Ruanda, Congo e Uganda: il confine maledetto

2 Febbraio 2023

Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul confine russo-ucraino e quello tra Cina e Taiwan, conflitti di importanza planetaria vengono combattuti come se fosse inutile preoccuparsi del domani. Esiste un asse geografico, che parte dall’Etiopia ed Eritrea ed arriva a Cabinda, l’enclave angolana nel Congo DRC, sulle cui rotte passano due terzi dei minerali strategici del mondo – e vanno in Cina, o in Russia, o in Occidente, o nei paesi arabi, o in India. Sul terreno si lotta con acrimonia e cinismo, in una guerra non dichiarata che costa migliaia di morti ogni anno.

Questa guerra si gioca su tre tavoli: il primo, quello della logistica, è quello al quale i giocatori più pericolosi sono il governo angolano[1], quello cinese[2], il gruppo francese Bolloré e le multinazionali delle commodities[3]. Il secondo tavolo è quello dell’esplosione del mercato del petrolio – in un momento in cui, in conferenze planetarie, il mondo sostiene di voler chiudere l’era delle benzine e passare all’energia rinnovabile[4]. Il terzo è quello militare, che si gioca su un confine lunghissimo e maledetto, che corre tra Congo DRC, Ruanda, Uganda, Burundi e Malawi. La somma delle scommesse sui tre tavoli dovrebbe esprimere un vincitore, ma accade esattamente il contrario: la confusione aumenta, e con essa l’instabilità, la crisi economica, il numero di morti.

Nonostante i negoziati ed i trattati, su quel confine si spara, si contrabbanda, si tortura, si sfrutta. Il North Kivu è il centro del traffico dei minerali, delle armi, della tratta degli schiavi, ed il governo di Kinshasa, debole e lontano 2000 chilometri, per finanziare la guerra, la corruzione e calmare i warlords al confine, ha deciso di assegnare 30 nuove licenze di sfruttamento petrolifero – nelle aree protette più importanti ed insostituibili dell’intero continente. In un gioco perverso, ogni piccola mossa su uno dei tre tavoli produce un immediato peggioramento su tutti gli altri e mette in pericolo la sicurezza dell’intero continente africano.

Un tavolo chiamato M23

Un carro armato dell’esercito congolese in viaggio verso il confine con il Ruanda[5]

Tra il 29 ed il 30 novembre dello scorso anno, il gruppo armato M23 massacra 131 civili a Kishishe e Bambo, due villaggi nel territorio di Rutshuru, nell’est della Repubblica Democratica del Congo DRC. La denuncia è dell’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unjhro) e della Missione di stabilizzazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO): le 131 vittime sono 102 uomini, 17 donne e 12 bambini; inoltre risultano 60 persone rapite, oltre a 22 donne e 5 ragazze violentate[6]. Secondo gli investigatori si tratterebbe di una rappresaglia per gli scontri tra l’M23 e le Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (FDLR – FOCA), i gruppi armati Mai Mai Mazembe e Nyatura Coalition des Mouvements pour le Changement”[7].

I massacri nel Rutshuru non sono episodi isolati, ma sono gli ultimi di una lunga serie commessi nella DRC in quasi 30 anni: si stimano siano oltre 8 milioni le vittime dal 1998 (secondo uno studio di IRC, soltanto tra il 1998 ed il 2008 i conflitti lasciano sul terreno 5,4 milioni di morti[8]; a questi se ne aggiungono, sino ad oggi, altri 3 milioni[9]) e diversi milioni gli sfollati[10]. Numeri impressionanti. A lasciare una cicatrice profonda sono le due principali guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003) che hanno inizio nella parte est della DRC – una regione che, secondo il Kivu Security Tracker, soltanto nel 2019 conta almeno 130 gruppi armati che lottano non soltanto mossi da motivi etnici, ma anche per il controllo dei ricchi giacimenti minerari lungo il confine[11]: la maggior parte conta su meno di 200 combattenti, ma da anni dominano la scena bellica, specialmente nel nord e nel sud del Kivu, rendendo la parte orientale della DRC praticamente inabitabile ed incontrollabile.

C’è un vasto commercio illegale che li arma e li finanzia, poiché la DRC possiede enormi ricchezze minerarie: il 41% delle riserve mondiali di cobalto[12] (alla cui estrazione vi partecipano almeno 200’000 minatori “informali”[13]), il 10% di quelle di oro (43 tonnellate prodotte nel 2020, contando solo il commercio legale[14]), oltre il 50% delle riserve di coltan (un minerale raro e prezioso che contiene tantalio e niobio[15]), oltre a rame e stagno, ed ingenti risorse di diamanti, uranio, e cassiterite – un sottosuolo tra i più ricchi al mondo.

Le miniere, dove lo sfruttamento e la corruzione dilagano a causa della complicità dei politici[16], risultano gestite illegalmente dai gruppi armati, ma anche dall’esercito regolare[17]. Nel Sud Kivu oltre il 60% delle miniere è in mano ai ribelli[18], e vi lavorano indistintamente uomini, donne e bambini (solo nel Katanga, nell’area meridionale del Congo, si stima ci siano tra i 70’000 e i 150’000 minatori artigianali, di cui circa 40’000 bambini sotto i 16 anni[19]) che, dopo 14 ore di lavoro, racimolano un dollaro – o muoiono, poiché durante la stagione delle piogge può capitare che si resti seppelliti sotto le frane o nei tunnel anche in 30 o 40, in un solo giorno, in una sola miniera[20].

Il Ruanda è la miccia

Il genocidio in Ruanda, origine dei sanguinosi conflitti con le confinanti regioni del Kivu[21]

Il primo evento di una lunga serie che ha trasformato una società relativamente pacifica come la Repubblica Democratica del Congo in un’arena di guerra è il genocidio degli hutu, per mano dei tutsi, avvenuto in Ruanda nel 1994: questa tragedia genera una escalation di conflitti unica nella storia africana moderna. Uno dei risultati più significativi è la massiccia migrazione di oltre due milioni di hutu nella regione congolese del Kivu, cui viene consentito di armarsi e stabilirsi lungo il confine[22] mentre, lungo la frontiera con il Ruanda, vengono istituiti i campi dell’UNHCR, nei quali si replicano i fronti armati della guerra etnica ruandese, compresi gli Interhamwe e l’Esercito per la liberazione del Ruanda (ALiR)[23].

La vasta immigrazione sconvolge gli equilibri nel Kivu: gli hutu divengono una forza dominante, isolano e attaccano i tutsi congolesi, per altro con il sostegno dell’esercito del Congo (allora guidato dal cleptocrate Mobutu) e di alcuni politici del Kivu[24]. Le tensioni si estendono dal sud al nord del Kivu, lungo i campi profughi ruandesi: è l’inizio di un veloce quanto inarrestabile susseguirsi di massacri disumani[25]. Nel 1996, il Ruanda e i suoi alleati ugandesi invadono il Congo orientale per dare la caccia ai fautori del genocidio, scatenando quella che è stata chiamata la “guerra mondiale dell’Africa”[26]. Supportati dal leader dell’opposizione congolese Laurent Désiré Kabila, destituiscono il sanguinario dittatore Mobutu, portando al potere Kabila assieme alla sua Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo-Zaïre (AFDL)[27].

