Geopolitica
Psicologia, vulnerabilità e Guerra Cognitiva: la responsabilità sistemica nella modernità liquida
La psicologia contemporanea non opera più soltanto come disciplina clinica o corpus teorico, ma come infrastruttura culturale complessiva delle società occidentali. Questo saggio analizza l’iper-psicologizzazione come dispositivo che modella forme di soggettività, istituzioni educative e lavorative, dinamiche economiche e persino sensibilità geopolitiche. Integrando contributi di sociologia critica, filosofia della pratica terapeutica e studi sulla governance psichica, si propone una reinterpretazione della psicologia quale tecnologia di produzione dell’identità moderna e fattore determinante della vulnerabilità culturale dell’Occidente. La tesi centrale sostiene che la psicologia, nel suo espandersi oltre i confini dell’intervento clinico, generi effetti auto-rinforzanti, contribuendo a definire i problemi che si propone di risolvere. Si discute infine la necessità di un riposizionamento epistemico e istituzionale della disciplina.
La psicologia come dispositivo della modernità tardiva
Nell’era contemporanea, la psicologia non può più essere considerata un mero strumento di cura individuale. La crescente psicologizzazione della società occidentale ha generato un ecosistema culturale e istituzionale nel quale le emozioni, la vulnerabilità e gli stati interni degli individui diventano parametri centrali di valutazione sociale. Questa trasformazione non è priva di conseguenze geopolitiche: la vulnerabilità emotiva e cognitiva collettiva, indotta in parte dalla diffusione di un lessico e di una prassi terapeutica onnipresenti, rende la società sensibile a forme sofisticate di pressione e manipolazione, configurabili come guerra cognitiva.
Gli psicologi, pur agendo spesso con intenti clinici e umanitari, hanno contribuito a plasmare le norme culturali attraverso cui il disagio viene percepito, interpretato e trattato. In tal modo, hanno generato un paradosso istituzionale: la psicologia definisce ciò che è considerato problematico e al tempo stesso offre gli strumenti per affrontarlo, creando una dipendenza sociale dalla stessa disciplina che produce il vocabolario del disagio. In questa dinamica, la vulnerabilità psicologica diventa non solo un problema individuale, ma un fattore strutturale della società, suscettibile di sfruttamento politico, economico e persino strategico.
Inoltre, la concentrazione di potere epistemico, professionale e culturale nelle mani degli psicologi richiama, in chiave laica e contemporanea, l’Ancien Régime: come un nuovo clero secolare, la psicologia determina ciò che è normale, legittima le punizioni sociali (sotto forma di diagnosi e interventi) e governa indirettamente i comportamenti collettivi. La conseguenza è un sistema auto-rinforzante che, senza apparente intenzionalità, amplifica la fragilità collettiva e consolida il potere degli esperti, creando una società vulnerabile agli attacchi cognitivi e alla manipolazione strategica.
Questa prospettiva richiede una riflessione critica sulle pratiche psicologiche, sul loro ruolo culturale e sui meccanismi attraverso cui la disciplina, pur con finalità terapeutiche, diventa strumento di controllo e di normalizzazione sistemica. In ultima analisi, se il potere psicologico resta incontrollato, la psicologia rischia di trasformarsi da scienza della cura a nuova tecnologia del dominio, con implicazioni geopolitiche tutt’altro che trascurabili.
Come osserva Eva Illouz, la cultura terapeutica ha colonizzato la sfera pubblica trasformando il linguaggio emotivo in lingua franca dell’esperienza contemporanea (Illouz, 2008). Parallelamente, Nikolas Rose ha mostrato come la psicologia sia diventata una tecnologia di governance degli individui, integrata nelle istituzioni, nei sistemi di welfare e nelle organizzazioni lavorative (Rose, 1999).
Il risultato è una condizione in cui la psicologia agisce simultaneamente come (a) pratica di cura, (b) vocabolario culturale, (c) industria economica e (d) meccanismo di produzione della soggettività. Tale espansione ha implicazioni che travalicano la dimensione terapeutica e toccano il funzionamento stesso delle società occidentali.
Modernità liquida e psicologizzazione: eredità e accelerazioni
Nel quadro della teoria della modernità liquida (Bauman, 2000), il soggetto contemporaneo vive in un contesto di instabilità cronica: legami fragili, identità flessibili, istituzioni permeabili. La psicologia ha giocato un ruolo ambivalente in questo scenario: da un lato ha offerto strumenti per affrontare la complessità emotiva generata da tali trasformazioni; dall’altro ha contribuito a consolidare un modello di sé fondato sulla narrativizzazione del trauma, sulla centralità della vulnerabilità e sulla costante ricerca di autenticità.
