Tra sogno e speranza: il progetto della Grande Muraglia Verde

10 Luglio 2021

Queste sono immagini della stessa area del sud della Libia – come era ai tempi in cui l’Impero Romano combatteva i Cartaginesi, e come è oggi. Due pianeti diversi ed apparentemente inconciliabili. Ma non è così: parte del Sahel è divenuto Sahara (un deserto) perché la foresta pluviale che lo copriva è stata travolta dall’umanità, che ha usato in poche centinaia di anni tutto il legno (per edifici ed armi), tutta l’acqua (per l’irrigazione), tutta la selvaggina (per una popolazione nomade crescente che disprezzava le tribù più evolute che erano divenute stanziali e si erano dedicate all’agricoltura). Ancora oggi, il Sahara cresce ogni secolo del 10% e, se non viene fermato, in due secoli cancellerà anche le culture e gli insediamenti umani delle coste dell’Africa centrale[1]. Per una volta, almeno, l’umanità non sta con le mani in mano ad attendere il disastro.

Il Sahel ha l’immagine di una terra dannata: carestie, jihadismo, guerre tribali, colpi di stato, traffici di armi, di droga e di esseri umani, un orrore senza fine, dovuto anche alla miseria ed alle condizioni estreme in cui si vive in un deserto o intorno ad esso. Politicamente ci sono piccoli passi in avanti, grazie alla crescita di una coscienza democratica nelle giovani generazioni – ma la crisi umanitaria non accenna a rallentare, anzi: nel Sahel vivono oggi 135 milioni di persone[2], cifra destinata a raddoppiare entro il 2050 ed a raggiungere quota 670 milioni alla fine del secolo[3]. Un quarto degli abitanti muore di fame e di sete; il numero di quasi 2 milioni di sfollati cresce con l’intensificarsi delle carestie e dei conflitti armati[4]; nei campi di concentramento ai confini del deserto vivono da anni 176.000 rifugiati senza nessun futuro[5].

Tutto ciò può cambiare in tempi sorprendentemente brevi: la FAO (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’agricoltura e della fame nel mondo) ha messo in moto un progetto ciclopico, chiamato Grande Muraglia Verde, che vuole riportare, entro venti anni, acqua, foresta e selvaggina nella più grande area desertica del pianeta, restituendole vita e speranza, e contribuendo così in modo positivo all’equilibrio complessivo del Pianeta Terra.

Destinazione Sahel: là, dove si decide il futuro del Pianeta

L’area del Sahel (in arancione), che attraversa paesi afflitti da instabilità politica e climatica[6]

Il Sahel, un tempo terra di prati e di foresta pluviale, patria di vasti imperi commerciali e di culture poi annientate in guerre tribali, oggi è terra sabbiosa disseminata di rocce, divisa (geograficamente e culturalmente) tra il secco Sahara a nord e le savane più fertili a sud. Sono 4000 Km partendo dal Senegal, sulla costa atlantica, attraversando la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso, l’Algeria, la Libia, il Niger, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, il Ciad e il Sudan, fino all’Eritrea, all’Etiopia ed alla Somalia sulle coste del Mar Rosso.

I problemi della regione sono drammaticamente correlati tra loro. I reami medievali sono stati sostituiti dagli imperi coloniali europei, e la fine del colonialismo ha artificiosamente riunito territori in cui abitano etnie in guerra tra loro da secoli. La mancanza di identità nazionale impedisce la nascita di Stati nazionali moderni con forti valori identitari e di appartenenza dei propri cittadini.

Ogni singola tribù pensa solo al proprio oggi, e l’idea della costruzione di infrastrutture (abitazioni funzionali, istruzione, coordinamento economico e produttivo, assistenza sanitaria, acquedotti e canalizzazione) non è maggioritaria, ma decisamente elitaria. Come se non bastasse, i cambiamenti climatici peggiorano le condizioni di vita, costringendo i popoli a migrare, a mescolarsi con altre etnie, incentivando scontri per accaparrarsi esigue sorgenti idriche o scarni pascoli.