È alle porte una seconda guerra ben più sanguinosa (1998-2003), scatenata da due eventi: il licenziamento del ministro della difesa congolese James Kabarebe, ruandese e responsabile della conduzione della prima guerra del Congo[28], e il sostegno del Congo all’ALiR, responsabile del genocidio tutsi del 1994. Sia il Ruanda che l’Uganda, accusando Kabila di consentire ai gruppi ribelli di attaccare i loro paesi dalle basi nella DRC orientale, tentano di rimuoverlo dal potere, istituendo il Rassemblement Conglais Democratie (RCD), una milizia composta principalmente da tutsi congolesi[29].

La ribellione si trasforma in una guerra su vasta scala che coinvolge le forze armate di sei paesi, tra cui Angola, Zimbabwe e Namibia, che intervengono a sostegno di Kabila: sullo sfondo il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale. La guerra dura cinque anni e, oltre a provocare milioni di morti, trascina la regione nella fame e nella malattia. È un vero e proprio massacro, fermato dall’accordo di Sun City dell’aprile 2002[30], dal successivo accordo di Pretoria del luglio 2002[31], perfezionato dall’accordo di Luanda tra Uganda e Congo[32], intese che pongono ufficialmente fine alla guerra; il governo di transizione della Repubblica Democratica del Congo va al potere nel luglio 2003 – fino a quando, nel 2006, Joseph Kabila, figlio di Laurent Kabila, vince la presidenza nelle prime elezioni democratiche della DRC[33].

Nel 2004 si apre una nuova grave crisi tra il governo e i ribelli tutsi filo-ruandesi del Congrès National pour la Défense du Peuple (CNDP, creato dal generale Laurent Nkunda[34]), placata da un trattato di pace del gennaio 2008, che non dura molto: a fine ottobre il conflitto nel Kivu riprende in tutta la sua intensità, con l’entrata in guerra del Front Démocratique de Libération du Rwanda (FDLR), della missione ONU (MONUC), dei regionali Mai-Mai, e degli eserciti stranieri di Angola e Zimbabwe[35]. La lotta dura fino al 2009, quando le truppe ruandesi arrestano Nkunda; il CNDP, il 23 marzo dello stesso anno, firma un trattato di pace con il governo con l’accordo di integrare le proprie milizie nell’esercito nazionale e far riconoscere il CNDP come un partito politico[36].

Tutti contro tutti

8 luglio 2012: Il generale Sultani Makenga (al centro), capo del gruppo ribelle M23[37]

Il 28 novembre 2011 Joseph Kabila vince un’elezione controversa in un clima di grande tensione e violenza[38]. L’accordo del 23 marzo 2009 consente ai ribelli del CNDP di occupare posizioni di alto rango nell’esercito ed estorcere tasse illegali alle imprese e alle miniere nella regione[39]. Il 4 aprile 2012 il leader del CNDP, Bosco Ntaganda, con le truppe a lui fedeli composte da circa 300 soldati e integrate nella milizia nazionale, si ammutina, lamentando il pessimo trattamento e rivendicando una violazione del trattato di pace – perché la loro autonomia è minacciata[40]: è la nascita del Movimento 23 marzo (M23).

Composto principalmente da tutsi, si oppone alla milizia Hutu Democratic Forces for the Liberation of Rwanda (FDLR[41]) ed alle milizie Mai-Mai (create e sostenute dalla DRC[42]). Sotto la guida di Sultani Makenga[43] e del generale Bosco “The Terminator” Ntaganda[44], il gruppo M23 dimostra di possedere una forza combattente significativa con l’occupazione di Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu, nel novembre 2012[45].

Un rapporto dell’ONU afferma che i ribelli del M23 operano sotto il comando generale del ministro della difesa ruandese e con il sostegno dell’Uganda, e che la ribellione del M23 goda di finanziamenti da parte di trafficanti che traggono enormi profitti dal contrabbando di stagno, tungsteno e tantalio proveniente dalle miniere della DRC orientale[46]. Il gruppo dei ribelli si divide in due fazioni nel febbraio del 2013, guidate rispettivamente da Bosco Ntaganda e Sultani Makenga; il primo gruppo fugge nel Ruanda, e la parte guidata da Makenga, rimanendo isolata, va incontro alla sua fine[47]: la repressione da parte dei battaglioni di commando delle FARDC e di una brigata delle Nazioni Unite la portano, nel novembre del 2013, alla resa totale[48].

Sultani Makenga, fuggito in Uganda, con il sostegno internazionale cerca di mediare la fine dei combattimenti[49]: in modo del tutto inaspettato, Ntaganda si consegna spontaneamente ai funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti in Kigali, chiedendo di essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale di Den Haag[50]. Questa muove contro di lui sette capi d’accusa per crimini di guerra e tre capi d’accusa per crimini contro l’umanità commessi nell’Ituri, in DRC, tra il 1° settembre 2002 e la fine di settembre 2003[51]. Le orribili brutalità commesse dal gruppo ribelle (esecuzioni sommarie, uccisione di civili, torture, rapimenti, stupri, arruolamenti forzati anche di minori) sono supportate da numerosi rapporti, primo fra tutti quello di Human Right Watch del 2013, che ribadisce anche il supporto del Ruanda, continuamente negato da Kigali[52].

Nel dicembre successivo viene firmato un importante accordo di pace tra il Governo e M23: le condizioni prevedono lo scioglimento del gruppo armato e la fine delle offensive da ambo le parti e, come contropartita, la trasformazione di M23 in un partito politico regolare e l’amnistia per i ribelli, anche se il portavoce del governo precisa che non si tratta di amnistia generale e che coloro che si sono macchiati di crimini di guerra o contro l’umanità verranno comunque perseguiti[53].

Il gruppo M23 sembra disinnescato, ma nel 2016 torna in azione, complice la grave instabilità politica creata da Kabila che, terminato il suo mandato, rifiuta di dimettersi, scatenando violente proteste in tutto il Paese: per sedare le rivolte, tra l’ottobre ed il dicembre, Kabila avvia un’azione di reclutamento di almeno 200 combattenti del M23, prelevandoli dai loro rifugi nei campi militari e profughi in Uganda e Ruanda; Kabila fornisce loro nuovi uniformi e armi, li integra nei corpi di polizia, nell’esercito e nella Guardia Repubblicana e li schiera nella capitale Kinshasa, a Goma e a Lubumbashi[54], dove si macchiano di violenze, di decine di omicidi e di centinaia di arresti arbitrari[55].

