Tre insalate mondiali. Fagiolini, Cavolfiore e la Kartoffelsalat

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24 Novembre 2022

Purtroppo vado alle feste molto meno di quanto vorrei, benché andare alle feste mi piaccia moltissimo. A quelle degli altri non vengo abbastanza invitato e io, dietro alla scusa della casa piccola, nascondo l’incapacità di superare il numero di dieci persone che potrei coinvolgere in una mia ipotetica festa, senza che gli invitati avvertano la stranezza dell’invito. Per cui nei fatti non ne ho mai organizzata una. Al di là del caso personale, però, per noi adulti urbani, una festa è un incontro di gente nel quale si incrociano vite necessariamente frammentate. Quando l’occasione per festeggiare è improrogabile, chi al necessario ottimismo associa sufficiente sicurezza negli affetti e nelle relazioni, parte con l’organizzazione e poi con gli inviti. Per primi gli amici veri, quelli che pur avendo seguito percorsi disparati, alla fine sono restati presenti nella vita. A questi si aggiungono i parenti adeguati, per esempio il cugino simpatico, meglio se un po’ di rappresentanza, almeno per come si vuole rappresentare il proprio mondo di provenienza; o la sorella considerata presentabile, cosa che prescinde sempre dalla presentabilità effettiva della sorella e ha a che fare solo con quanto se ne siano accettate le stravaganze, ma soprattutto i conformismi. Oppure, al contrario, l’invito si fa proprio per diluire la sorella male accettata, liberandosi così dall’obbligo di ulteriori incontri personali a eccezione dell’inevitabile Natale. Quindi vengono i colleghi promossi a qualcosa di più che semplici rapporti lavorativi, quelli cioè che da settimane, nei minuti di attesa delle call, quando si aspetta il capo sempre in ritardo sulla call precedente, si sono sentiti raccontare della festa in preparazione. Poi si invitano i papà e le mamme dei figli con cui per anni si è bevuto il caffè nei bar davanti alle scuole; quando serve si chiede di passare anche ai vicini di condominio che potrebbero lamentarsi del casino, ma anche a chi ci potrebbe servire per ragioni al momento della festa non completamente svelate. Il dirigente d’azienda che decide una sponsorizzazione? Il conoscente con la moglie importante? Quella coppia che deve ristrutturare casa e tu che sei un architetto così gli fai vedere la tua? I più liberali non omettono ex mariti e vecchi fidanzati insieme ai loro nuovi significant others e così via. La somma di tutti costoro, quando si vive in due, va moltiplicata almeno per uno virgola cinque. E il fattore cresce passando dalle feste per una occasione personale, per esempio il compleanno, dove il non festeggiato ha ovviamente meno diritti, alle circostanze neutrali da questo punto di vista, quando ogni istanza può legittimamente far raddoppiare gli inviti. E pur immaginando una selezione per ridurre il numero risultante, resta impossibile che tutti gli invitati si conoscano, per cui le feste sono piene di persone sorridenti, disposte a raccontare e a volte addirittura ad ascoltare. E questo è il bello della festa. Riuniti dalle diverse intenzioni, indifferenti ai più, abbiamo tutti un unico problema: farci accettare e trascorrere la serata, senza far pensare a chi ci ha invitato di avere sprecato, facendolo, energie, denaro e le proprie aspirazioni sociali.

Tutto ciò si semplifica moltissimo per Mariamedusa e i suoi amici urbani circa ventunenni. Le loro feste funzionano sempre, si organizzano al massimo in tre giorni e ciò non ostante non sono mai improvvisate. La loro forza è di non aver bisogno di una ragione, il loro segreto è la tolleranza. Le ragioni per una festa, infatti, non appartengono alla categoria delle occasioni, ma a quella dei pretesti. Il cibo buono quando mancano risorse come il tempo, i soldi, o la capacità, può essere sostituito dal cibo passabile o anche da quello dozzinale. L’alcol è un tema secondario perché bere per lei e i suoi amici è una questione degna di nota solo alle feste dei grandi o a quelle dei pochi ricchi tra loro, quando si sa che qualcuno provvederà anche a quello. Nella maggior parte degli altri casi, c’è chi porta una cassa d’acqua e chi indifferentemente una bottiglia di vino o di birra. Conoscersi o non conoscersi è irrilevante perché vivendo nell’orbita di gruppi numerosi, i veri sconosciuti sono rari, e poi la questione della compatibilità in base alle vite condotte non si è ancora manifestata. Loro sono il Mucchio Selvaggio. Il senso delle cose sta nel semplice fatto che le cose esistono e si devono fare. Feste comprese. Perciò non hanno il mio problema di voler essere invitati a più feste, bensì quello opposto di stare dietro a tutte le feste a cui vengono invitati. E questo ci porta al caso di Qatar 2022.

