeccanico qui nei prossimi mesi si paventano 500 esuberi.

Questa frammentazione dei lavoratori pesa sia nei rapporti con una politica debole, a cui si potrebbero chiedere interventi più incisivi, che nei confronti di grandi gruppi internazionali come Carlyle e Praesidiad, che, nonostante la potenza di fuoco, in questa particolare fase mostrano inevitabilmente anch’essi punti deboli, battute d’arresto e, non ultime, potenziali fragilità a livello di immagine. Che una parte della soluzione parta proprio da questo aspetto?

Articolo tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 4 settembre.

TAG: Betafence, Carlyle, Praesidiad, private equity
CAT: Sindacati

3 Commenti

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  1. uldio-calatonaca 4 anni fa

    Articoli come questi sono colonne film informazioni, un plauso a Puntocritico

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  2. uldio-calatonaca 4 anni fa

    Articoli come questi sono colonne film informazioni, un plauso a Puntocritico

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  3. gmg 4 anni fa

    Analisi puntuale e corretta, che in gran parte condivido nei contenuti.
    Ho pero’ un dubbio: le imprese target delle acquisizioni sono in gran parte aziende decotte, sull’ orlo del fallimento se non gia’ sottoposte a procedura concorsuale. Se non intervenisse l’ acquisizione, i lavoratori di ritroverebbero probabilmente a casa con qualche anno di anticipo.
    Non voglio con questo dire che i fondi siano dei benefattori, certo, ma solo che uno degli effetti collaterali della loro strategia e’ allungare la vita di imprese ormai alla canna del gas.
    Secondo me, la causa principale del problema e’ ben identificate proprio nel testo dell’ articolo: ” il tessuto produttivo italiano, fatto in larga misura di piccole-medie imprese a gestione familiare, spesso con una storia secolare alle spalle, ma perennemente in crisi di liquidità e con problemi di internazionalizzazione”

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