Italia

Lettera a Erri De Luca

Un omaggio severo e grato, all’obbedienza al poco e alla parola che non mente.

10 Dicembre 2025

Caro Erri,

scrivo sapendo che ogni parola è una sottrazione. Tu me lo hai insegnato senza insegnarmelo, perché chi scrive davvero non fa scuola, sposta l’aria. Ho imparato guardandoti che la lingua non si allarga con il fiato ma con l’obbedienza al poco, con quella severità frugale che non salva nessuno e non consola nessuno. Le parole in più sono le prime che tradiscono. Tu le hai tenute fuori come si tengono fuori gli ospiti indesiderati quando la casa è piccola e non ci si può permettere rumore.

Ho letto i tuoi libri come si ascolta un uomo che non alza la voce, proprio per questo lo si sente. Hai custodito una lingua che non fa corte e non chiede applausi. Una lingua che non serve per mostrare, ma per stare accanto senza invadere. Questo mi obbliga, ogni volta. Mi obbliga al poco e all’essenziale, che non è mai scarso ma è ciò che resta dopo che è passato il superfluo.

C’è una responsabilità nel dire. Non riguarda la morale ma il peso. Una frase può spezzare, può aprire, può spingere un altro essere umano in una direzione che non aveva previsto. Questa responsabilità non la si impara da un manuale ma da chi vive la parola come un gesto di mani nude. Tu l’hai sempre fatta passare nuda, senza il vestito del genere letterario, senza protezione. Come se dicessi al lettore: io questo posso offrirti, una corda tesa. Il resto è compito tuo.

Chi scrive non parla mai solo agli altri, parla al proprio inconscio e gli chiede di non mentire. La parola vera è sempre un rischio. Tu questo rischio lo hai affrontato come si affronta una montagna. Senza sicurezza. Senza promessa. Con la necessità come unico equipaggiamento. È questo che mi riguarda. Mi riguarda perché anche io, quando scrivo, devo concedere qualcosa che non ho voglia di concedere. Devo lasciare che una parte che non controllo salga al tavolo e mi detti la frase che non avevo previsto.

Tu hai chiamato questo movimento “stare sotto”. Sotto le nuvole, sotto le frasi, sotto le storie. Io lo chiamo, con il mio lessico, ascoltare la fenditura che attraversa l’io. È lì che si decide se una pagina respira o no. La tua scrittura respira perché non cerca ossigeno fuori da sé. Non prende aria dal mondo. La produce dall’attrito tra ciò che vivi e ciò che non dici.

Io ti devo questo. Non un debito, una riconoscenza. Mi hai mostrato che si può scrivere senza far rumore, che si può tenere una frase aderente al corpo, che si può fare letteratura senza chiedere di essere guardati. È un modo di apparire che non appare, e che proprio per questo resta. O meglio, resta vivo dentro chi legge.

Io ti scrivo per dirti che questo modo di stare al mondo, nella pagina e fuori, mi accompagna. Non ti chiedo nulla. Ti riconosco soltanto il gesto. Il rigore. La frugalità che non è povertà ma precisione affettiva, esistenziale, politica. E forse, in fondo, anche un po’ d’amore per la specie umana, che tu non dichiari ma custodisci nei margini.

Ti scrivo perché alcuni uomini non gridano e proprio per questo li si deve ascoltare due volte.

 

Lettera all’assenza di Eugenio Borgna

Un riconoscimento a chi lo ha letto e continua a leggerlo, perché la sua voce vive proprio nella sua assenza.

Caro Eugenio

scrivo nella tua assenza. È un gesto spoglio, quasi inutile, perché chi non c’è più non risponde e chi resta non può pretendere ascolto. Eppure, è proprio nell’assenza che una lettera trova il suo senso più ostinato. Non è un dialogo, è un attraversamento. Non interroga chi è partito, illumina chi è rimasto.

Ti scrivo perché non posso farlo a te. Lo faccio a nome di chi ti ha letto e continua a leggerti. Ragazze e ragazzi che hanno trovato nelle tue pagine una lingua che non giudica. Donne che hanno riconosciuto nelle tue parole una cura che non chiede di essere ricambiata. Studenti che hanno capito per la prima volta che la fragilità non è una colpa ma un modo di abitare il mondo. Lavoratori che hanno scoperto che la sofferenza non è un difetto ma un appello.

Hai parlato dei sentimenti come si parla di presenze. Hai restituito dignità alla malinconia. Hai dato spazio alla timidezza e alla paura senza trasformarle in accuse. Chi non ha voce nei manuali ha trovato in te qualcuno che ascoltava senza piedistalli. Hai dato a quella zona del vivere una lingua discreta, una lingua che si avvicina senza invadere.

Scrivere a te oggi significa attraversare una terra che non è più tua e non è ancora nostra. Una terra intermedia, dove restano le tracce di chi ha avuto cura dell’animo umano senza volerlo correggere. Tu hai fatto della psichiatria una forma di vicinanza. Hai trasformato il dolore in un compagno e non in un nemico. Hai guardato la sofferenza come si guarda un volto amato, senza volerlo cambiare ma con il desiderio di non lasciarlo solo.

Nelle tue pagine la mitezza non è debolezza ma precisione umana. È un modo di toccare il mondo senza romperlo. Rimane una postura morale che non ha bisogno di dichiarazioni. Chi ti legge per la prima volta lo capisce subito. Trova un uomo che non alza la voce e proprio per questo costringe ad ascoltare.

Io ti scrivo perché ci sono lettori che non hanno conosciuto la tua presenza e continuano a vivere dentro la tua parola. Sono loro la tua eredità. Non i concetti, non le teorie, non le conferenze. Loro, gli anonimi, gli stanchi, i delicati, i silenziosi, quelli attraversati da ferite che non si vedono. A loro continui a parlare anche senza esserci.

Scrivo nella tua assenza perché ogni tua pagina è una forma di compagnia. Non consola e non promette. Ma resta accanto. Oggi che non ci sei più questa vicinanza pesa di più. Non la si può interrompere e non la si può discutere. Si può soltanto riconoscerla.

Per questo ti scrivo. Per questo ti devono qualcosa quelli che ti leggeranno domani senza sapere che sei mancato. Per loro la tua voce continuerà a essere presente. A volte le assenze hanno un peso che le presenze non sostengono.

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