Bosco Ntaganda, leader del M23, si consegna nel marzo 2013 alla Corte Penale Internazionale dell’Aja[56]

M23 scompare nuovamente. Nel 30 dicembre 2018 si tengono le elezioni e Kabila lascia il posto a Felix Tshisekedi, tra le immancabili accuse di brogli elettorali: dopo sei mesi nasce un governo di coalizione con l’ex presidente, cosa che consente agli uomini di quest’ultimo di mantenere il controllo dei ministeri chiave, del potere legislativo, giudiziario e dei servizi di sicurezza. Riportare sicurezza e stabilità nel Paese è certamente uno dei primi programmi di Tshisekedi, ma la divisione tra gli organi decisionali ed esecutivi distribuiti tra gli uomini del Presidente e i fedelissimi di Kabila porta a risultati deludenti.

A nulla servono iniziative militari ed il permesso dell’Uganda di penetrare il proprio territorio per dare la caccia alle Allied Democratic Forces (ADF, un violento gruppo armato di ribelli ugandesi[57]), tanto meno il dispiegamento di truppe della Comunità dell’Africa Orientale (EAC), e neanche la corte marziale istituita in Nord Kivu e in Ituri o l’apertura di negoziati di pace, accompagnati da piani per aiutare i combattenti a rientrare nella vita civile (DDR III Program[58])[59]: nei primi venti mesi di governo, secondo Kivu Security Tracker, si contano 2127 civili uccisi e 1450 rapiti, un bilancio ancora più pesante di quello degli ultimi 20 mesi del predecessore, Joseph Kabila, con 1553 vittime[60]. Il maggior numero delle violenze è da attribuire ad ADF, coloro che Tshisekedi promette di “sterminare” durante una “offensiva finale” nell’ottobre del 2019[61].

In un contesto di diffuse violenze, nel novembre 2021 il gruppo M23, con il pretesto della mancata attuazione di alcune clausole del trattato di pace, attacca le posizioni delle FARDC a Rutshuru, nei villaggi di Runyonyi e Chanzu, colline strategiche tra Ruanda e Uganda nella parte orientale della DRC[62]. L’uso di armi pesanti provoca numerose vittime civili e centinaia di migliaia di sfollati[63]. È l’inizio di una nuova avanzata sanguinosa nel nord della città di Goma che non sembra arrestarsi, ed ancora una volta il Ruanda (che nega) è accusato di sostenere con armi e munizioni i ribelli[64].

Agosto 2022: il Ministro della Difesa della DRC Gilbert Kabanda Kurhenga in una fiera delle armi a Mosca[65]

Nell’agosto 2022 il ministro della Difesa Gilbert Kabanda è a Mosca, e l’evento non passa inosservato in occidente: la preoccupazione che vengano stretti accordi per un intervento delle forze Wagner è alta. I mercenari russi, operativi in Mali e nella Repubblica Centrafricana, sono accusati di terrorismo e stragi di civili[66]. Tshisekedi smentisce e sostiene che sia normale mantenere rapporti diplomatici con la Russia, nonostante l’invasione dell’Ucraina, rivendicando la propria indipendenza ed il rispetto per i trattati internazionali. Dice che non ha bisogno di mercenari, perché l’esercito congolese è addestrato al meglio[67].

Il Presidente ruandese Kagame insiste, è certo che la DRC non cerca la pace e sta ingaggiando mercenari[68]. Secondo un’indagine del giornale tedesco TAZ è certa la presenza a Goma di mercenari dalla Romania della compagnia di Horațiu Potra (l’amministratore delegato del gruppo mercenario rumeno Asociatia RALF[69]): l’Hotel Mbiza, nel centro di Goma, è pieno di uomini bianchi in divisa che parlano francese, ma non hanno bandiere di appartenenza; circolano foto di uomini bianchi con in braccio AK47 a fianco dell’esercito congolese, ma sulla loro nazionalità nessuna conferma[70].

Visti i buoni rapporti con la Russia e le rassicurazioni fatte dal Vice-Ministro della Difesa, Alexander Fomin, che garantisce all’esercito del Congo le armi necessarie, e da Anatoly Punchuk, che rassicura il ministro Gilbert Kabanda sulla disponibilità del suo Paese ad equipaggiare le FARDC e ad addestrare ufficiali congolesi, sembra che l’ingresso delle forze Wagner in DRC non sia affatto improbabile[71]. Anche le Nazioni Unite confermano la presenza di mercenari: la società bulgara Agemira ha una filiale a Kinshasa per la manutenzione di elicotteri e aerei da combattimento. All’aeroporto di Goma, Agemira ha circa 40 ingegneri e tecnici di volo. Ma non si tratta soltanto di bulgari, tra loro ci sono anche georgiani e bielorussi. che hanno familiarità con la tecnologia russa, ed i georgiani vengono impiegati dall’aeronautica della DDRC come piloti[72].

Il 23 novembre 2022, a seguito di una mediazione del presidente angolano João Lourenço, viene raggiunto un accordo di tregua tra Tshisekedi e il ministro degli Esteri ruandese Vincent Biruta: l’accordo prevede la fine degli attacchi del M23 a partire dal 25 novembre e il suo ritiro dalle aree occupate nei due giorni successivi; il dispiegamento della forza regionale dell’EAC in queste aree; la fine di ogni sostegno all’M23 e agli altri gruppi armati[73]. Malgrado l’accordo, gli episodi di violenza del M23 continuano. Sapere la verità, in questa grande confusione, è impossibile.

Ci sono due tesi contrapposte. La prima è quella filo-governativa che considera M23 uno strumento nelle mani di governi stranieri affamati di risorse, usato per destabilizzare le aree ricche da saccheggiare; questa tesi, per quanto vera, finisce per ignorare la parte di conflitti motivati da cause interne. La seconda, quella filo-M23, addossa tutta la responsabilità al Governo, incapace di amministrare l’area: esistono ancora ingerenze pesantissime da parte degli hutu, che rappresentano una grave minaccia per i tutsi, ed il gruppo mira a farsi portavoce di questa parte etnica per rivendicare il diritto alla sicurezza, alla proprietà e all’agevolazione del rientro in patria dei rifugiati tutsi. Entrambe le tesi sono contaminate dalla propaganda. Questo non fa che trasformare l’area in un campo minato.

Cani inferociti attorno allo stesso osso

L’estrazione mineraria, dove lo sfruttamento minorile è la norma, è dominata dai saccheggi[74]

La DRC ha 92 milioni di abitanti e, malgrado le enormi ricchezze minerarie, continua ad essere uno dei Paesi più poveri del mondo: 60 milioni di persone vivono con meno di 2,15 dollari al giorno[75]. La situazione è legata al contesto di instabilità e insicurezza: basti pensare che, nel periodo 1999-2004, durante la seconda guerra congolese, il saccheggio delle miniere ha fatto perdere alla DRC più di 10 miliardi di dollari[76]. Il dramma è antico, poiché la DRC subisce saccheggi da governi e aziende straniere da più di 500 anni – da quando il Portogallo sbarca per la prima volta sulle coste della regione.

