Italia
Lettera a Paolo Crepet
Ascolto Crepet con piacere, ma il suo sguardo sui giovani mi sembra fermo a un mondo finito. Gli chiedo di non confondere l’applauso con il pensiero e di lasciare la nostalgia dell’autorità per cercare, oggi, come accendere davvero il desiderio dei ragazzi.
Caro Paolo Crepet,
La ascolto sempre con un certo piacere e, lo ammetto, a volte mi diverto anche. So che “divertimento” non è forse la parola che uno psichiatra gradirebbe sentirsi rivolgere: Lei usa la parola come strumento serio, come leva critica, come gesto pubblico. Ma c’è, in ciò che dice, una teatralità naturale, un modo di stare nella discussione che rende l’ascolto vivo, persino quando non condivido ciò che sostiene. E capita spesso. Perché, quando affronta il tema dei giovani e dei bambini sembra essersi fermato a un mondo di vent’anni fa. A un paesaggio educativo che non esiste più. Persino Massimo Recalcati – che a sua volta si muove entro un quadro psicoanalitico lacaniano – ha riconosciuto che non è più questione di richiamare soltanto all’autorità, ma di testimoniare nella vita concreta il fuoco del desiderio, la sua possibilità.
Il punto è proprio questo, dottor Crepet: la Sua visione rischia di restare agganciata a un paradigma antico, a un racconto dell’adulto forte e del ragazzo fragile, del limite imposto e dell’obbedienza mancata. Ma i giovani di oggi non vivono più dentro quel copione. Non vivono più in un mondo dove l’autorità si eredita, il silenzio si pretende, la regola si obbedisce senza discuterla.
La Sua diagnosi, pur intelligente, sembra non aver registrato fino in fondo il cambiamento radicale della condizione giovanile.
E poi bisogna stare attenti, dottore, a non farsi troppo prendere da se stessi. È un vizio che riguarda molti: Lei, certo; ma anche Recalcati, Saviano, chiunque frequenti la televisione e i suoi riti. Il rischio è quello di confondere l’applauso della platea con la realtà del pensiero.
Il refrain che funziona, che strappa consenso immediato, che riempie teatri e salotti, non è necessariamente la strada più giusta. A volte è solo la più comoda.
Quello che conta davvero, invece, è chiedersi se ciò che diciamo aiuta i ragazzi a diventare più liberi, più consapevoli, più capaci di abitare la loro età senza esserne schiacciati.
Se la nostra parola li accompagna o li giudica. Se apre o chiude. E questo vale per Lei, vale per me, vale per chiunque prenda la parola in pubblico con l’ambizione di orientare lo sguardo degli adulti e dei figli.
Per questo Le scrivo Non per contraddirla, ma per invitarla a un passo ulteriore.
Un passo che non guardi con nostalgia all’autorità perduta, ma che si interroghi su come accendere il desiderio possibile, qui e ora, nella vita concreta dei ragazzi.
Forse è il compito più difficile, e proprio per questo è l’unico che valga la pena prendersi davvero.
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