“Papà, ieri sera abbiamo deciso che domenica ci troviamo tutti a casa di Albi a vedere le partite”, mi ha detto lo scorso sabato mattina, quando verso le undici è entrata in cucina. “I genitori sono via, ma gli hanno concesso di organizzare una cena mondiale.” “Cena Mondiale? Nel senso di cena buonissima o cena per i mondiali?”, chiedo io. “No, beh! Se sarà buonissima meglio, ma sarà una cena mondiale perché, sì, la facciamo nel giorno di inizio dei mondiali e poi perché ognuno porta qualcosa, ma vogliamo che ci siano cibi da tutto il mondo. Per comodità almeno una cosa da ciascun continente, anche se all’inizio avevamo davvero pensato ai trentasei paesi che giocano.” “Trentadue”, preciso io, sinceramente stupito da questa celebrazione di Qatar – Ecuador, partita dalle dubbie promesse, da parte di Mariamedusa che nell’intera sua vita non ho sentito parlare una sola volta di calcio.  Era però venuta in cucina apposta per raccontarmelo e, cosa che solitamente non fa se non per mangiare, si era anche seduta. Aveva quindi cominciato a esporre con calma e disponibilità, come fa sempre quando si vuole accertare che io abbia capito le premesse, per poi discutere con più certezza le conseguenze.

“Idea molto bella”, dico io girandomi a guardarla, affinché le fosse chiaro che stavo ascoltando con attenzione, “quindi dovranno esserci cose da mangiare che rappresentino Europa, Africa, Asia, America, Oceania e Antartide. Oppure avete anche separato in due il continente americano?” “No, l’America tutta insieme”, ribatte lei con la prontezza di chi non sta improvvisando, perché la questione è stata evidentemente già discussa e decisa. “E per quanto possibile i cibi devono essere preparati da gente del luogo. Abbiamo chiesto in giro e tra Università e conoscenze varie, ci sono persone quasi di ogni parte del mondo che ci serve. Un po’ meno facile è farle cucinare, ma va beh! Credo che ormai abbiamo quasi risolto.” Continuava a parlare senza urgenza, perseverando in quella sua naturale gentilezza che era un misto di tono della voce, sorrisi e maniere; la disposizione era di quando mi deve dire qualcosa che le piace, senza però essere agitata da preoccupazioni circa la mia possibile risposta. In fondo il tempo in cui potevo ostacolarne i piani negandole un permesso o criticandone gli intenti era passato da anni.

“Allora ho pensato che visto che tu sei un cuoco…” “Non sono un cuoco, io faccio da mangiare”, le dico interrompendola. “E un cuoco cosa fa? Se non da mangiare? E comunque, va bene, visto che tu fai da mangiare meglio e più spesso della maggior parte delle persone che conosco, magari hai voglia di aiutarmi a preparare qualcosa.” “Cioè?” “Nella storia dei continenti e della cena mondiale, mi sono offerta di fare l’Europa proprio pensando a te che sei un sacco europeo, nato abbastanza al Nord d’Europa, con genitori molto del Sud, figlia milanese e fidanzata variabile.” Poi per accertarsi di avere fatto tutto il possibile per guidare la risposta, aggiunge, “io se vuoi faccio la spesa e ti aiuto in cucina.”