I meccanismi che accelerano la desertificazione sono noti: oltre alla riduzione delle precipitazioni, che hanno portato a lunghi e drammatici periodi di siccità come quello tra gli anni ’70 e ‘80[7], ed all’innalzamento delle temperature[8], l’azione diretta dell’uomo ha contribuito in modo determinante alla distruzione dell’ecosistema. Durante l’epoca coloniale sono state incentivate l’agricoltura e la pastorizia[9], creando la scomparsa di vecchi e consolidati equilibri sociali[10] e distruggendo intere foreste per lasciar posto a pascoli e a coltivazioni[11].

Queste coltivazioni, per la maggior parte monoculture industriali di aziende multinazionali, promuovono la desertificazione con l’enorme consumo d’acqua e con l’uso di composti chimici che avvelenano le falde acquifere[12]. Il continuo taglio di alberi impedisce la creazione di nuove falde, e rende instabile il terreno nella stagione delle piogge[13]. Tutte cose che oggi sono note, ma che già un secolo fa erano state il fulcro della battaglia eroica di un precursore, Richard St. Barbe Baker.

Il folle e meraviglioso sogno di Richard St. Barbe Baker

Nairobi, Kenya, 1953: Richard St. Barbe Baker alla fine della prima spedizione della Sahara University[14]

Se credete che l’ambientalismo sia cosa moderna, vi sbagliate: i primi ecologisti erano attivi già più di 5000 anni fa[15]. Una delle prime ribellioni di coloro che possiamo assimilare senza dubbio ai moderni ambientalisti, è quella dei Bishnoi Hindu di Khejarli, che furono massacrati dal Maharaja di Jodhpur nel 1720 per aver tentato di proteggere la foresta che il Maharaja voleva abbattere per farsi costruire un palazzo[16]. L’ambientalismo, per la prima volta visto come diritto, accade nel 1739: Benjamin Franklin e altri residenti di Philadelphia, presentano una petizione all’Assemblea della Pennsylvania per arrestare lo scarico dei rifiuti e rimuovere le concerie dal distretto commerciale cittadino[17]. Da lì in poi i movimenti locali si moltiplicano ovunque.

Lo scienziato Richard St. Barbe Baker, però, è una spanna sopra a chiunque altro. Da giovanissimo sposa la fede Bahá’í, una religione monoteistica che presta grande attenzione all’equilibrio tra uomo e ambiente – una visione del mondo che ha comunque appreso in famiglia, scienziati agronomi ante litteram[18]. Chiama suoi amici gli alberi: la sua biografia racconta che lui abbia piantato, personalmente, in giro per il mondo, 26 miliardi di alberi[19].

Dal 1920 lavora come guardia forestale nelle colonie britanniche in Africa ed è Assistant Conservator of Forests in Kenya[20]. Intuisce che una devastazione sia in atto e che l’incentivazione su larga scala di agricoltura e pastorizia abbia un impatto estremamente negativo sull’equilibrio ecosistemico: le foreste vergini riducono rapidamente la loro estensione, e questo vanifica la capacità del terreno di conservare le riserve idriche[21].

L’unica soluzione possibile è la riforestazione: all’inizio ottiene solo la collaborazione dei guerrieri Kikuyu, e nel 1922 avvia con loro un progetto di rimboschimento che prescinde dal potere coloniale inglese[22]. È l’inizio di un viaggio personale affascinante: nel 1924 Baker fonda l’organizzazione Men of the Trees, che si diffonde in molti paesi col nome di International Tree Foundation[23]. Un progetto che capiscono e condividono tutti, nativi in testa, altrimenti così restii ad accettare lezioni dall’uomo bianco.

Nel 1952 Baker guida la prima spedizione dell’Università del Sahara, coprendo circa 14.500 km da Algeri al Kilimangiaro, per analizzare l’avanzata del deserto e sviluppare strategie per fermarne l’espansione[24]. La sua prima idea resta confermata: l’avanzata del deserto può essere arrestata solo creando un “fronte verde” di alberi, lungo 6.400 chilometri e largo 48 chilometri, lungo le propaggini meridionali del Sahara[25].

Baker si impegna per tutta la vita in estenuanti trattative diplomatiche con i capi di Stato di 24 paesi alla ricerca di appoggi concreti per il suo progetto. Muore nel 1982 senza aver visto il traguardo, ma avendo senza dubbio il merito di aver cambiato profondamente l’atteggiamento e la consapevolezza degli africani e di aver avviato progetti locali secondo tecniche che vengono usate tuttora. Il suo ciclopico e visionario progetto del “fronte verde”, quindi, non muore con lui[26].

