A.I.

Quando canta l’algoritmo

La hit AI di Breaking Rust al primo posto? Una bufala gonfiata ad arte. Ma le cover virali dominano TikTok e l’algoritmo invade oramai anche commenti sportivi e sottotitoli.

18 Novembre 2025

La recente vicenda della presunta canzone country generata dall’AI in cima alle classifiche di genere negli Stati Uniti ha scatenato un dibattito acceso sull’uso dell’intelligenza artificiale nella musica. C’è da sottolineare che, nonostante i titoli sparati su tutti i siti di notizie e suoi mezzi d’informazione di mezzo mondo, la notizia che una canzone dell’artista AI “Breaking Rust” fosse al primo posto si è rivelata fuorviante: il brano ha raggiunto la vetta della classifica “Country Digital Song Sales” di Billboard, una chart che richiede appena 3.000 download per conquistare la posizione numero uno. Come ha prontamente chiarito Rick Beato, uno dei più influenti YouTuber nel campo musicale, questa classifica è ben diversa dalla “Hot Country Songs” dove dominano ancora artisti veri come Morgan Wallen.

A chi serve diffondere queste notizie?

Sorge a questo punto spontanea una domanda: a chi serve far circolare queste notizie sui presunti record in classifica delle musiche generate dall’intelligenza artificiale? Le risposte possibili sono molteplici e inquietanti, e probabilmente composite.

Innanzitutto, c’è un evidente interesse commerciale da parte delle aziende che sviluppano tecnologie di AI musicale. Ogni titolo sensazionalistico che grida al “primo posto in classifica” rappresenta una pubblicità gratuita del valore di milioni di dollari. Queste notizie servono a creare hype, ad attrarre investitori e a legittimare un mercato ancora agli albori. Se il pubblico crede che l’AI possa già competere con artisti umani, le valutazioni delle startup del settore schizzano alle stelle.

In secondo luogo, c’è una strategia di normalizzazione. Bombardando costantemente il pubblico con notizie su “artisti AI di successo”, si prepara il terreno culturale per accettare questa tecnologia come inevitabile. È la classica tattica della finestra di Overton: ciò che oggi sembra estremo o inaccettabile diventa gradualmente normale attraverso l’esposizione ripetuta. Le major discografiche, sempre alla ricerca di modi per ridurre i costi e massimizzare i profitti, hanno tutto l’interesse a far credere che l’AI sia già pronta per sostituire artisti in carne e ossa che richiedono compensi, diritti, tour e tutta la complessa macchina dell’industria musicale tradizionale.

C’è poi l’aspetto del clickbait giornalistico. In un’epoca in cui i media digitali vivono di visualizzazioni e condivisioni, una notizia controversa sull’AI che “batte” gli umani garantisce engagement. Non importa se la storia è tecnicamente accurata o se confronta mele con arance (come nel caso di classifiche di nicchia spacciate per successi mainstream): l’importante è generare reazioni, commenti, condivisioni indignate.

Infine, non si può escludere una componente di guerra psicologica verso gli artisti stessi. Creare la percezione che l’AI sia una minaccia imminente e inarrestabile può servire a indebolire la posizione negoziale di musicisti e cantanti. Se gli artisti credono di essere facilmente sostituibili, saranno più inclini ad accettare contratti meno favorevoli, royalty ridotte e minori tutele sui propri diritti.

La questione, però, va oltre la semplice precisazione dei fatti. Ora la situazione si è aggravata: non solo “Walk My Walk” di Breaking Rust rimane al primo posto, ma un altro artista completamente generato dall’AI chiamato Cain Walker occupa le posizioni #3, #9 e #11 della stessa classifica. Più inquietante è il fatto che Breaking Rust abbia oltre 2 milioni di ascoltatori mensili su Spotify, il che solleva interrogativi sulla genuinità di questi numeri e sul futuro dell’industria musicale.