“Chi fa l’Africa?” Le chiedo sospendendo così il tempo di una mia risposta. “Siamo messi benissimo. La famiglia di Omar, il mio compagno di università è egiziana e il padre ha un forno: ci regala la focaccia e il pane arabo. E poi c’è Meriam che è marocchina e vegetariana; ha detto che porta un cous cous con le verdure che sa fare lei.” “E l’America?” “Quasi meglio dell’Africa. Veronica e Rosa sono due sorelle dell’Ecuador che abbiamo conosciuto quando andavamo in Sormani. Loro vanno in statale, ma ieri sera erano con noi. Hanno subito chiesto alla madre che cucina benissimo e lei ci ha già detto di sì, farà tre cose, ma di preciso non so cosa porteranno.” “Asia?” continuo io senza variazioni e giocando un po’ a incalzare. “C’è una ragazza di Economia che è venuta in Italia per anno da Mumbai; è ricchissima, suo padre fa l’avvocato in India ed è albino, e lei sta in appartamento con Giorgia, la mia amica di Cagliari.” Poi senza aspettare le prevedibili domande restanti ha continuato, “per l’Oceania ha detto Sara che porta le patatine che comperava sempre a Sidney quando ha fatto l’anno di liceo all’estero. Le vendono anche qui al super.” Su quest’ultima affermazione esita e mi guarda, poi ridacchiamo assieme, benché, più che per l’ultima risposta, io lo stessi facendo per la sua maniera di dire contemporaneamente tutto quello che di una certa persona o situazione trovava meritevole, interessante o singolare. Anche se assolutamente non pertinente. “Oh! Vabbè! Non conoscevamo nessuno di australiano”, ha poi concluso roteando la mano destra, indicando con un gesto che l’insormontabile era stato aggirato con l’improvvisazione. “Antartide?” dico ancora io, sfruttando l’ultima occasione per una domanda in sequenza. “A quello ci abbiamo pensato. Facciamo un aperitivo e ci mettiamo i cubetti di ghiaccio.” Mariamedusa con questo scorcio di commedia umana aveva illuminato il grigiore di quel sabato di metà autunno, sia per la naturale simpatia che provavo per l’intrapresa, sia perché l’impegno di un paio di ore avrebbe dato un senso a quella giornata solitaria. E come dice mia sorella, la cui Real Psychologie ha trovato una soluzione pratica anche al grigiore del Nord in cui vive, “ogni giorno deve avere almeno un punto di luce. E se non c’è bisogna organizzarlo.”

“Cosa ti piacerebbe portare di europeo?” Ho chiesto allora, senza confermare la mia partecipazione, poiché era inevitabile che avrei detto di sì. “Non una pasta, visto che ci saranno già pane, focaccia e cous cous. Non la carne, visto che la metà dei miei amici sono vegetariani e questo, per metà di quella metà, vuol dire anche niente pesce. I dolci non si contano come cosa da mangiare per una cena, dunque non restano che le verdure. Però devono saziare perché i maschi mangiano.” “Dammi solo un quarto d’ora che ci penso”, le ho dunque detto con i pensieri già rivolti ai condimenti da acquistare e a un paio di ricette a base di vegetali che combinassero la trasportabilità, una ragionevole tenuta al trascorrere delle ore e che fossero adeguate a rappresentare l’Europa.

“Dunque,” le ho comunicato ancora prima che fosse trascorso il tempo che ci eravamo dati, “farei tre cose se tu sei d’accordo.” Poi sollevando l’indice per dare enfasi al ritmo del mio scadenzare ho cominciato, “Primo, l’insalata di cavolfiore che nella mia versione evoca quell’Esperanto del Mediterraneo che è la cucina siciliana. Seconda, farei un Schwaebischer Karteffolsalat a cui mi piace pensare come al suo equivalente simbolico per la Mitteleuropa. Terza e ultima cosa farei l’insalata di fagiolini con la menta che mi viene facile e risolve il problema di ogni cena a cui manca qualcosa.” Quindi ho atteso i suoi commenti, ma prima ancora che terminassi, già annuiva con lo sguardo, allo scorrere del breve elenco di cose a lei note per gli anni di consuetudine con la mia cucina. Poi, come per fare mente locale, ha ripetuto, “quindi fagiolini, ma ci metti anche lo spicchio d’aglio che si vede? Seconda cosa il cavolfiore, però croccante, e anche l’insalata di patate tedesca. Perfetto, grazie papi.” Devo averle sorriso mentre guardandola negli occhi ho precisato con serietà, “la Kartoffelsalat non è insalata di patate. È Kartoffelsalat, così come Tarte-Tatin non è torta di mele e il Döner Kebab non è un panino con l’arrosto.”