Dalla tratta degli schiavi dei primi del XVI secolo[77] allo sfruttamento della gomma e dell’avorio nell’800 da parte del re belga Leopoldo II, che trasforma il Congo nel suo feudo personale; dai saccheggi di rame durante la prima guerra mondiale, sino alla seconda guerra mondiale quando gli Stati Uniti, sconfitta la Germania nazista, prendono il controllo del deposito di uranio più importante del mondo; durante la Guerra Fredda, con la corsa USA-URSS per l’uranio, Stati Uniti e Belgio cospirano per assassinare l’eroe dell’indipendenza, Patrice Lumumba, in modo da poter insediare il dittatore Mobutu Sese Seko che assicura loro il continuo saccheggio delle risorse minerarie[78].

Durante gli anni ’80, a spartirsi le risorse sono almeno una ventina di grandi gruppi internazionali provenienti da Sudafrica, Francia, Canada, Stati Uniti e Australia, che si contendono il controllo delle principali compagnie minerarie statali congolesi, come Gécamines (rame e cobalto), Okimo (oro), Miba (diamanti) e Sominki (oro e cassiterite)[79]: Mobutu resiste, le società statali non vengono privatizzate, e i tentativi dei grandi gruppi falliscono, non tanto per spirito nazionalista, quanto per il fatto che, per Mobutu, quelle società sono vacche da mungere per arricchirsi personalmente.

Con il genocidio ruandese – che coincide con l’espansione vorticosa del mercato dell’elettronica, affamata di metalli rari, di cui la DRC è ricchissima – sfruttando la grave destabilizzazione nella regione del Kivu, Ruanda e Uganda prendono parte al banchetto: il Ruanda invade la DRC con l’aiuto dei soldati ugandesi, dell’aviazione angolana e dei contributi economici dello Zimbabwe e rovescia la dittatura di Kinshasa, insediando Laurent Kabila come presidente e, da quel momento, ha gioco facile nel gestire le miniere[80].

Che gli scopi fossero più economici che politici sono i fatti a raccontarlo: un mese prima della caduta di Mobutu, il 16 aprile 1997, l’AFDL di Kabila stipula un accordo da un miliardo di dollari con la società American Mineral Fields per l’estrazione di rame, cobalto e zinco nella provincia meridionale del Katanga: la società acquisisce il 51% di Gécamines[81]. In cambio di un anticipo, che viene usato per finanziare la guerra, la società ottiene anche l’esclusiva nell’acquisto dei diamanti di Kisangani[82].

Minatori artigianali che estraggono cobalto dalla miniera illegale di Shabara, vicino a Kolwezi[83]

Diverse altre società cercano di spartirsi il bottino: i sudafricani Genscor e Iscor gareggiano con la società rivale canadese Ludin per lo sfruttamento del rame e del cobalto a Tenke-Fungurume nel Katanga; la canadese Barrick Gold (nel cui consiglio di amministrazione figurano George Bush, l’ex primo ministro del Canada Brian Mulroney e l’ex direttore della banca centrale tedesca Karl Otto Pohl) si contende il Gold Office di Kilo Moto nella provincia orientale di Ituri: un’altra società canadese, la Banro Resources, mette gli occhi sulle concessioni Sominki nel Kivu[84].

Ma Kabila si spende per una politica di chiusura verso l’Occidente: il 2 agosto 1998, con il consenso della comunità internazionale e la coordinazione militare degli Stati Uniti, Ruanda e Uganda tentano di rovesciare Kabila. L’intervento militare di Angola, Namibia e Zimbabwe in suo sostegno porta al fallimento del tentativo[85]. Nel frattempo i saccheggi proseguono: tra il settembre 1998 e l’agosto 1999, secondo un rapporto delle Nazioni Unite “le zone occupate della Repubblica Democratica del Congo sono state saccheggiate di tutte le loro scorte: scorte di minerali, di prodotti forestali e agricoli, di bestiame […] Truppe dal Burundi, dall’Uganda, dal Ruanda e soldati dell’RCD di Goma comandati da un ufficiale, hanno visitato fattorie, fabbriche e banche […]. È stato dato ordine ai soldati di caricare prodotti e merci sui loro veicoli armati”[86].

Fino al 2010, nel Sud Kivu, sono in larga parte le milizie hutu del FDLR a gestire i traffici illeciti di importanti risorse minerarie come il coltan, l’uranio e la cassiterite; le ricchezze nel Nord Kivu continuano ad essere controllate da ex membri delle forze armate ruandesi, insediatesi dopo la seconda guerra del Congo, e dai ribelli ugandesi del LRA di Kony[87]. Dal 2010 in poi, le operazioni militari hanno ridisegnato gli equilibri, e l’esercito della DRC ha ripreso il controllo: nei loro affari illegali, che riguardano soprattutto l’import-export, è coinvolta anche la potente comunità libanese ed i proventi finiscono per finanziare gli Hezbollah[88]. L’Ituri, la regione del nord-est ricca di oro, diamanti, caffè e petrolio, è in mano per lo più dal Movimento di Liberazione del Congo (MLC) che ha qui la sua roccaforte, spalleggiato dall’Uganda; Angola e Zimbabwe, invece, sono presenti nella ricchissima zona del Katanga, dove controllano più o meno direttamente miniere d’oro e di altri minerali rari[89].

Gruppi ribelli, paesi esteri, esercito regolare, governo centrale, enti governativi, multinazionali, ONG internazionali e agenzie umanitarie che beneficiano di programmi di aiuti truccati[90] e, secondo Tom Burgis autore di “The Looting Machine: Warlords, Tycoons, Smugglers and the Systematic Theft of Africa’s Wealth” anche la Banca Mondiale[91], tra loro non c’è nessuna differenza, sono tutti seduti allo stesso banchetto intenti a spartirsi il bottino: il furto sembra essere l’unico argomento che mette d’accordo tutte le parti.

Le lunghe mani delle grandi potenze

Una vignetta che ironizza sul rapporto privilegiato che la Cina ha con la DRC[92]

La Cina ha un consolidato rapporto commerciale con la DRC fin dagli anni ’70, ma è nel XXI secolo che esplode: nel 2000 ZTE è la prima azienda cinese ad investire nelle telecomunicazioni[93]; nel 2006 Huawei firma un contratto di fornitura di reti GSM per portare con 500 stazioni reti telefoniche e connessioni internet in tutto il paese[94] (anche se, nel 2018, Huawei viene condannata a pagare 105 milioni di dollari per corruzione[95]); per diversi anni il governo cinese fornisce attrezzature militari come automezzi, indumenti protettivi, caricatori AK-47 e altro materiale[96] e nel 2009 stringe un ulteriore accordo che prevede aiuti militari per 1,5 milioni di dollari[97]; nel marzo 2010 Kabila incontra il vice capo di stato maggiore dell’esercito cinese, incontro che viene descritto come “nuovo punto di partenza per la cooperazione militare tra i due paesi”[98].

