Partiti e politici

Rileggere Piero Gobetti con impegno e senza nostalgia

28 Novembre 2025

Rileggere Piero Gobetti con stimolo, senza nostalgia. Questo l’invito di Paolo Di Paolo a proposito di Piero Gobetti. Nel suo Un mondo nuovo tutti i giorni (Solferino).

Mi sembra un suggerimento opportuno.

Sono molte le suggestioni che Di Paolo presenta al suo lettore: la lettura inquieta sulla solitudine, muovendo dal ritratto che Natalia Ginzburg  nel suo Le piccole virtù (Einaudi) fa dell’ultima estate di Cesare Pavese, alla note di Goffredo Fofi su Ada Gobetti, alle pagine che con pazienza Pietro Polito e Cesare Pianciola hanno dedicato a Gobetti allargando lo sguardo su Torino. Sullo sfondo le amare riflessioni dell’ultimo Antonio Tabucchi in Tristano muore (Feltrinelli) che costituiscono anche un passaggio di testimone o un’eredità in seguito a una scomparsa.

Per certi aspetti la conferma di un criterio che sta anche nel profilo della storia pubblica di Piero Gobetti in vita, ma anche, e forse soprattutto, in morte. Il criterio è quello della “generazione”. L’autorappresentazione giovanile ebbe il suo paradigma in Piero Gobetti; «la nuova generazione sta assolvendo dei doveri che le attribuiscono alcuni inesorabili diritti» scrive Gobetti nelle pagine di esordio de La rivoluzione liberale (Einaudi).

La morte giovanissimo, ne consacra il mito (anche se il cordoglio allora rimane chiuso in una stretta rete di amici). Subito se ne avvia l’uso retorico in un contesto pubblico. Il tema della «palestra» o «scuola» gobettiana, di Gobetti educatore, già promosso dal medesimo, è parte focale del mito e ne costituisce il supporto essenziale.

Quest’aspetto venne colto in pieno da Carlo Rosselli, che infatti  nel 1932, quando si tratta di dare forma politica a una nuova idea di riscatto politico, scrive nell’editoriale, non firmato, ma suo, dal titolo Fra Manzanarre e Sprea che apre il fascicolo n.4 dei “Quaderni di Giustizia e Libertà”:

«L’ora di tutte le eresie è suonata. Ciascuno deve sentire il dovere di dire quello che pensa sugli eventi di questi ultimi anni, sulle cause del male e sui rimedi, sulle forze e sulle vie della rinascita, senza preoccuparsi se qualche vestale del conformismo si scandalizzerà”.

Questione, si potrebbe osservare, che in forma indiretta conferma quanto verrà scrivendo il 15 febbraio 1976 sul “Corriere della Sera” Eugenio Montale in occasione del cinquantenario della morte. Di Gobetti. Ovvero, il dato che “la lezione di Gobetti è di non aver lasciato nessuna eredità, anche se molti si candidano a suoi continuatori”

Venticinque anni prima, il 16 febbraio 1951, sempre sul”Corriere della Sera” ancora  Montale aveva scritto:

«Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempia di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo. Eroe a modo suo, eroe borghese, questo primo della classe è stato uno dei rappresentanti più degni di quel “Risorgimento senza eroi” che continua e continuerà (se l’Italia deve durare) attraverso strade che ancora non conosciamo».

Quelle strade continuano ad essere lontane.

Se ne potrebbe cogliere un elemento simbolico – che infatti Paolo di Paolo non manca di ricordare – nel fatto che la sua salma non è mai tornata in Italia e ancora si trova al cimitero parigino del Père Lachaise.

La questione potrebbe essere letta come un imbarazzante “perdita di memoria”. Forse è anche così, ma soprattutto entra in questione il fatto che per quanto celebrato, per la sua dirittura –  in punto di morte anche dai suoi avversari e dai suoi nemici, Piero Gobetti resta ancora un laboratorio culturale e politico troppo impegnativo. Così imbarazzante che anche solo riportare in Italia la sua salma attualmente collocata ancora al cimitero parigino del Pére Lachaise, a un secolo di distanza dalla sua morte, non sembra rientrare in nessuna agenda.

Forse troppo falsa sarebbe la scena. O forse, più realisticamente non ci sono eredi che abbiano l’autorevolezza di assumersi sia il carico del passato e sia la sfida della domanda di futuro, così come fu per Carlo e Nello Rosselli nell’aprile 1951. Allora la voce pubblica fu quella di un alieno al potere, ma che aveva tutti crismi per prendere la parola: Gaetano Salvemini. C’è oggiin Italia una voce pubblica, anche per ilsolo lato della autorevolezza, in grado di reggere il confronto con Salvemini?

Decisamente il palcoscenico è vuoto.

 

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