The Great Green Wall

Lo sviluppo previsto per la Grande Muraglia Verde (verde chiaro), con le correzioni apportate dai singoli governi nazionali (verde scuro) dei paesi fondatori del progetto[27]

In Algeria, sulla scia delle esperienze fatte da Baker, negli anni ’70 prende il via il progetto “Barriera Verde” (Green Dam) che mira a mitigare gli effetti della desertificazione nel Sahara[28]. L’approccio è pieno di buona volontà, ma anche di errori, come gli sgomberi per le piantumazioni o l’uso di alberi monospecie, azioni che portano a tensioni sociali: i risultati non sono entusiasmanti, per cui il metodo muta gradualmente, arricchendosi di procedure sempre più evolute, come l’utilizzo di specie diverse di alberi da adattare alla geografia del luogo e una più attenta pianificazione sociale e politica[29].

Nel 1978, la Cina decide di fermare l’espansione del Deserto di Gobi – un quadrilatero di oltre 4000 km di lunghezza per quasi 1000 km di larghezza. Il progetto, chiamato Three North Shelter Forest Program[30], viene rinominato “Grande Muraglia Verde” dall’allora presidente Deng Xiaoping: è un sistema integrato agricolo, pastorale e forestale che tiene in attenta considerazione anche lo sviluppo sociale e la creazione di infrastrutture – un piano ambizioso, che deve concludersi nel 2050, e che, al netto di alcuni errori commessi lungo la via, dev’essere comunque considerato un successo[31].

È da qui che la FAO prende l’idea della riforestazione dell’Africa. Se ne parla per la prima volta (ufficialmente) durante il 7° Summit della Comunità degli Stati del Sahel-Sahara (CEN-SAD) dell’1 e 2 giugno 2005 a Ouagadougou (Burkina Faso). L’allora presidente della Nigeria, Chief Olusegun Obasanjio, sostenuto dal presidente senegalese Abdoulaye Wade, decide di iniziare un progetto chiamato “Great Green Wall for the Sahel and Sahara Initiative” (GGWSSI), poi ripresentato al 5° Vertice Ordinario dell’Unione Africana nel luglio 2005 a Sirte, in Libia[32].

L’’idea di arginare la desertificazione con opere di bonifica e riqualificazione del territorio non vuole solo piantare nuovi alberi, ma anche integrare singoli progetti locali con misure che rendano nuovamente abitabili zone oramai disabitate, rivitalizzando l’uso delle risorse del suolo, dell’acqua e delle foreste, lo sviluppo pastorale, la produzione agricola, nonché l’integrazione di genere nello sviluppo[33]. L’iniziativa riceve il plauso dai vari governi di Gibuti, Eritrea, Etiopia, Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger, Senegal, Sudan e Ciad, che, assieme alla Nigeria, danno il via allo sviluppo di azioni locali: nel giugno del 2006, in un nuovo summit CEN-SAD, verrà istituita una commissione di specialisti per coordinare un capillare monitoraggio ambientale[34].

Il progetto prende velocemente corpo. Nel gennaio del 2007 l’Unione Africana, con la dichiarazione 137/VIII[35], dà il via ufficiale all’attuazione del Great Green Wall che prevede, con la condivisione degli 11 paesi già attivi dal summit del CEN-SAD, una rapida implementazione del progetto originario, esteso fino a coinvolgere 21 paesi[36] e numerosi partner internazionali[37].

Imparare dagli errori per ripartire

Il coinvolgimento delle comunità locali nel progetto Great Green Wall è fondamentale per la sua riuscita[38]

Il progetto è un grande passo avanti per l’ambientalismo: il deserto non è più una “malattia”, ma un ecosistema che contribuisce alla biodiversità e alla ricchezza della Terra. La sua espansione dipende dall’azione umana e dalle variazioni climatiche, non da una sua anima distruttiva. La piantumazione non deve essere generalizzata, ma fatta in zone dove agricoltura e pastorizia sono avanzate e patrimonio di nuclei sociali organizzati: solo allora i benefici sono immediati e coinvolgono la popolazione locale.