Bauman individua nella dissoluzione dei mediatori sociali tradizionali (comunità, chiesa, sindacati, gruppi professionali) una causa fondamentale della precarizzazione dell’identità. Tuttavia, come argomentato dalla sociologia critica della psicologia (Parker, 1999; Teo, 2015), il lessico terapeutico non si limita a rispondere alla fragilità prodotta dalla liquidità: la rende leggibile, la amplifica e la consolida come tratto identitario dominante.
In questo senso, la psicologia è al tempo stesso effetto e motore della liquefazione sociale.
Psicologia come norma: epistemologia del sé terapeutico
Il processo attraverso cui la psicologia diventa norma culturale è duplice:
- Normatività epistemica: i concetti psicologici definiscono i criteri di normalità, devianza, adattamento e maturità.
- Normatività performativa: gli individui apprendono a valutare se stessi e gli altri secondo categorie psicologiche interiorizzate.
Danziger ha mostrato come la psicologia moderna non descriva semplicemente l’individuo, ma contribuisca a produrne le forme attraverso pratiche e linguaggi (Danziger, 1990). La terapia assume così una funzione quasi pedagogica: indica come sentire, come elaborare, come interpretare gli eventi della propria vita.
Questa pedagogizzazione delle emozioni genera una cultura nella quale il sé viene percepito come entità fragile, potenzialmente traumatizzabile e costantemente bisognosa di manutenzione. Come osserva Illouz, l’esistenza quotidiana viene ricodificata come spazio terapeutico (Illouz, 2012).
L’ecosistema auto-rinforzante: produzione della domanda e adattamento normativo
Un elemento centrale dell’iper-psicologizzazione è la presenza di un circuito auto-rinforzante:
- la psicologia diffonde una sensibilità emotiva centrata sull’attenzione al vissuto individuale;
- tale sensibilità diventa normativa nei contesti sociali (scuola, lavoro, media);
- la difficoltà ad adattarsi a queste norme genera ulteriore domanda di competenze psicologiche;
- la terapia, rispondendo alla domanda, consolida le stesse norme da cui la domanda è scaturita.
Rose definisce questo meccanismo come “governo attraverso l’autonomia”, ovvero un controllo che si realizza non tramite coercizione, ma tramite interiorizzazione di pratiche di autovalutazione e auto-sorveglianza (Rose, 1999).
La psicologia diventa dunque un dispositivo auto-legittimante: più è presente, più la sua presenza appare necessaria.
Il fattore economico: dalla cura all’industria culturale della vulnerabilità
L’aumento del mercato della salute mentale negli ultimi anni rappresenta un indicatore chiave della trasformazione in atto. La crescita del settore, che coinvolge psicologi, psicoterapeuti, coach, counselor e piattaforme digitali di sostegno psicologico, mostra come la vulnerabilità sia progressivamente diventata un bene economico.
Secondo Illouz, il capitalismo contemporaneo integra le emozioni come dimensione produttiva, trasformando la sofferenza in risorsa per nuovi mercati e modelli di consumo (Illouz, 2007). La psicologia, lungi dall’essere marginale, si pone al centro di tale dinamica come infrastruttura simbolica e materiale.
Questa espansione economica non è neutrale: definisce ciò che viene considerato meritevole di intervento e amplifica l’idea di un individuo intrinsecamente fragile.
Istituzioni come laboratori dell’iper-psicologizzazione:
1.La scuola: diagnosi e pedagogia emozionale
Nel sistema educativo la psicologia opera come dispositivo che identifica, categorizza e interviene sui comportamenti degli studenti. Ciò produce effetti quali:
- anticipazione della diagnosi come forma di tutela;
- interpretazione di comportamenti non conformi come segnali di disturbi;
- dipendenza crescente da esperti esterni.
Teo ha descritto questo fenomeno come “pathologization of everyday life” (Teo, 2018), ovvero la tendenza a trasformare variazioni normali del comportamento in segni di deficit psicologici.