Kartoffelsalat

E’ una preparazione iconica, di quelle che evocano una identità profonda, radicata nella storia di ogni luogo e famiglia, che portano a identificarsi in quella variante di sapore con cui chi la conosce, la conosce da sempre. E come sempre in questi casi chi non è nato la dove è nata lei, accetta con tolleranza adattamenti e piccole variazioni. Io la preferisco leggermente tiepida, ma può essere servita anche a temperatura ambiente. Fredda però assolutamente no.

Ingredienti. Per 4 persone. 1 kg di patate che reggano la cottura, in Germania dove le varietà sono infinite si parla di Festkochende Kartoffeln, in Italia io approssimo con le patate a pasta gialla. Le patate devono essere di dimensione media e per quanto possibile avere un diametro omogeneo. Questo vuol dire che non fa niente se una è lunga il doppio, quando il diametro di una sua sezione è mediamente lo stesso di una patata più corta. Sembra una precisazione oziosa, ma fa la differenza perché si evita di comperare 3 kg di patate per selezionarne uno di adeguate. Poi servono olio di semi di girasole (mai di oliva), un mestolo di brodo vegetale o di un brodo leggero di carne (pollo o meglio vitello), in ogni caso molto saporito (gewürtzt, cioè speziato, salato, condito). Aceto bianco non troppo aggressivo, sale, pepe, una cipolla (in genere bianca, ma io uso quella rossa di tropea) ed erba cipollina.

Procedimento. Cuocio le patate con la buccia: per 10 minuti in pentola a pressione. Chi non l’avesse può farlo per 20 minuti circa in acqua salata. In quest’ultimo caso userei uno stuzzicadenti per verificare se sono cotte. Le faccio raffreddare, ma non completamente, quindi le pelo perché la buccia sarà più semplice da asportare se la patata è tiepida. Quindi le lascio a raffreddare completamente e le taglio a fette dello spessore di circa 3 millimetri (meno di un mezzo cm). Il rispetto di questi tempi, misure e temperature è importante per avere patate cotte che siano sufficientemente sode da potere essere tagliate in rondelle compatte e successivamente condite senza che si rompano proprio tutte, anche se è inevitabile che si romperanno. Preparo quindi i condimenti mettendo in una ciotola un mestolo scarso di brodo, tre cucchiai di aceto, un pizzico si sale e un cucchiaio di senape. Sbatto con una frusta per arrivare a un composto liquido omogeneo. Poi ne incorporo una metà nelle patate insieme al pepe macinato grosso. A questo punto, per essere il più delicato possibile, indosso un paio di guanti per uso alimentare e mischio la Kartoffelsalat con le mani, separando le rondelle di patata che inevitabilmente si appiccicano, per far sì che sia tutto condito. Poi attendo due minuti, aggiungo progressivamente altre quantità del composto liquido fino a che le patate continuano ad assorbirlo. Poi copro il tutto con carta trasparente tesa sul contenitore e lascio riposare un paio di ore, per consentire agli aromi del brodo e dei condimenti di essere fatti propri dall’insalata.

Un’ora prima di servirla, assaggio, aggiusto di sale e aceto, le sole due cose che potrebbero mancare, quindi aggiungo poco olio. Mischio nuovamente come prima; dovrò sentire quel tipico “Kwiiitch Kwiiitch”, che è il rumore di quando è pronta. Poco prima di servirla aggiungo l’erba cipollina. Lascio in fondo la questione della cipolla perché è un tema. Sicuramente la sua presenza migliora il risultato, digestione permettendo. Dovrebbe essere aggiunta un’ora prima di servirla, dunque quando si mette l’olio. Il problema è che la Kartoffelsalaat che avanza non potrà che migliorare se mangiata nei due giorni successivi, ma se è stata riposta con la cipolla questa sarà diventata dominante. Io allora faccio così: aggiungo cipolla alla quantità che verosimilmente verrà consumata e semmai ne dovessi servire ancora la metto al momento. Oppure la metto in un piatto a parte e chi la vuole la mette su quanto mangia.