Il processo di rigenerazione è delicato, perché non è possibile affrontarne gli aspetti biologici a prescindere da quelli sociali. In parole semplici: il progetto, non importa quanto mastodontico, funziona solo se in ogni villaggio riesce a convincere gli abitanti della sua utilità – una considerazione che influenza direttamente la scelta delle specie arboree da impiantare[39]. La scommessa, poi, non si vince solo piantando nuovi alberi, ma salvando la flora e la fauna già esistenti ed adattati ad ogni singolo luogo[40].

Gli insuccessi del passato, che hanno visto ettari di nuovi alberi distrutti per non aver integrato il progetto con le varianti socioeconomiche delle realtà locali, non dovranno più essere ripetuti[41]. Con un accordo tra i Capi di Stato e di Governo di Burkina Faso, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan, Ciad, e sotto l’egida dell’Unione Africana, il 17 giugno del 2010 nasce l’Agenzia Panafricana della Grande Muraglia Verde (PAGGW)[42]. La sua missione è quella di riassumere le esperienze del passato, farne una sintesi, elaborare nuove risposte e trovare i soldi per la loro realizzazione[43].

Nel 2012 la Conferenza dell’ONU sullo sviluppo sostenibile inserisce l’economia verde nell’agenda mondiale. Si discute di come mitigare gli impatti climatici difendendo la biodiversità, e di come questo garantisca la sicurezza alimentare per la popolazione[44]. Il progetto Great Green Wall diventa un ganglio strategico dell’ONU e della FAO, si liberano fondi internazionali, si lavora alla sua implementazione con altri progetti internazionali[45] come la Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD), la Banca mondiale (BM), il Global Environment Facility (GEF) e l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN)[46].

Nel 2014 l’ONU avvia il programma Action Against Desertification, un’iniziativa del Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) che si prefigge la bonifica delle terre aride e degradate in Africa, nei Caraibi e nel Pacifico, e sarà un partner chiave per il Great Green Wall[47]. Il programma è operativo dal 2016: la FAO, assieme all’Africa Union Commission, all’Unione Europea, all’Organizzazione degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, alla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione ed altri, stanzieranno un budget di 41 milioni di euro per il primo piano di restauro ambientale[48].

Bene ma non benissimo – anzi male

La parte già realizzata del Great Green Wall, in Etiopia[49]

Da allora si è fatto molto, ma ciò che gli ambiziosi obiettivi si ripromettevano, ovvero ripristinare 100 milioni di ettari di terreno degradato, sottrarre 250 milioni di tonnellate di CO2 e creare 10 milioni di posti di lavoro nelle aree rurali tutto entro il 2030[50], non è avvenuto.

Nel 2020 la metà del tempo prevista per la realizzazione del progetto è trascorsa, ma ne è stato realizzato solo un deludente 4%[51]. Sono stati resi fecondi 18 milioni di ettari di terreno, sono stati creati 350’000 nuovi posti di lavoro e generati circa 90 milioni di dollari di entrate[52]. Ma questo a fronte di oltre 200 milioni di dollari investiti e, quindi, di perdite imponenti[53]. Ci sono poi enormi differenze tra le opere realizzate dai singoli Stati – dipendenti, ovviamente, dalla situazione bellica, sociale e politica del singolo paese. L’Etiopia ha iniziato a rimboschire prima delle altre nazioni della regione, ed è in prima linea avendo piantato 5,5 miliardi di piante su 151’000 ettari di nuova foresta e 792’000 ettari di nuovi campi[54]. Il Burkina Faso invece ha piantato soltanto 16,6 milioni di piante; il Ciad 1,1 milioni, sebbene le due nazioni sono quelle che hanno ricevuto i maggiori sostegni finanziari[55].

L’aspetto economico è centrale: si calcola che il costo medio per il ripristino ambientale nel territorio Africano sia di 440 dollari per ettaro, ma per le regioni più sofferenti del Sahel tale cifra, nei fatti, sale fino a 530 dollari[56]. Questo significa che, per andare avanti, ci sarà bisogno di una cifra tra i 36 e 43 miliardi di dollari fino al 2030 – ma finora il progetto è stato finanziato solo per 206 milioni di dollari, assolutamente insufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati[57].