L’intelligenza artificiale invade anche lo sport e l’intrattenimento

Prima di esplorare un altro fenomeno, quello delle AI come arrangiatrici di cover musicali, vale la pena notare come l’intelligenza artificiale stia comunque infiltrandosi in ogni angolo della nostra esperienza digitale quotidiana. Anche ambiti apparentemente “umani” come i commenti sportivi o la sottotitolazione stanno subendo questa trasformazione. I commenti in tempo reale delle partite di calcio della Serie A su Google e altre piattaforme dall’inizio di questa stagione mostrano sempre più spesso una qualità che tradisce l’intervento algoritmico: un modo di raccontare verboso e ridicolo, frasi strutturalmente imperfette, errori nella consecutio temporum che (forse) nessun giornalista commetterebbe. Chiunque può verificarlo seguendo le cronache live sui vari portali sportivi.

Allo stesso modo, i sottotitoli dei principali servizi di streaming come Amazon Prime Netflix mostrano marchiani errori nella struttura delle frasi e nella consequenzialità temporale. I dispositivi tecnologici, per quanto migliorati in brevissimo tempo, tendono ancora a tradurre parola per parola senza considerare il contesto sintattico o le varianti dialettali, producendo talvolta veri e propri nonsense che vanno a discapito soprattutto dei non udenti. La produzione di massa affidata alle macchine sacrifica quella qualità narrativa e quella sensibilità al contesto che solo un essere umano può garantire.

Il fenomeno delle AI cover: quando l’algoritmo reinterpreta i classici

Se le canzoni completamente generate dall’AI rappresentano ancora un territorio controverso e relativamente di nicchia, le cover riarrangiate tramite intelligenza artificiale sono diventate un fenomeno virale di massa, specialmente su TikTok e altri social media. Da settimane (per non dire da mesi) TikTok e YouTube sono pieni di canzoni riadattate con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, con esempi che vanno da Obama che canta “Let It Go” di Frozen fino a Michael Jackson che interpreta “Due Vite” di Marco Mengoni.

Questa tendenza ha raggiunto livelli di assurdità creativa notevoli. Scorrendo i social è possibile sentire Ariana Grande cantare “Kill Bill”, Kanye West reinterpretare “Love Story” di Taylor Swift o Rihanna eseguire “Someone Like You” di Adele. Nessun artista mainstream è immune da questo trattamento, e molti di questi video raccolgono milioni di visualizzazioni, trasformando creatori amatoriali in influencer virali. Per non parlare degli stranianti cambi di genere musicale di alcuni brani iconici del rock mondiale via via trasformati in pezzi funk, reggae o soul.

La tecnologia alla base di queste cover è sorprendentemente accessibile. Esistono oggi numerose piattaforme e app dedicate esclusivamente alla creazione di cover AI: da Covers.ai a Jammable, da Voicify a MusicAI. Questi strumenti utilizzano algoritmi avanzati per sostituire le voci originali di una canzone con una voce scelta da un’ampia libreria, mantenendo la melodia e il ritmo originali. Il processo è diventato talmente semplice che chiunque può creare una cover professionale in pochi minuti, senza alcuna competenza tecnica o musicale.

L’impatto culturale e le implicazioni artistiche

L’esplosione delle AI cover solleva questioni complesse che vanno ben oltre l’aspetto tecnico. Da mesi l’intelligenza artificiale è al centro del dibattito, e la paura principale, oltre alle teorie cospirative sull’acquisizione di coscienza dell’AI, è assistere in un’ottica distopica a una vera e propria sostituzione dei cantanti da parte dell’intelligenza artificiale. Sebbene ci siano aspetti positivi – come la possibilità di riascoltare voci di artisti scomparsi – ciò che preoccupa maggiormente è che creare arte dal nulla attraverso l’AI possa diventare un’abitudine, con la conseguente atrofizzazione delle capacità umane.

