Filosofia

Hannah Arendt. Cinquanta anni dopo

2 Dicembre 2025

Thomas Meyer, curatore delle opere di Hannah Arendt per le edizioni Piper con Hannah Arendt. Una vita filosofica (Feltrinelli) ricostruisce l’intero arco biografico di Arendt. In particolare si sofferma sugli anni meno conosciuti, ovvero gli anni ’30: l’esilio parigino, l’impegno nei movimenti sionisti, il lavoro con i giovani rifugiati della Kinder- und Jugend-Alijah, la prigionia nel campo di Gurs e poi soprattutto gli anni ’60 negli Stati Uniti.

È in queste esperienze concrete – spesso dimenticate o rimosse – che affondano le radici del suo pensiero: un pensiero che nasce non dalla teoria, ma dall’azione, dalla contingenza, dalla responsabilità.

Quel pensiero non si costruisce solo pensando, ma cresce in relazione ai conflitti – emozionali, culturali, personali – che Arendt attraversa in quel tempo e che anche dopo (durante il periodo americano tra 1941 e 1975) fino alla morte segnano ogni volta il profilo di una riflessione.

Anche per questo il libro di Thomas Mayer più che una biografia personale o individuale è anche una opportunità per prendere la misura di che cosa significhi «pensare in esilio».

Propongo di riflettere su almeno due momenti particolarmente interessanti deli questa vicenda biografica, anche in relazione al fatto che l’occasione del cinquantenario della morte (4 dicembre 1975) la sua figura sarà un tema ricorrente.

I due temi sono: da una parte il suo rapporto inquieto con il mondo ebraico; dall’altra il tema della forza dei totalitarismi.

 

      1. Rapporto inquieto con il mondo ebraico

All’esordio del suo definitivo luogo d’esilio, negli Stati Uniti, tra il 1941 e il 1945, con lunghe fasi di silenzio, Hannah Arendt collabora a una rivista tedesco-ebraica: “Aufbau”. La raccolta di quei testi con il titolo Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, è uscita per Einaudi nei mesi scorsi con una introduzione di Enzo Traverso

Raccolta interessante perché in quegli interventi si consumano due passaggi essenziali nella sua biografica culturale e politica: da una parte la lenta fuoriuscita dal proprio impegno sionista militante che l’aveva vista protagonista attiva negli anni dell’esilio parigino (1933-1941); dall’altra la costruzione del primo nucleo operativo e concettuale delle Origini del Totalitarismo.

Hannah Arendt giunge negli Stati Uniti convinta che il sionismo e la politica sionista rappresentino nei fatti le ipotesi vincenti a fronte della situazione di barbarie. E tuttavia in breve tempo ciò che le sembrava fondato ancora prima della sua partenza dall’Europa inizia a sgretolarsi a New York. Non è il tema del ritorno, a renderla perplessa. Arendt non ha dubbi sull’ipotesi sionista in generale, li ha invece sulla filosofia politica della leadership del movimento e in merito alle scelte di politica immediata di Ben Gurion.

Arendt, infatti, condivide la battaglia per la costruzione di un contingente armato ebraico che si affianchi alle forze alleate – e in questo la sua posizione è sulla stessa linea della leadership sionista di quegli anni – ma se ne distacca per la finalità con cui è proposta.

Dietro quella proposta la Arendt infatti intravede una scelta con cui è in disaccordo per tre motivi:

  1. la scelta è in funzione di una costruzione di una forza interna e non in nome di una battaglia di libertà anche per l’Europa democratica;
  2. questa scelta ha come conseguenza una visione eroica dell’intervento individuale dietro le linee dell’Europa occupata, in cui squadre di volontari suicidi si immolano per lanciare messaggi di rivolta che, al di là della efficacia, denunciano una filosofia subordinata a quella nazista (una suggestione tutt’altro che banale e che è illuminante al fine di comprendere la filosofia politica ed esistenziale profonda del fenomeno dei kamikaze palestinesi);
  3. la finalità politica cui risponde questa richiesta è quella dell’indipendenza territoriale di uno Stato ebraico in Palestina, comunque la fine di un qualsiasi progetto coabitativo o federativo.