C’è poi il problema della gestione locale dei fondi stanziati: Salwa Bahbah, analista di ricerca della Climatekos, l’azienda incaricata di redigere il rapporto ONU, dichiara: “Non sappiamo esattamente dove finiscono i soldi e come vengono utilizzati”[58]. Nel rapporto della Banca Mondiale del 2020 si legge che i paesi che più ricevono aiuti internazionali sono anche quelli i cui politici posseggono il numero maggiore di depositi bancari nei paradisi fiscali[59].

È assodato che gli Stati nella regione del Sahel siano tra i più corrotti al mondo. Oltre a ciò, il Sahel pullula di gruppi insurrezionalisti e ribelli islamici, etnie in lotta e gruppi criminali internazionali alla costante ricerca di nuove risorse economiche, e intrecciate ormai con le attività politiche e commerciali locali[60]. Quanto questi elementi abbiano influito sino ad oggi nel rallentare il processo di attuazione del progetto GGW è difficile stabilirlo, ma che vi abbiano contribuito è del tutto verosimile.

Il Great Green Wall Accelerator

Il One Planet Summit for Biodiversity[61]

Le organizzazioni internazionali capiscono che il progetto rischia di affondare e tentano di riorganizzarsi. Durante il One Planet Summit for Biodiversity dell’11 gennaio 2021, organizzato da Francia, Nazioni Unite e Banca Mondiale[62], viene presentato il Great Green Wall Accelerator, un’iniziativa che mira a migliorare la collaborazione tra le agenzie mondiali, le autorità nazionali, le comunità locali e il settore privato. Il coordinamento viene assegnato alla PAAGGW e, stavolta, viene dotato di un budget di 14,326 miliardi di dollari[63].

Il presidente della Mauritania Mohamed Cheikh El-Ghazouani, capo della PAAGGW, annuncia entusiasta: “Questo finanziamento aggiuntivo, insieme ad un nuovo approccio operativo, contribuirà al sicuro raggiungimento degli obiettivi della Grande Muraglia Verde”[64]. Parallelamente, anche le fondazioni private, come la Bill & Melinda Gates Foundation e la Rockefeller Foundation, hanno costituito la AGRA (Alliance for a Green Revolution in Africa), hanno deciso di contribuire su singoli progetti locali coordinati dal progetto della FAO e della PAAGW[65].

Ma i nemici del progetto si sono preparati a sabotare tutto: le multinazionali agricole Monsanto e Yara hanno lanciato una campagna di stampa, in tutti i paesi africani, insinuando che dietro l’idea della Grande Muraglia Verde ci siano interessi commerciali tutt’altro che trasparenti[66], ed intanto, in modo velato, ripetono che le multinazionali abbiano comunque il controllo globale del mercato delle sementi[67].

C’è in gioco una partita di importanza immane: chi acquisirà il controllo e la proprietà dei terreni bonificati e trasformati da deserto in terreno agricolo – questi acquistano un grande valore commerciale e vengono sottratti ai contadini con la violenza, con l’inganno e con il sopruso: non basta trasformare la sabbia in un giardino, bisogna poterlo difendere, e questo particolare non fa parte (purtroppo) del progetto della FAO e delle Nazioni Unite, e gli Stati nazionali interessati non hanno la forza per garantire nulla.

Preoccupa molto il fatto che, nell’opinione pubblica, di questo che è il più grande progetto di resurrezione del Pianeta, non se ne sa nulla. Come se non accadesse o non interessasse nessuno – oppure non ci fosse, nemmeno in Occidente, una maggioranza politica a favore della salvezza del Sahara e, quindi, della mitigazione delle estati dell’area del Mediterraneo, che negli ultimi anni sono divenute intollerabili. Il Great Green Wall Accelerator promette di occuparsi anche di questo. Gli errori del passato hanno insegnato qualcosa, speriamo. La grande mobilitazione sin qui osservata sembra raccontarci che il sogno potrebbe andare verso la sua realizzazione, e, romanticismo a parte, non dobbiamo smettere di crederci.