2.Il lavoro: la psicologia come nuovo tribunale laico
Nelle organizzazioni lavorative, la psicologia assume il ruolo di arbitro dei comportamenti accettabili. Le tecniche di valutazione, formazione emotiva e coaching producono una normatività fondata su:
- conformità emotiva,
- adattabilità,
- capacità relazionale come criterio di merito,
- riduzione del conflitto a problema psicologico individuale.
Rose e Miller hanno indicato questo processo come “responsabilizzazione dell’individuo”, attraverso cui problemi organizzativi vengono interiorizzati come difetti personali (Rose & Miller, 2008).
Oltre Bateson: il doppio vincolo sociale debole
Il concetto di “doppio legame” formulato da Bateson (1972) si riferisce a una comunicazione patologica in cui due messaggi contraddittori impediscono l’azione. L’iper-psicologizzazione produce una forma diversa di vincolo: non patologica, non coercitiva, ma normativa.
Gli individui sono formalmente liberi di non aderire al modello psicologico dominante, ma vivono in un sistema che premia chi lo interiorizza e penalizza chi non lo fa. Ne deriva un doppio vincolo sociale debole, in cui la dissonanza tra libertà formale e pressione culturale genera ansia, senso di inadeguatezza e ulteriore ricorso alla terapia.
Psicologia e geopolitica della vulnerabilità
L’effetto più trascurato dell’espansione psicologica è la sua dimensione geopolitica. La cultura terapeutica, enfatizzando vulnerabilità, emozione e autoreferenzialità, contribuisce a modellare una sensibilità collettiva che influenza:
- la percezione del rischio,
- la reattività sociale,
- la coesione comunitaria,
- la capacità di affrontare conflitti e crisi.
Una società che interiorizza strutturalmente la fragilità tende a reagire alle minacce attraverso categorie emotive piuttosto che politiche, generando vulnerabilità sistemiche. Questo non significa attribuire alla psicologia una responsabilità diretta sul piano geopolitico, ma riconoscere che una disciplina che modella la percezione del sé modella anche la percezione del mondo.
Riposizionare la psicologia: una proposta critica
Per evitare che la psicologia si trasformi in un dispositivo totalizzante è necessario:
- distinguere tra disagio psicologico e patologia;
- reintegrare le dimensioni sociali e materiali dell’esperienza nelle pratiche terapeutiche;
- limitare l’espansione indiscriminata del vocabolario psicologico;
- ripensare la formazione degli psicologi alla luce della loro responsabilità epistemica;
- sottoporre il mercato della psicologia a criteri etici e regolativi più trasparenti;
- considerare gli effetti culturali e geopolitici dell’iper-psicologizzazione.
In conclusione se per un verso è vero che la psicologia ha migliorato la vita di milioni di persone, è parimenti vero che la sua espansione culturale, economica e istituzionale ora come ora richiede un ripensamento critico. Tanto non per limitarne la portata, ma per renderla sostenibile: quando una disciplina diventa cultura, linguaggio, mercato e struttura di governance, essa assume una responsabilità che va oltre la cura individuale: una responsabilità verso l’intera società.
Vulnerabilità cognitiva, psicologia come Ancien Régime e deriva del potere terapeutico
Un aspetto decisivo — finora sottotraccia ma oggi impossibile da eludere — riguarda la vulnerabilità cognitiva delle società occidentali. L’iper-psicologizzazione produce infatti un paradosso: mentre l’individuo sviluppa una sensibilità emotiva raffinata, la sua capacità di difesa cognitiva si indebolisce. Le società dove la psicologia diventa lingua ufficiale dell’esperienza personale tendono, come mostrano studi recenti sui processi di influenza (Mercier & Sperber, 2017), a privilegiare interpretazioni soggettive rispetto a valutazioni pragmatiste o istituzionali. In altre parole, quando l’emozione è la lente principale, la persuasione diventa più facile, non più difficile.
Ciò rende l’Occidente terreno fertile per quella che alcuni ricercatori definiscono “guerra cognitiva” — un insieme di strategie che non agiscono sui sistemi di difesa, ma sui sistemi di significato. Le società nelle quali il sé è strutturalmente vulnerabile, iper-sensibile e psicologicamente assoggettato a una narrativa di fragilità, risultano più permeabili ad attacchi che operano sull’identità, sulle credenze e sulla percezione del mondo.