Insalata di Cavolfiore

E’ una ricetta in cui il cuoco dovrebbe dare una paga agli ingredienti, perché fanno tutto loro tranne una cosa: determinare il momento in cui il cavolo è croccante. E’ sempre un successo, forse per quel tocco di esotico, ma essendo cresciuto a cavolfiori molli e strabolliti penso che la croccantezza sia determinante nel dimostrare che un’altra via è possibile. E il gusto amarognolo della mandorla è un ulteriore elemento vincente. La servo a temperatura di un ambiente caldo, se possibile facendola riposare nel forno spento che con la sola luce accesa raggiunge i 27 gradi circa.

Ingredienti. Per 4 persone, abbondante. Un cavolfiore da circa 1kg, olio, aceto bianco, sale e pepe, un cucchiaio di capperi sotto sale di dimensione media dissalati in acqua per due ore, un cucchiaio abbondante di uvetta (io uso la sultanina più chiara) fatta rinvenire per mezz’ora in acqua tiepida, 4 o 5 acciughe sott’olio, 50 grammi di mandorle pelate abbrustolite, olive taggiasche denocciolate a sentimento. Faccio un inciso sulle quantità: uvetta, capperi e olive dipendono da quante avrete piacere di trovarne nella vostra insalata, per cui le quantità sono indicative.

Procedimento. Metto a bollire una pentola di acqua capiente in maniera da non costringere le cimette e lesionarle il meno possibile. Intanto avrò acceso il forno a 180 gradi (ventilato o no è indifferente) e raggiunta la temperatura, inserisco le mandorle pelate facendole abbrustolire per circa dieci minuti, il sapore varia col grado di abbrustolimento, quindi basta assaggiare per decidere quando estrarle. Pulisco al contempo il cavolfiore separando, appunto, le cimette e affettando longitudinalmente in due o tre parti le più grosse. Poi li tuffo in acqua bollente salata, copro, aspetto che riprenda a bollire e scolo dopo due minuti. Riempio rapidamente la pentola di acqua fredda e ci tuffo il cavolfiore appena scolato, quindi riscolo dopo qualche istante. Questo impedirà alla cottura di procedere e lo lascerà cotto, croccante e tiepido. Quindi lo condisco aggiungendo tutto il resto. Le mandorle tritate grossolanamente con un adeguato coltello, i capperi dissalati e asciugati con carta o su un canovaccio pulito, l’uvetta asciugata anch’essa, le olive taggiasche tagliate in due o tre pezzi e le acciughe spezzettate. Alla fine l’olio, l’aceto e il sale (se ancora mancasse) agitati prima con una frusta. Poi mischio l’insalata, meglio con le mani grazie ai soliti guanti, e faccio riposare.

Insalata di fagiolini con la menta.

E’ uno standard delle cene a cui manca un complemento non troppo impegnativo in termini di costo, tempi di preparazione, gusto e coinvolgimento alimentare. Può essere preparata alcune ore prime e va serviti a temperatura ambiente.

Ingredienti. Per 4 persone. 500g di fagiolini, se sono fini è tutto più prezioso. Funziona solo con quelli freschi. Poi olio, aceto bianco, sale, pepe, due spicchi di aglio e tanta menta.

Procedimento. In funzione dello spessore, faccio bollire i fagiolini per 7 o 8 minuti dal momento in cui sono immersi nell’acqua salata già in ebollizione. Poi scolo e risciacquo abbondantemente in acqua fredda. Condisco con sale, aceto (più del solito e ognuno decida quale è il proprio solito), pepe e olio. In ultimo aggiungo abbondante menta spezzettata con le mani e gli spicchi di aglio tagliati in due. Trae enorme vantaggio dal riposare circa un’ora.

TAG: cavolfiore, fagiolini, kartoffelsalat, Mondiali 2022, Paladar marconi, qatar 2022
CAT: costumi sociali, Milano

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