Nel 2007 si fa strada un accordo gigantesco (discusso fin dal 2004[99]) tra Cina e DRC. Le società coinvolte sono China Railway Group, Sinohydro, China Exim Bank e Gécamines[100]: con l’accordo le società cinesi si impegnano a fornire finanziamenti per 9 miliardi di dollari, con un rendimento fisso del 19%[101], per la costruzione di strade, ferrovie, ospedali, università, scuole e dighe, nonché lo sviluppo del settore minerario; in cambio, il governo congolese si impegna a fornire alle compagnie dieci milioni di tonnellate di rame e 600’000 tonnellate di cobalto dalle miniere nella provincia sud-orientale del Katanga: un affare, perché i ricavi totali delle miniere potrebbero valere dai 40 ai 120 miliardi di dollari – una plusvalenza enorme[102].

L’accordo incontra una serie di ostacoli: Global Witness ne denuncia da subito la scarsa trasparenza ed i rischi che ne conseguono; le opposizioni parlamentari puntano il dito su ciò che appare una “svendita”, poiché le garanzie sono fortemente sbilanciate verso gli investitori[103]. Anche il FMI (Fondo Monetario Internazionale, che sospende i suoi programmi in DRC nel 2006 per cattiva gestione fiscale e corruzione dell’allora amministrazione transitoria), esprime forti riserve, ritenendo che l’accordo aumenti in modo sproporzionato il debito della DRC[104]. Nel 2009 l’accordo viene rinegoziato a 6 miliardi di dollari, ma le contestazioni delle opposizioni e le critiche di Global Witness non si placano – l’accordo è segreto, e sono trapelate informazioni su garanzie sbilanciate, alti rischi e nessuna garanzia per i lavoratori e l’ambiente[105].

Vengono alla luce notizie sulle attività di disboscamento ed estrazione mineraria delle società cinesi, che violano ambiente e diritti umani: un’indagine di EL PAÍS/Planeta Futuro[106] denuncia il taglio ed il commercio della preziosa Afrormosia nel Nord Kivu, una specie arborea protetta ed in via di estinzione, da parte della FODECO[107]; altre società cinesi corrompono autorità e militari per estrarre ed esportare illegalmente legname e minerali preziosi; la corruzione è a livelli altissimi, con i soldi viene comprato di tutto, licenze, appalti, autorizzazioni, concessioni, il silenzio sulle attività criminali; inoltre i lavoratori cinesi non hanno assistenza medica né orari di lavoro legali, e se hanno fortuna guadagnano 3 dollari in un giorno; un operaio intervistato denuncia: “Mezza tazza di riso al giorno, dormiamo sul pavimento, senza zanzariere, senza contratto, senza infermeria… Siamo come bestie”[108].

Eppure, in questa che sembra la “terra di nessuno”, capita che le denunce di abusi vengano ascoltate: nell’agosto del 2021, dopo mesi di agitazione degli operai (per lo più stranieri) che lavorano nelle miniere d’oro sotto il controllo cinese e rabbiose proteste dei residenti che vedono devastati i loro terreni agricoli, il governatore della provincia del Sud Kivu decide di fermare le attività in ben sei miniere, al fine di proteggere “gli interessi della popolazione locale, l’ambiente e il rispetto dei diritti umani”[109]: una flebile luce di speranza. Le denunce sono sempre le stesse: sfruttamento, violazione del codice minerario, devastazione ambientale, produzione senza tracciamento[110].

3 marzo 2020: il presidente Felix Tshisekedi e il segretario di Stato americano Mike Pompeo a Washington[111]

Nel dicembre del 2021, quello che i cinesi avevano promesso essere il “Deal of the Century” viene travolto da uno scandalo: Mediapart e la ONG Platform to Protect Whistleblowers in Africa rivelano che la maggior parte delle infrastrutture promesse non sono mai state realizzate. Il denaro che avrebbe dovuto essere utilizzato per costruirle, 64 milioni di dollari provenienti dalle casse dello Stato e da quelle di Gécamines, depositati su un conto presso la Banque Gabonaise et Française Internationale (una banca di cui la famiglia Kabila possiede un pacchetto azionario[112]), vengono pagati su conti segreti di Kabila, dei suoi parenti e dei suoi alleati[113]. I cinesi pagano lo Stato una cifra equivalente, ma questa scompare nel vortice del debito pubblico e l’accordo, ancora oggi, non è stato rispettato[114].

Nel febbraio 2022, POREG (Policy Research Group[115]) lancia pesanti accuse contro le società cinesi BM Global Business, Congo Blueant Mineral, Oriental Resources Congo, Yellow Water Resources e New Oriental Mineral. Secondo POREG queste società collaborano con le reti di contrabbando di oro, veicolando la merce preziosa attraverso il fiume Ruzizi in direzione Burundi, il lago Kivu verso il Ruanda e il lago Tanganika verso la Tanzania; le reti, a loro volta, sostengono il rifornimento illegale di armi e munizioni in DRC e nella regione dei Grandi Laghi[116]. L’Institut Français des Relations Internationales accusa le forze armate congolesi di proteggere questo commercio illegale[117].

In DRC non arriva soltanto la Cina – anche se la quest’ultima ormai detiene il 70% del comparto minerario in DRC[118], ma anche l’Europa, il Sudafrica e gli Stati Uniti. I rapporti commerciali tra USA e DRC risalgono al 1984, anno nel quale viene stipulato il Trattato Bilaterale di Investimenti[119] e da allora sono in crescita: le esportazioni di merci statunitensi in DRC nel 2019 valgono 132 milioni di dollari, con un aumento del 69,1% (54 milioni di dollari) rispetto al 2018 e del 65,9% rispetto al 2009, mentre le importazioni di merci dalla DRC (tra cui cacao, diamanti, spezie e legno) sono di 22 milioni di dollari nel 2019, in calo del 56,3% (28 milioni di dollari) rispetto al 2018 e del 93,4% rispetto al 2009[120].

Secondo una legge del 2000, l’African Growth and Opportunity Act, i paesi dell’Africa sub-sahariana possono esportare le loro merci negli Stati Uniti senza dazi doganali, se rispettano alcuni principi relativi allo Stato di diritto, al pluralismo politico, ai diritti dei lavoratori ed all’economia di mercato. Nel caso della DRC questa opportunità è stata negata da Barack Obama nel 2010, ma viene ripristinata “sulla fiducia” nel 2019 subito dopo l’elezione di Tshisekedi[121].

