UE

Abbiamo bisogno di un Temptation Island Europe? Sì.

14 Maggio 2025

Ho 38 anni, di mestiere insegno all’università. La mia vita finora è stata piena di momenti di svolta. Situazioni, accadimenti, scelte o periodi che hanno creato un prima e un dopo. A volte in negativo, quasi sempre in positivo. In questa seconda categoria, ricadono sicuramente i miei 6 mesi in Svezia, nel 2011, in Erasmus. Partito dall’Umbria con una valigia blu di 20kg, un inglese iper-maccheronico e qualche calzamaglia (non necessaria) di troppo, mi sono ritrovato a -27 gradi, in una piccola cittadina a 400km a nord di Stoccolma: è stata forse l’esperienza umana, formativa e professionale più bella della mia vita.

In Svezia, per me, è iniziata una nuova vita. Il mio sguardo si è aperto al di fuori della mia città, della mia università, della mia regione. Giorno dopo giorno, passando tutto il mio tempo con studenti e studentesse come me dalla Germania, l’Olanda, la Francia, il Belgio, la Repubblica Ceca o l’Estonia, ho automaticamente sviluppato un’identità sicuramente sempre da qualche parte nascosta in me, ma che non si era mai rivelata ed espressa al meglio: quella europea.

In Erasmus, a -27 gradi, in Svezia, con il sole che per molti mesi ci ha poi lasciato alle 2 di pomeriggio, ho passato tra i 6 mesi più belli della mia vita e sono diventato, a tutti gli effetti, un europeo. Come in un manga giapponese, ho visto lentamente in me formarsi come un tatuaggio indelebile sulla mia pelle, che accanto all’identità ternana, umbra e italiana, ha impresso nella mia pelle anche quella europea. Dopo i 6 mesi in Erasmus, ho cominciato a considerare casa non solo la mia città, Terni; la mia regione, l’Umbria; il mio paese, l’Italia; ma l’Europa tutta. Ho cominciato a considerare fratelli e sorelle i tedeschi, i francesi, gli olandesi… tutti parte di un’unica grande famiglia: l’Europa.

Tornato a casa, mi sono subito però reso conto di essere parte di una élite: quella dei socializzati all’Europa. Alla sua anima, la sua essenza. Perché questo è chi va in Erasmus, oggi come allora: una élite. Soprattutto quando si parte dall’Italia. Dati alla mano, solo poco più del 50% degli italiani oggi si iscrive all’università e solo un minima-minima percentuale di questi studenti e studentesse va poi in Erasmus. Pochissimi/e. Appunto, una élite.

Ovviamente, l’integrazione europea non passa solo per l’Erasmus. Sono tantissimi i programmi e le modalità attraverso le quali negli ultimi 70 anni, come europei, ci siamo frequentati, conosciuti, integrati. Ma per un giovane (all’epoca) italiano che vive in Umbria, giusto per citare il mio caso, conoscere gli europei vuol dire andare in Erasmus. Oppure, pensando soprattutto a chi non ha delle importanti capacità economiche, prendere un volo con una compagnia aerea low cost e spendere del tempo in vacanza in una città-location europea.

Semplificando al massimo: se “fatta l’Europa, dovevamo fare gli europei”, nel concreto ci hanno pensato soprattutto il progetto Erasmus e le compagnie aeree low cost.

Se per le élite (economiche, politiche, universitarie, culturali) è stato poi facilissimo integrarsi tramite mille altri riti, momenti e modalità, per il cosiddetto “cittadino comune”, quello che non è mai andato in Erasmus o a cui risulta difficile anche comprare un biglietto low cost per un weekend in Spagna, l’Europa, gli europei, la bellezza di considerare un fratello e una sorella un cittadino portoghese, austriaco, lettone o irlandese, quindi sviluppare l’animo, lo spirito e il DNA europeo, sono delle gioie che non può vivere, quindi conoscere.

Negli ultimi anni, però, è in crescita significativa un grande rito collettivo europeo che sta permettendo anche a chi non ha avuto il privilegio di divenire parte della “generazione Erasmus”, di respirare nel quotidiano l’Europa. Questo rito è l’Eurovision Song Contest. Come il Festival di Sanremo, un grande momento popolare che ha la capacità di far sì che in uno stesso momento, uniti, insieme, buona parte del popolo europeo condivida un grande rituale collettivo.