Le AI cover rappresentano anche una zona grigia dal punto di vista dei diritti d’autore e dell’etica artistica. Quando un algoritmo ricrea la voce di Michael Jackson su una canzone di Mengoni, chi possiede i diritti? L’artista originale il cui timbro vocale è stato replicato? L’autore della canzone base? O il creatore che ha utilizzato lo strumento AI? Queste domande restano ancora in gran parte senza risposta mentre la tecnologia continua ad avanzare.

Un altro aspetto critico riguarda l’autenticità artistica. La musica country mainstream può rivelarsi generica e artificiale quanto qualsiasi altro genere, con una stazione radio che trasmette canzone dopo canzone utilizzando gli stessi clichés e richiami, tutte lucidate a uno splendore da studio che tradisce qualsiasi origine rustica. Questo eccesso di artificio nella musica prodotta da umani potrebbe rendere alcuni generi particolarmente vulnerabili alla sostituzione con alternative generate dall’AI, che risultano stilisticamente indistinguibili.

Rick Beato ha notato però un fenomeno interessante: i suoi figli riescono a identificare immediatamente quando una canzone è generata dall’AI, mentre lui stesso fatica a riconoscere le differenze. Questo gap generazionale potrebbe essere cruciale: chi è cresciuto nell’era digitale probabilmente sviluppa un orecchio più fine per riconoscere gli artefatti artificiali, mentre le generazioni precedenti possono essere più facilmente ingannate.

Il futuro della musica nell’era dell’AI

Mentre le piattaforme di streaming come Spotify continuano a proporre senza censure artisti interamente generati dall’AI e i social media traboccano di cover create da algoritmi, l’industria musicale si trova a un bivio. Le AI nel settore non sono necessariamente negative: democratizzano la creazione musicale, offrono strumenti creativi accessibili a tutti e permettono sperimentazioni che sarebbero state impensabili solo pochi anni fa.

Quando l’AI diventa uno strumento, non un sostituto

Non tutti infatti alzano i forconi contro l’intelligenza artificiale. Recentemente, attori di fama mondiale come Michael Caine e Matthew McConaughey hanno ceduto le loro voci alla società di intelligenza artificiale ElevenLabs, che le utilizzerà come lettori e voci di riferimento attraverso l'”Iconic Voice Marketplace”. McConaughey, che è anche investitore nell’azienda, userà la tecnologia per creare una versione audio in spagnolo della sua newsletter “Lyrics of Livin'” nella sua stessa voce, pur non parlando spagnolo.

Michael Caine ha dichiarato: “Per anni ho prestato la mia voce a storie che hanno commosso le persone. Ora sto aiutando gli altri a trovare la propria. Con ElevenLabs possiamo preservare e condividere le voci, non solo la mia, ma quella di chiunque”. La piattaforma include anche le voci di icone scomparse come Judy Garland, James Dean e altre figure storiche.

Questi casi dimostrano che l’AI può essere utilizzata in modo consensuale ed etico, come strumento per amplificare la portata della voce umana piuttosto che sostituirla. La piattaforma ElevenLabs richiede che entrambe le parti – brand e detentori dei diritti – siano d’accordo prima di utilizzare le voci AI, rappresentando quel “consent-based, performer-first approach” che l’industria dovrebbe adottare.

Tuttavia, il rischio è che questa facilità di produzione porti a un’inondazione di contenuti mediocri, a una svalutazione del lavoro degli artisti veri e, in ultima analisi, a una perdita di autenticità nell’esperienza musicale. La sfida per il futuro sarà trovare un equilibrio tra l’innovazione tecnologica e la preservazione del valore umano nella creazione artistica, garantendo che l’intelligenza artificiale rimanga uno strumento nelle mani dei creatori piuttosto che un loro sostituto.

Quello che è certo è che il dibattito è appena iniziato, e mentre la tecnologia continua ad evolversi a ritmo vertiginoso, sarà fondamentale che musicisti, ascoltatori, piattaforme e legislatori collaborino per definire quale ruolo l’AI debba giocare nel futuro della musica.

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