Il 13 dicembre del 2022 gli Stati Uniti firmano un accordo con la DRC (e con lo Zambia, sesto produttore mondiale di rame e secondo produttore di cobalto in Africa) per assicurarsi l’approvvigionamento di metalli rari necessari per affrontare la conversione energetica e la cui gran parte è controllata dalla Cina: il memorandum di intesa parla soltanto di un sostegno verso i due Paesi per la realizzazione di una “integrated value chain per la produzione di batterie per veicoli elettrici nella DRC e nello Zambia, che va da dall’estrazione delle materie prime alla trasformazione, alla fabbricazione e all’assemblaggio”[122]. Nell’affare c’è anche lo stanziamento di 150 milioni di dollari per la realizzazione di una miniera di rame-cobalto di Mingomba in Zambia ad opera di KoBold Metals, una start-up sostenuta da una coalizione di miliardari tra cui Bill Gates (con la sua Breakthrough Energy Ventures) e Jeff Bezos[123].

L’imponente diga di Grand Inga[124]

Gli accordi con gli USA arrivano nel momento di maggior difficoltà tra Pechino e Kinshasa: la Cina controlla 15 delle 19 miniere di cobalto (fondamentale per le batterie agli ioni di litio), da cui ricava il 60% del suo fabbisogno, ma una disputa miliardaria iniziata nel luglio del 2022 con Gécamines costringe la cinese CMOC a sospendere le esportazioni e a rimettere in discussione gli accordi commerciali[125]: un incidente pesantissimo tra Cina e DRC, che rischia di scatenare un effetto domino su altri contratti già messi sotto accusa per pratiche scorrette sia dalla DRC che dall’Occidente[126].

Ma nel 2021 è l’Australia a vincere la palma degli investimenti: Fortescue Metals Group (FMG), di proprietà del magnate minerario australiano Andrew Forrest, stipula un accordo per lo sviluppo del progetto Grand Inga, il più grande impianto idroelettrico del mondo per la produzione di idrogeno, un investimento del valore di 80 miliardi di dollari; International Rivers[127] esprime profonde preoccupazioni poiché, a detta del gruppo ambientalista, l’accordo è fatto in assenza dei requisiti di trasparenza e ciò potrebbe comportare gravi violazioni degli obblighi ambientali[128].

La Francia è presente nella DRC con Perenco, una multinazionale specializzata nella gestione di pozzi petroliferi in esaurimento e che colleziona numerose segnalazioni per gravi violazioni ambientali e dei diritti umani nei vari paesi in cui il gruppo opera[129]. Nel novembre 2022, Sherpa e Friends of the Earth France, sostenuti dall’Environmental Investigation Agency, dopo anni di indagine, intraprendono un’azione legale contro la società: Perenco, che opera nella riserva naturale del Parc Marin des Mangroves, ha per anni sversato petrolio nell’ambiente, ha scaricato rifiuti da petrolio senza trattamento preventivo, ha provocato “l’inquinamento cronico dell’acqua, dell’aria e del suolo”, ha danneggiato gravemente la salute degli abitanti[130].

Una catastrofe ambientale prossima ventura

La foresta di torbiere del Parco Nazionale di Salonga, minacciata dallo sfruttamento petrolifero, agricolo e industriale[131]

Il Cuvette Basin (Bacino Centrale) è una regione di foreste pluviali, tra Congo e Congo DRC, che comprende il Parco Nazionale di Salonga dove, nel 2014, alcuni scienziati europei scoprono l’esistenza di una immensa torbiera dal valore inestimabile. Gli autori della scoperta si avventurano con grande difficoltà nell’ispezione di questo luogo impervio, lontano da ogni attività umana e dalla ricchissima biodiversità[132]: è una vasta palude, estesa 145’000 km quadrati (un’area grande come il Regno Unito, la più grande del mondo), interamente ricoperta da uno strato di torba che raggiunge i 5,9 metri di profondità[133]. La preziosità delle torbiere è quella di intrappolare, durante le migliaia di anni del loro ciclo di decomposizione, un enorme quantitativo di carbonio, divenendone un gigantesco serbatoio ed un naturale regolatore utile per mantenere in equilibrio l’atmosfera del pianeta: le torbiere coprono solo il 3% della superficie terrestre[134] ma immagazzinano un terzo del carbonio prodotto[135].

Simon Lewis, direttore della spedizione, dichiara: “La sua posizione le fornisce naturalmente protezione. E gran parte dell’area nella Repubblica del Congo è già una riserva comunitaria: è gestita dalla Wildlife Conservation Society, dal governo e dalla popolazione locale. Hanno un piano per gestire l’area e anche aumentare i loro mezzi di sussistenza e redditi”[136]. Ma purtroppo le cose vanno diversamente. È in arrivo la CoMiCo (Compagnie Minière Congolaise), ovvero una società con una struttura off-shore opaca, in parte di proprietà di Central Oil and Gas, registrata a Guernsey[137], che a sua volta detiene una partecipazione del 40% in CoMiCo, mentre del restante 60% non si sa nulla.

La società è rappresentata da Montfort Konzi, ex politico congolese e membro del Movimento per la Liberazione del Congo, e da Idalécio de Castro Rodrigues Oliveira, un uomo d’affari portoghese, sotto inchiesta per corruzione[138] dalle autorità brasiliane in relazione alla “Operazione Car Wash”[139]. Nel 2007 ottiene i diritti su tre blocchi petroliferi nella DRC: in particolare la società vuole estrarre petrolio all’interno dei confini del Parco Nazionale di Salonga, un’area eletta a Patrimonio Mondiale dall’UNESCO[140]. Malgrado i vincoli, l’operazione sta per essere resa possibile grazie all’appoggio di Tshisekedi che si prodiga nel ridurre i confini del parco per consentirne lo sfruttamento[141]. Nel 2015 arriva un nuovo codice petrolifero più restrittivo, ma ciò nonostante il contratto della CoMiCo viene approvato nel febbraio 2018, fatto che rende dubbia la legittimità dell’accordo[142].

Nell’ottobre 2017, la Central African Forest Initiative (CAFI), di cui la Norvegia è il principale finanziatore, dà il via libera al trasferimento di 41,2 milioni di dollari al fondo nazionale della DRC per la riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado forestale[143]: la condizione è che il governo congolese metta in atto un “solido piano d’azione” con misure di controllo interno, cosa che non avviene ma che non impedisce comunque il trasferimento dei fondi.

Alcuni blocchi petroliferi nella Repubblica del Congo e nella DRC invadono le preziose torbiere[144]

Il 1° febbraio 2018 il ministro dell’Ambiente congolese, Amy Ambatobe, ripristina 6500 km² di concessioni di disboscamento annullate nell’agosto 2016[145]: le concessioni vengono assegnate alle società forestali di proprietà cinese FODECO (cui nel novembre 2019 viene sospesa la licenza nel territorio di Basoko per gravi irregolarità[146]) e SOMIFOR – e parte del disboscamento riguarda proprio l’area della torbiera[147]. Nel marzo del 2018 vengono avviate altre 14 concessioni a sette società diverse[148]: l’intento del governo è chiaro, il Paese è affamato e l’indiscriminato sfruttamento commerciale è un obbligo.