Potere della cultura popolare. Il più grande strumento di integrazione di ogni popolo, in ogni momento della storia dell’uomo. Perché l’integrazione italiana ha sì come fattori principali grandi momenti solenni, istituzionali, a volte drammatici, che fanno parte della nostra storia e del nostro immaginario collettivo, ma deve tantissimo anche a grandi riti collettivi, soprattutto veicolati tramite i media popolari. Penso a Carosello, all’attività di divulgazione di Piero Angela, ma anche ai film d’autore e non, alle partite della nazionale di calcio, alle olimpiadi, ovviamente al Festival di Sanremo: unico momento oggi dove “tutta l’Italia, tutta l’Italia, tutta l’Italia (Eh!)” è stretta intorno ad un grande rito collettivo.

Ecco, accanto a programmi di integrazione “tradizionali”, che molto spesso sono stati perfetti per integrare delle élite (vedi di nuovo quella Erasmus), forse all’Europa oggi servirebbe giocarsi la carta della cultura popolare, di fatto quasi mai utilizzata, se non grazie alla crescita esponenziale del progetto Eurovision Song Contest: una delle più importanti fucine di integrazione a livello europeo. L’unico vero momento pop in cui gli italiani, i lituani, i tedeschi, gli spagnoli, gli olandesi etc. si stringono intorno a uno schermo, si conoscono meglio tramite quel meraviglioso linguaggio universale che è la musica, e fanno quindi un passetto in più verso la coscienza, l’animo e il progetto europeo.

Ma l’Eurovision Song Contest da solo non basta. Serve altro, serve più cultura popolare al servizio del progetto europeo. Tutto l’anno, in altre modalità, con un tratto ancor più popolare. Servirebbe forse un Grande Fratello Europe, dove un italiano, uno spagnolo, un portoghese, un lettone, un polacco, un tedesco, etc., spiati h24 dai propri connazionali, ci permettono di entrare nel quotidiano dei nostri fratelli e sorelle europei. Solo così, condividendo vizi e virtù, tradizioni e momenti quotidiani, come la differenza tra una tipica colazione italiana o svedese, un gioco di ruolo famoso in Danimarca, ma sconosciuto in Portogallo, un modo di dire francese, diverso ma simile in Italia, che il quotidiano riesce a trasformarsi in conoscenza, quindi cultura, quindi integrazione.

Serve forse anche un Temptation Island Europe. Serve un grande rito collettivo che solletichi così tutta una serie di stereotipi che l’un l’altro ci assegniamo tra danesi, italiani, lussemburghesi, lettoni o austriaci, ma che sono risultati fondamentali, in ogni epoca e per ogni paese, per trasformare le debolezze in forza, le differenze in analogie, l’ignoto in conoscenza, la paura dell’altro nella bellezza della sua scoperta. Vivere questi stereotipi per banalmente rendersi conto che siamo tutti parte di un unico grande popolo, quello europeo. Fatto di vizi, virtù, ma di fatto riconducibili ad un unico DNA: l’Europa.

Serve far sì che di Europa non si parli unicamente sui giornali economici, in Erasmus o durante la serata finale dell’Eurovision Song Contest, ma tutto l’anno. Anche sulle riviste di gossip di ogni paese europeo, sulle televisioni popolari, con dei thread TikTok dove commentare perché no le ragioni profonde di un bacio di troppo tra la concorrente danese e quello spagnolo in una puntata di Temptation Island Europe. Banalizzazione del progetto europeo? Vergognoso solleticare i vizi dei popoli? Sfruttamento intollerabile degli stereotipi europei? No. Cultura popolare al servizio di grandi cause: come il progetto europeo. Anche così abbiamo fatto l’Italia: esaltando, prendendo in giro i nostri vizi. Anche così inizieremo a fare pienamente l’Europa.

L’Unione europea è il più grande progetto di pace, benessere e integrazione mai ideato e concretamente realizzato dalle popolazioni europee in migliaia e migliaia di anni. Per la prima volta, dei popoli che si sono fatti la guerra per secoli e secoli, hanno capito e stanno vivendo la bellezza di sentirsi parte di un progetto e una storia comune. Questo oggi è chiaro e parte del DNA di varie tipologie di élite europee. Molto meno per chi, per vari motivi, non fa parte di nessuna élite. Per fare l’Europa, serve anche e soprattutto la cultura popolare. E l’Europa deve andare dove la cultura popolare viene vissuta, raccontata, alimentata. Come nei programmi di intrattenimento puro.

Senza Temptation Island Europe non avremo modo di alimentare il progetto europeo? Ovvio che no. Temptation Island Europe potrebbe dare una mano? Sicuramente sì. Forse allora è il momento di farci un pensierino. O anche qualcosa di più.

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