E qui emerge la questione centrale: l’iper-psicologizzazione non è soltanto un fenomeno culturale, ma un fattore geopolitico di indebolimento. Una società che vive “in” psicologia tende a elaborare ogni perturbazione come trauma, ogni conflitto come disfunzione, ogni tensione come materia per terapeuti. Questo spostamento costante verso il registro emotivo crea uno spazio di vulnerabilità sistemica che può essere — e viene già — sfruttato su scala internazionale.
La nuova aristocrazia terapeutica: un Ancien Régime emotivo
Nella riflessione che ha fatto da sfondo a quanto sin qui proposto, compare un’immagine potente: la psicologia come nuovo Ancien Régime — una forma di potere discrezionale, esoterico, disciplinante, nel quale la mediazione dell’esperto diventa inevitabile e invisibile allo stesso tempo. Questa metafora si rivela straordinariamente adatta per descrivere lo status attuale della professione psicologica.
Come nel vecchio regime, il potere non si manifesta attraverso la forza bruta, ma attraverso l’autorità epistemica: il monopolio su ciò che conta come vero, sano, accettabile. Gli psicologi non governano attraverso editti, ma attraverso valutazioni, diagnosi, protocolli, linguaggi. Essi definiscono quali comportamenti siano “normativi”, quali emozioni siano “autentiche”, quali relazioni siano “funzionanti”. In molti casi, questa autorità scivola oltre la sfera clinica per colonizzare quella morale.
Come accadeva con il clero del XVIII secolo, si produce una forma di potere che non si presenta come potere, ma come cura, come tutela, come accompagnamento. È il potere più efficace: quello che non appare come tale.
La deriva del potere terapeutico: dalla cura alla giurisdizione sulle vite
Il problema non è che gli psicologi siano malintenzionati — non lo sono. Il problema è che hanno troppo potere rispetto agli strumenti di scrutinio sociale applicati a tutte le altre professioni che esercitano autorità sugli individui.
Gli psicologi:
- entrano nelle scuole definendo ciò che è normale e ciò che è deficit;
- entrano nelle aziende definendo ciò che è adattivo e ciò che è resistenza;
- entrano nella giustizia definendo ciò che è credibile e ciò che è patologico;
- entrano nelle famiglie definendo ciò che è funzionale e ciò che è disfunzionale;
- entrano nei media definendo ciò che è tossico, sano, sostenibile, traumatico.
Pochi si rendono conto che questa pervasività non ha eguali. Nessun’altra professione possiede un accesso così capillare a istituzioni, corpi intermedi, pratiche quotidiane e linguaggi. Nessun’altra professione esercita un potere così profondo su ciò che gli individui credono di essere.
E come nel vecchio Ancien Régime, questa autorità non è stata deliberata democraticamente. Semplicemente, è accaduta.E continua ad accadere, senza alcuna vera opposizione culturale.
Una presa di posizione necessaria
La psicologia non deve essere demonizzata: deve essere ridefinita. Non può più sottrarsi alla domanda cruciale: fino a che punto una professione non eletta può modellare i criteri di verità emotiva e di normalità sociale?
Oggi la psicologia è troppo potente per non essere criticata.
Troppo diffusa per essere considerata neutrale.
Troppo influente per essere lasciata ai soli psicologi.
Ed è proprio chi crede nel valore della disciplina che deve riconoscere il rischio: una psicologia che non riconosce i suoi eccessi diventa parte del problema che pretende di curare.
Questo non è un attacco alla psicologia.
È un invito a salvarla dal suo stesso successo.
Bibliografia essenziale
- Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press.
- Bateson, G. (1972). Steps to an Ecology of Mind. University of Chicago Press.
- Danziger, K. (1990). Constructing the Subject: Historical Origins of Psychological Research. Cambridge University Press.
- Illouz, E. (2007). Cold Intimacies: The Making of Emotional Capitalism. Polity.
- Illouz, E. (2008). Saving the Modern Soul: Therapy, Emotions, and the Culture of Self-Help. University of California Press.
- Illouz, E. (2012). Why Love Hurts. Polity.
- Mercier, H., & Sperber, D. (2017). The Enigma of Reason. Harvard University Press
- Parker, I. (1999). Critical Psychology: Critical Links. Annual Review of Critical Psychology.
- Rose, N. (1999). Governing the Soul: The Shaping of the Private Self. Free Association Books.
- Rose, N., & Miller, P. (2008). Governing the Present. Polity.
- Teo, T. (2015). Critical Psychology: A Geography of Science. Palgrave.
- Teo, T. (2018). The Critique of Psychology. Springer.
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