Il 23 marzo 2018, i governi del Congo e della DRC firmano la “Dichiarazione di Brazzaville”, che annuncia l’intenzione di proteggere le torbiere: i governi si impegnano a “gestirle” in modo sostenibile evitando danni all’ecosistema[149]. Di fatto, però, l’accordo non annulla le concessioni di disboscamento esistenti, lo sfruttamento agricolo-industriale e dei blocchi petroliferi, sicché la comunità internazionale, nel maggio 2018, blocca l’erogazione dei finanziamenti[150]. Ciò nonostante, i disboscamenti (la DRC ha uno dei tassi di deforestazione più alti al mondo – ha perso 490’000 ettari di foresta pluviale solo nel 2020[151]) e le prospezioni petrolifere continuano indisturbate.

Il 10 agosto 2019 la società congolese Petroleum Exploration and Production Africa (PEPA), controllata da SARPD Oil, annuncia di aver trovato centinaia di milioni di barili di petrolio nel sottosuolo della Cuvette Central[152]. A Brazzaville, il presidente Denis Sassou-Nguesso (il cui nipote gestisce PEPA[153]) ed il ministro dell’Ambiente Arlette Soudan-Nonault si prodigano nell’informare che i giacimenti non riguardano l’area della torbiera, ma le loro dichiarazioni fanno riferimento un’analisi del 2013, un anno prima della scoperta della torbiera: secondo un report pubblicato dai ricercatori della Leeds University, due dei quattro giacimenti si trovano esattamente nel posto sbagliato[154]. Il primo è a Ngoki, ed è in mano al barone petrolifero congolese Claude Wilfrid “Willy” Etoka: uno degli uomini più ricchi d’Africa[155], è presidente di PEPA e principale azionista della società: secondo lui le attività petrolifere non danneggiano l’ambiente[156]. Claude Wilfrid “Willy” Etoka è, guarda caso, un grande sostenitore politico di Sassou-Nguesso[157].

Global Witness, Der Spiegel e Mediapart, dichiarano che “Ngoki” è caratterizzato da alti rischi di corruzione ed infligge danni ambientali irreversibili. I legami con il clan dominante del Congo e una gestione sconsiderata delle questioni ambientali porterebbero le società a correre rischi significativi sostenendo il progetto”[158]. Prosegue: “Le torbiere del Congo sono l’ultimo posto sulla Terra in cui si dovrebbe prendere in considerazione l’estrazione di combustibili fossili” suggerendo alle società petrolifere, in particolare a Total ed a ENI, ma anche alle banche, di non investire all’interno o intorno alle torbiere del bacino del Congo; le due aziende raccolgono l’invito a non partecipare alla gara[159]; anche 15 banche e 7 società di assicurazione si tirano indietro, solo ExxonMobil, tacendo, lascia pensare ad una sua partecipazione[160].

Il ministro degli idrocarburi Didier Budimbu[161]

Secondo Global Witness il quantitativo di petrolio annunciato è ampiamente sovrastimato[162]: anni fa Total e Shell, dopo aver esplorato l’area alla ricerca di petrolio, concludono che la trivellazione non sarebbe redditizia; nel gennaio 2016, Shell dichiara che “la combinazione di rischio elevato e dimensioni modeste” ha portato a una decisione contro l’investimento nel blocco Ngoki[163].

Il 28 luglio 2022 a Kinshasa, il presidente Felix Tshisekedi presiede il lancio dell’asta (promossa dal Ministero degli Idrocarburi di Didier Budimbu), che scade nell’aprile 2023, per le assegnazioni dei 30 blocchi di petrolio e gas nella DRC, distribuiti su cinque diversi bacini: Cuvette Central, Coastal Basin, Lake Tanganyika, Lake Kivu e Albertine Graben[164]. Inizialmente il governo pianifica di mettere all’asta soltanto 16 blocchi, ma il conflitto ucraino acuisce le richieste occidentali e si decide di estenderla offrendo oltre 240’000 km quadrati di territorio, un’area grande quanto l’Uganda[165].

Dei 30 blocchi, tre sono di gas e si trovano nel lago Kivu; dei 27 rimanenti – due dei quali vengono restituiti lo scorso febbraio 2022 da Ventora Development, una delle società dell’imprenditore israeliano Dan Gertler[166], tre si trovano sulla costa del bacino del fiume Congo e nove nella regione della foresta pluviale della Cuvette Central; gli altri 15 sono nell’est del Paese; due di questi coprono il Parco Nazionale di Virunga, un santuario per i coccodrilli nani e i gorilla di montagna in via di estinzione, ai confini della DRC con l’Uganda e il Ruanda[167].

Nel settembre del 2022 un gruppo di ricercatori visita quattordici villaggi in quattro dei blocchi petroliferi proposti, e scopre che la maggior parte dei residenti non è conoscenza dei piani del governo[168]. Secondo il coordinatore di Greenpeace per l’Africa Centrale, Raoul Monsembula, “l’esplorazione del petrolio non farà stare meglio la gente della DRC: l’inquinamento raggiungerà molti e le entrate raggiungeranno solo una manciata di beneficiari a Kinshasa e all’estero”; dello stesso avviso la maggior parte degli abitanti delle aree coinvolte, che temono i danni ambientali[169].

Il progetto del presidente Felix Tshisekedi punta a rilanciare la produzione del greggio dagli attuali 25’000 barili giornalieri a 200’000, rassicurando che saranno adottati moderni metodi di perforazione e una regolamentazione rigorosa, riducendo al minimo l’impatto ecologico[170]. Attualmente ci sono tre compagnie petrolifere che trivellano nella DRC: Perenco[171], che estrae petrolio offshore dall’Oceano Atlantico al largo della costa di Muanda nel Kongo Central, Total, e la parastatale congolese Sonahydroc[172] (con il supporto della banca UBA DRC[173]) che trivella nell’est del paese[174].

Il Lago Kivu, che verrà rovinato dalle trivellazioni per estrarre metano[175]

Secondo le autorità, le risorse reperibili ammontano a circa 22 miliardi di barili di petrolio e 66 miliardi di metri cubi di gas metano[176] e aumenterebbero il contributo del settore al bilancio nazionale, che attualmente è del 6%, fino al 40%, rompendo così la dipendenza dal settore minerario, che rappresenta oggi più del 95% delle esportazioni[177]. Didier Budimbu non ha certo intenzione di rinunciarvi: “Abbiamo il diritto di beneficiare della nostra ricchezza naturale”; secondo il ministro, le potenziali riserve coperte dall’asta potrebbero valere fino a 1 trilione di dollari – anche se di fatto non vi è alcuna garanzia che uno qualsiasi dei blocchi renderà quanto prospettato – ma lui già promette che verranno destinati alla costruzione di nuove scuole, autostrade e ospedali.[178]

Gli ambientalisti non credono alle rassicurazioni del Presidente, e chiedono al governo di annullare la gara d’appalto, poiché lo sfruttamento di quelle aree metterebbe in serio pericolo l’ecosistema: le attività di estrazione con la estesa deforestazione, la costruzione di zone industriali, strade, ponti, infrastrutture, oltre a distruggere un prezioso quanto delicato equilibrio floro-faunistico, opererebbero per il prosciugamento totale delle paludi – e l’acqua è la linfa vitale per la torbiera; la perforazione nei blocchi proposti dal governo potrebbe rilasciare 5,8 miliardi di tonnellate di carbonio, oltre il 14% delle emissioni di gas serra del mondo: una catastrofe climatica[179].