Questo terzo aspetto, peraltro, è ciò che suggerisce due temi essenziali che Arendt proporrà nelle pagine centrali delle Origini del Totalitarismo: il tema delle realtà sociali e politiche sovranazionali come luoghi della ricomposizione mitogenica di un gruppo umano e quello, per molti aspetti connesso, dei diritti dei profughi e della figura dell’apolide se detentore o meno di diritti.

La prima questione corrisponde al vocabolario dei nazionalismi organicistici ottocenteschi (panslavismo, pangermanesimo,..) che Arendt intravede ripetersi anche nelle realtà coloniali e che intuisce essere foriero di grandi catastrofi sia politiche che umane (è il tema del panarabismo su cui non casualmente si dilunga a proposito della dimensione federativa della Palestina proponendo soluzione attente alla sfera dello scambio del Mediterraneo o comunque con soluzioni politiche che superino la frattura Europa/Medio Oriente anticipando spesso configurazioni e intuizioni che ancora sono sul tavolo della discussione pubblica).

La seconda questione, invece, allude al tema delle condizioni giuridiche della figura dell’apolide e del profugo, una condizione che i totalitarismi del Novecento non propongono più come un esule temporaneo, ma come un individuo destinato a essere presente per più di un ciclo generazionale in società accoglienti e per il quale non è previsto uno statuto se non quello di individuo protetto, ma non tutelato giuridicamente e dunque alla fine “ostaggio” anche in esilio.

Condizione che Arendt legge rispetto alla questione mediorientale (tanto da parte dei sionisti, come delle leadership politiche palestinese e arabe) non solo come fondativa di una richiesta di statualità, ma anche come legittimazione di un progetto che prevede solo situazione di maggioranza esclusiva.

In entrambi i casi la configurazione di un profilo etnico dello spazio pubblico che si accredita come una soluzione equa del problema, preparandone, invece, l’innalzamento della conflittualità e la sua permanenza. Tutto ciò scritto nel 1943.

 

       2. La forza dei totalitarismi

“Il totalitarismo rappresenta la negazione più radicale della libertà”. Sono le parole di esordio di La natura del totalitarismo, testo che Arendt scrive nel 1954 [ora ricompreso in Archivio Arendt. II, Feltrinelli, pp. 99-131] in cui riapre quel laboratorio di riflessione a cui ha dato una prima sintesi nel 1951 con il suo  Le origini del totalitarismo, il volume che l’ha posta al centro della discussione nel mondo culturale internazionale.

Arendt nel 1954 riapre la discussione per aggiungere un nuovo capitolo: a partire dal XVIII secolo i percorsi accidentati verso la libertà avevano battute la strada della promessa di felicità. Ora nel XX secolo  la prima cosa da contrastare è la paura.

La paura spiega Arendt è la macchina che tiene in piedi i totalitarismi.

L’obiettivo prima ancora che lo sterminio degli oppositori o degli esseri umani considerati nemici da cui liberarsi (la via più breve e radicale è sterminarli), è suscitare paura nei sudditi.

Avere paura non vuol dire solo sottomettersi, ma anche adeguarsi. Per esempio provando indifferenza nei confronti dei perseguitati. Oppure, vedendo un sopruso, voltarsi dall’altra parte.

Creare un sentimento di paura vuol dire fare in modo che non si crei un legame di simpatia, di solidarietà con i perseguitati Per questo è imprescindibile per quel potere suscitare paura nei cittadini. Nei totalitarismi non c’è salvezza, ricavandosi una nicchia di “privato”.

Dunque la prima vittoria dei poteri dispotici contemporanei, ovvero dei totalitarismi, è fare in modo che i perseguitati e quelli che saranno perseguitati siano ridotti in solitudine. Pur di non essere solo, ciascuno sarà così disposto ad ubbidire.

Questo tornerà a ripetere nel 1964, riprendendo i temi sollevati dieci anni prima quando scrive La responsabilità personale sotto la dittatura, [ora compreso in Responsabilità e giudizio, Einaudi].

Il totalitarismo inizia a perdere quando improvvisamente qualcuno fa un gesto anche insignificante che rompe quella condizione, che non dismette quella condizione di paura, ma che non si annulla nella paura.

Essere liberi, non vuol dire essere incoscienti, ma essere consapevoli dei propri diritti e avere rispetto di sé. Ci riguarda molto oggi.

È tempo che questo secondo tema si imponga nello spazio pubblico. Con forza. Con molta forza.

 

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