 

 

 

 

 

 

[1] https://e360.yale.edu/digest/the-sahara-desert-has-grown-10-percent-since-1920 ; https://journals.ametsoc.org/view/journals/clim/31/9/jcli-d-17-0187.1.xml?tab_body=fulltext-display
[2] https://www.prb.org/resources/demographic-challenges-of-the-sahel/
[3] https://www.prb.org/resources/demographic-challenges-of-the-sahel/
[4] https://www.voanews.com/africa/internal-displacement-sahel-tops-2-million-armed-conflict-intensifies
[5] https://dtm.iom.int/reports/west-and-central-africa-%E2%80%94-liptako-gourma-crisis-monthly-dashboard-14-25-february-2021
[6] https://thearabweekly.com/sahel-struggles-terror-poverty-and-climate-change
[7] https://news.globallandscapesforum.org/40544/as-the-sahel-dries-the-sahara-advances/
[8] https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/5jlsmktwjcd0-en.pdf?expires=1624789394&id=id&accname=guest&checksum=4A7FDADF80192BD6650AB6F6E407F1BC “Climate Impacts in the Sahel and West Africa: The role of climate science in policy making” – West African Papers No. 02
[9] https://agritrop.cirad.fr/580714/7/Gautier_2016_Impacts_drought_responses_rural_populations_West_Africa.pdf “Impacts of drought and responses of rural populations in West Africa” – Denis Gautier, David Denis, Bruno Locatelli – 2016
[10] https://agritrop.cirad.fr/580714/7/Gautier_2016_Impacts_drought_responses_rural_populations_West_Africa.pdf “Impacts of drought and responses of rural populations in West Africa” – Denis Gautier, David Denis, Bruno Locatelli – 2016
[11] https://core.ac.uk/download/pdf/48835717.pdf “Environmental Impacts of Colonialism” – Lawrence Wood – 12/14/2015
[12] https://pubs.iied.org/sites/default/files/pdfs/migrate/9027IIED.pdf “Science, Use Rights and Exclusion: A History of Forestry In Francophone West Africa” – Jesse Ribot – 2002; https://e360.yale.edu/features/how-africas-big-water-projects-helped-trigger-the-migrant-crisis
[13] https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/2013WR015197 ; https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/ldr.3430 ; https://www.cifor.org/knowledge/publication/5996/
[14] https://bahaiteachings.org/the-man-of-the-trees-and-the-great-green-wall/
[15] https://www.greenpeace.org/international/story/11658/a-brief-history-of-environmentalism/
[16] https://www.greenpeace.org/international/story/11658/a-brief-history-of-environmentalism/
[17] https://www.newworldencyclopedia.org/entry/Environmentalism
[18] https://iefworld.org/cmpquotes.htm
[19] https://stbarbebaker.wordpress.com/2016/06/08/st-barbe-tributes/
[20] https://library.usask.ca/archives/campus-history/ocn/ocn_1dec1995-trees.php
[21] https://news.bahai.org/story/1292/
[22] https://news.bahai.org/story/1292/
[23] https://internationaltreefoundation.org/
[24] https://www.wildernessfoundation.co.za/news/st-barbe-and-the-incredible-journey
[25] https://www.wildernessfoundation.co.za/news/st-barbe-and-the-incredible-journey
[26] https://stbarbebaker.wordpress.com/2016/06/08/st-barbe-tributes/
[27] https://link.springer.com/article/10.1007/s10113-019-01481-z
[28] https://www.researchgate.net/publication/273286423_The_Green_Dam_in_Algeria_as_a_tool_to_combat_desertification ; https://www.ipcc.ch/srccl/chapter/chapter-3/ par. 3.7.2.2
[29] https://agritrop.cirad.fr/567880/1/document_567880.pdf “The African Great

