Quando c’era il teatro. Nessuna CaRezza

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28 Marzo 2021

 

Usciti dall’Out Off ci si ritrova out, off dal quotidiano che abbiamo imparato a digerire. Quello che prestissimo tornerà a impadronirsi di noi, perché sopravvivere è giusto. Però ogni volta che accenderemo il televisione Rezza apparirà, con la sua maschera unica, incisa e spostata, a irridere quel pasto indegno che stiamo consumando. Ogni volta che vedremo una qualsiasi serie TV, anche le migliori americane, sentiremo la voce (una sola voce, tutte le voci, sempre Rezza) del fratello di Rita (una femmina, tutte le femmine, sempre Rezza) che vive solo per il suo cofanetto, amato morbosamente, serie completa dei Fratelli Karamazov, due sole puntate e un solo attore, figlio unico, polemico verso il titolo scelto dagli autori. Ogni volta che andremo a teatro a vedere uno sciachespeare o un dongiovanni ci sentiremo orfani di quel figlio di buona donna di Igor. E quando non troveremo le parole per dire bene una cosa inutile, riascolteremo nel cranio vuoto il treno scagliato della sua prosa, illuminata e mantrica.  Ogni volta che avremo un dolorino all’articolazione di turno vedremo i suoi salti, le pedalate, il correre senza pause, fiatoni, inciampi fisici e vocali. I balbuzienti del corpo, dell’anima e della parola pari sono, nel mondo diviso dal grande Fratto della linea d’orizzonte: uomo fratto uomo: l’uomo si elide.

Scena prima. Legato in cima ad una sorta di monopattino telecomandato un palloncino bianco. Cazzeggia in cerchio il trabiccolo, ciondola la testa/palloncino. L’attore entra con uno spillo e lo fa esplodere. La spensieratezza va stroncata sul nascere! È l’incipit.

L’allestimento, opera della compagna scultrice scenografa Flavia Mastrella, lo guardi e pensi a uno spettacolo per scuola materna, poi gli spazi e gli strumenti si arricchiscono, moltiplicano, stupiscono. Teli e tende che sono vesti, veli, costumi, case, rifugi, nascondigli.

Materna anche la voce che martella nelle orecchie del figlio interpretato dall’attore comprimario muto, Ivan Bellavista, sul quale si disegna un’espressività che è scenografia parallela. La madre che Antonio incarna si intona con una pompetta/peretta, isterica e stonata, e trasmette Ansia: è questo sostantivo femminile e asmatico la prima informazione, la tradizione che resiste e lievita. Travestito da un solo telo azzurro, Rezza la recita, l’ansia: la strega di Biancaneve avvolta come una Madonna, sicura di sé e vigliacca, come solo una meta sicura e finale.

È un ridere carico di meraviglia, una meraviglia che avvelena: ci si sganascia con una domanda muta, interiore, si sente l’appartenenza e insieme lo spaesamento di fronte al tanto, troppo, espresso. La sua follia è morfologica oltre che indotta dal genio, il suo corpo è attraversato da fili di alta tensione alla pari delle sue visioni: Rezza non recita, esplode. È un magnete che vibra a frequenze solitarie e altissime.

Noi siamo il suo etere affamato, la sua merce, siamo la sua carne viva e morente, il suo pasto denudato. Il dolore irrisolto risolto dalla forma. La forma e la demenza, suggerisce beffardo, sono inseparabili. La forma giustifica la demenza. La demenza crea la forma. Soli sembrerebbero due deficienti.

Smascherati dalla maschera. Uno svelamento che ti schiaffeggia, rapido e secco, ti costringe, risparmiandoti il tempo dell’analisi, al confronto penosa e indulgente. Le cosiddette dinamiche di coppia sono ventriloque, le assenze e le trasparenze sono legate al 740, dichiarazione dei redditi che domina e incanala lo stare in due.  Dichiarazione di impossibilità inseguita, la famiglia. Perverse le attrazioni che trattengono un uomo e una donna, talmente stralunate, ignobili e buffe da apparire simboliche. I mostri siamo noi, le sembianze mostruose di Rezza appaiono divine, nel tracciarne i connotati.

Si chiude con l’esilarante terrore dell’uomo spettatore, definito “l’anello debole della catena”. Debolezza fustigata da un sentiero di luce, riflesso da uno specchio rotondo in cima ad una bastone, specchio delle sue brame che Rezza maneggia e scaglia sui volti del pubblico. A turno ci si trova illuminati, attori e muti nostro malgrado, vittime di una storia che ci riguarda anche se inventata e spinta oltre da un monologo che costruisce una commedia di uomini e donne che cercano uno stronzo/a con il quale fare un figlio “e archiviare la pratica”. Esistenza, si suppone. A una donna seduta in alto sibila: “Ti sto immaginando nuda. Nuda contro la parete. E sappi che ora tutti, qui, lo stanno facendo.”. È vero. Poi allo spettatore di fianco a lei dice che non può fare nulla contro l’immaginazione. Mentre l’uomo, per voce dell’onnisciente Rezza, pensa che sia una svergognata, che deve rivestirsi immediatamente, che sicuramente non è la prima volta che si fa immaginare nuda da qualcuno. Non si può fare niente contro l’immaginazione, rassegnati, chiude l’attore. Le vittime restano impassibili, lapidate, come un ragazzone apostrofato Maurizio, che si sta chiedendo, dal pulpito del narratore crudele Rezza, se lo stronzo di cui si parla tanto sia lui. Tutti quelli che gli siedono di fianco, avanti e dietro, vengono obbligati dall’imperativo armato di specchio ad alzarsi e allontanarsi, insistentemente, fino a quando tutti eseguono, dominati e in cuor loro felici di non essere il Maurizio di turno.

Che resta solo, sulla sua poltroncina, come un appestato.

Gli applausi finali lunghi e sostenuti sembrano voler dire un Grazie e un Bastardo! grandi uguali, enormi, e Rezza saltella, gode, si gode quel bagno che sembra colpirlo come un solletico pungente, poi invita Ivan Bellavista, anche lui a busto nudo, dritto, autore di una comandata performance di sola mimica e vigorosa umiltà, che si lascia investire da quel vento di applausi con una smorfia commossa, prima di far salire sul palco Flavia Mastrella, ferma quasi in posa innaturale, uno sguardo abituato alle quinte ora trasfigurato dalla timidezza, sentimento assente fino a quel momento dal palco.

In via Mac Mahon, sul marciapiede, siamo tanti e incapaci di andarcene. Un signore con barba bianca al quale Rezza ha regalato una storia cattiva, con tanto di abuso da parte del nonno quando era in fasce, ha il volto impassibile, impermeabile, lo stesso che teneva durante la lapidazione da faro. L’altro, fresco nome d’arte Maurizio è fermo qualche metro più in là. Sembra pensieroso, quasi sconfitto. Come se il vuoto che gli è stato fatto fare intorno in platea gli sia sceso dentro. E si sente vibrare la domanda che Rezza ripeteva come un mantra usando una faccia incolpevole del pubblico. Ma esiste ancora la spensieratezza?

TAG: Antonio Rezza, genio, teatro
CAT: Arte, Teatro

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