Green Wall project” – R. Bellefontaine, M. Bernoux and other – I. Amsallem, Agropolis Productions, S. Jauffret, Ecological Consultant – Page 6 ; https://www.ipcc.ch/srccl/chapter/chapter-3/
[30] https://www.researchgate.net/figure/The-Three-North-Shelter-Forest-Program-TNRSF-in-northern-China-defined-also-by-green_fig1_303853110
[31] https://ecobnb.com/blog/2019/07/china-the-new-green-wall-which-will-stop-the-desert-advancing/
[32] http://www.grandemurailleverte.org/images/ENG_GGWI_ACHIEVEMENT-2011_2017.pdf
[33] https://africa-eu-partnership.org/sites/default/files/documents/090723_actionplan_ggwss_censad_ua_may08.pdf
[34] http://sdg.iisd.org/news/sahel-saharan-states-to-set-up-research-commissions/
[35] https://oau-aec-au-documents.uwazi.io/en/document/zbktxmf46v6t2miuv94cmcxr?page=2
[36] https://www.greatgreenwall.org/partners
[37] http://www.streetstore.it/templates/layout_1/index_1.php?callpage=cls&cls=654
[38] https://www.unep.org/news-and-stories/story/good-news-africas-great-green-wall
[39] https://www.smithsonianmag.com/science-nature/great-green-wall-stop-desertification-not-so-much-180960171/
[40] https://www.iied.org/sahelian-great-green-wall-start-local-solutions
[41] https://agritrop.cirad.fr/567880/1/document_567880.pdf
[42] https://www.iucn.org/theme/ecosystem-management/our-work/global-drylands-initiative/gdi-projects/closing-gaps-great-green-wall-linking-sectors-and-stakeholders-increased-synergy-and-scaling
[43] https://web.archive.org/web/20130810082842/http://www.grandemurailleverte.org/gmv/donnees/Convention%20MIRAILLE%20EN%20ANGLAIS.pdf
[44] https://www.minambiente.it/pagina/conferenza-rio20-una-sfida-importante
[45] https://www.unccd.int/news-events/united-nations-releases-rio-plus-20-zero-draft-future-we-want ; https://wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/26095/AMCEN14_decisions.pdf?sequence=1&isAllowed=y
[46] https://catalogue.unccd.int/1551_GGW_Report_ENG_Final_040920.pdf
[47] http://www.fao.org/in-action/action-against-desertification/overview/en/
[48] https://knowledge.unccd.int/sites/default/files/inline-files/Biblio_Great_Green_Wall_research_Success_stories_news_science_media_projects.pdf
[49] https://www.unccd.int/news-events/great-green-wall-one-planet-summit-2021
[50] https://www.greatgreenwall.org/2030ambition
[51] https://www.theguardian.com/environment/2020/sep/07/africa-great-green-wall-just-4-complete-over-halfway-through-schedule
[52] https://catalogue.unccd.int/1551_GGW_Report_ENG_Final_040920.pdf
[53] https://catalogue.unccd.int/1551_GGW_Report_ENG_Final_040920.pdf
[54] https://www.theguardian.com/environment/2020/sep/07/africa-great-green-wall-just-4-complete-over-halfway-through-schedule
[55] https://www.theguardian.com/environment/2020/sep/07/africa-great-green-wall-just-4-complete-over-halfway-through-schedule
[56] https://catalogue.unccd.int/1551_GGW_Report_ENG_Final_040920.pdf
[57] https://catalogue.unccd.int/1551_GGW_Report_ENG_Final_040920.pdf
[58] https://www.theguardian.com/environment/2020/sep/07/africa-great-green-wall-just-4-complete-over-halfway-through-schedule
[59] https://documents.worldbank.org/en/publication/documents-reports/documentdetail/493201582052636710/elite-capture-of-foreign-aid-evidence-from-offshore-bank-accounts ; https://documents1.worldbank.org/curated/en/493201582052636710/pdf/Elite-Capture-of-Foreign-Aid-Evidence-from-Offshore-Bank-Accounts.pdf
[60] https://www.gtreview.com/magazine/volume-19-issue-2/great-green-wall-project-wall-worth-building/
[61] https://www.genesisarg.com/en/novedades/cumbre-one-planet-nuevos-compromisos-de-financiacion-dan-un-gran-impulso-al-acuerdo-de-paris/
[62] https://www.unccd.int/news-events/one-planet-summit-biodiversity
[63] https://www.greatgreenwall.org/great-green-wall-accelerator
[64] https://greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/one-planet-summit-impegni-concreti-per-proteggere-la-biodiversita-e-per-realizzare-aree-protette-a-mare-e-a-terra-e-ce-anche-litalia/
[65] https://allafrica.com/stories/202004080119.html
[66] https://leadersinwildlifeconservation.org/blogs/f/the-great-green-wall-in-africa?blogcategory=Threats
[67] https://www.dw.com/en/agriculture-seeds-seed-laws-agribusinesses-climate-change-food-security-seed-sovereignty-bayer/a-57118595

TAG: Africa, cambiamenti climatici, Great Green Wall, Sahel
CAT: acqua, clima

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