Anche da Washington arriva la richiesta di ritirare alcuni blocchi petroliferi dalla gara, quelli considerati più “sensibili” sul piano ambientale, ma la risposta del ministro delle Comunicazioni Patrick Muyaya è lapidaria: la richiesta può essere presa in considerazione solo a seguito di una contropartita equivalente. Ergo: non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare al vantaggio economico che lo sfruttamento dei blocchi potrebbe apportare, l’ambiente è un problema che non ci riguarda[180]. Alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici[181] nessuno sembra curarsi dello scempio annunciato, anzi: viene stretto un nuovo accordo con la DRC (2021-2031) per l’erogazione di altri 500 milioni di dollari[182] che rinnova il precedente (2015-2020) da 200 milioni di dollari[183]. Un ossimoro: soldi, per contrastare la deforestazione, dati a chi la promuove.

La gara va avanti e, nel gennaio 2023, i blocchi di metano Makelele, Idjwi e Lwandjofu, nella regione del lago Kivu, vengono assegnati a produttori canadesi e statunitensi: Idjwi viene assegnato a Winds Exploration & Production, mentre il blocco Makelele viene assegnato a ReD, una filiale locale della statunitense Symbion Power, il cui progetto include investimenti di oltre 300 milioni di dollari per lo sviluppo di un sistema da gas a elettricità da 60 MW per collegare i consumatori a Goma e nelle province del nord e del sud del Kivu attraverso gli hub commerciali esistenti[184]; Alfajiri Energy, con sede in Canada, si è invece assicurata il blocco di Lwandjofu[185]. Per quanto riguarda l’assegnazione dei blocchi restanti, vige uno stretto riserbo.

Le proteste contro la missione UNO nella DRC hanno provocato la morte di almeno 36 persone[186]

In ogni caso, è evidente che la DRC paga il prezzo di una “maledizione delle risorse”. La recente crescita esponenziale di richiesta di minerali la costringe ad un ruolo chiave che, invece di garantirle una nuova rinascita, la spinge sempre più verso il baratro, ostaggio di ogni sorta di avvoltoi. La situazione al Nord-Est, migliaia di chilometri lontana da Kinshasa, non promette nulla di buono – soprattutto a causa del fatto che Ruanda ed Uganda, nonostante i Trattati di Pace, continuano a sostenere milizie ribelli nel North Kivu.

Il 24 gennaio del 2023, un caccia Sukhoi-25 della DRC, accusato di violare lo spazio aereo, viene preso di mira dalla contraerea ruandese: tragedia sfiorata, l’aereo rientra illeso in aeroporto[187]. Il fatto testimonia le gravi tensioni tra i due Paesi: per Kinshasa è una deliberata aggressione, quindi un atto di guerra, mentre Kigali nega di averla compiuta[188]. La presenza di forze internazionali ha un effetto controproducente, diffondendo un sentimento di diffidenza ed avversione. L’operazione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite MONUSCO (che dal 2010 schiera almeno 17’500 unità e costa oltre 1 miliardo di dollari l’anno[189]), che sostiene le forze armate congolesi FARDC, è oggi considerata un fallimento, soprattutto dalle comunità locali[190].

Le proteste verso i caschi blu si fanno sempre più accese: nell’agosto del 2022 centinaia di manifestanti danno fuoco agli edifici della missione, provocando 36 morti di cui quattro persone tra le forze di pace. La loro presenza viene rimessa in discussione da Kinshasa, che accusa l’ONU di alimentare le proteste e, il 4 agosto, espelle il loro portavoce per via di sue “osservazioni indelicate e inappropriate”, perché ha detto che “le forze di pace delle Nazioni Unite non hanno i mezzi militari per sconfiggere il famigerato gruppo armato M23”, dando una idea di impotenza[191]. Le aggressioni da parte dei civili alle forze di pace continuano[192]. La Missione ONU parte dal presupposto che il suo mandato, in scadenza il 30 giugno 2024, non verrà rinnovato.

I sette Stati membri della Communauté des Etats d’Afrique de l’Est (EAC), di cui la DRC è ufficialmente membro dal luglio del 2022[193], decidono di schierare una forza regionale nella parte orientale: la bozza del piano di battaglia afferma che la regione deve riunire tra 6’500 e 12’000 soldati con il mandato di “contenere, sconfiggere e sradicare le forze negative” nella DRC orientale[194]. Il 15 agosto un contingente burundese è il primo ad entrare in azione sul territorio, marciando ufficialmente su Uvira, nel Sud Kivu[195]. Ma già ci si chiede se questa missione non sia l’ennesimo costoso fallimento – sia in termini economici che in termini di vite umane.

Resta il fatto che il mondo non abbia il tempo per guardare a questa jungla immensa e così importante per il pianeta. Il governo di Kinshasa non è in grado di controllare veramente il proprio territorio, ed alla maggioranza delle forze in campo va bene così. L’Europa (non la Francia o il Belgio, ma l’Unione) dovrebbe essere qui, con la sua forza diplomatica, ad offrire un contrappeso, ma non c’è: troppo occupata ad inseguire la follia del populismo e del neonazismo, farsi ricattare da Mosca e da Washington, cercare disperatamente l’ultima cellula che ci divida invece di capire che l’unico futuro possibile sia: insieme. La stessa cosa che vale per i paesi africani, ma è ridicolo rimproverarlo a loro se noi, per primi, non siamo capaci di farlo.

 

 

 

 

[1] CABINDA, UNA GUERRA CHE PUZZA DI PETROLIO | IBI World Italia
[2] L’ANGOLA, IL CONGO, LA CINA E LE CITTÀ FANTASMA | IBI World Italia
[3] BOLLORÉ: IL VERO RE D’AFRICA | IBI World Italia
[4] IL FUTURO DELL’AFRICA DIPENDE DAL CONGO | IBI World Italia
[5] https://foreignpolicy.com/2022/07/04/m23-rebel-group-congo-rwanda-uganda/
[6] https://www.africarivista.it/rd-congo-massacro-a-kishishe-lonu-conferma-luccisione-di-131-civili/210187/
[7] https://kivusecurity.org/about/armedGroups
[8] https://reliefweb.int/report/democratic-republic-congo/irc-study-sh+ows-congos-neglected-crisis-leaves-54-million-dead
[9] https://www.caritas.org/2010/02/six-million-dead-in-congos-war/
[10] https://reliefweb.int/report/democratic-republic-congo/background-conflict-dr-congo-may-2004
[11] https://kivusecurity.org/reports
[12] https://www.trade.gov/country-commercial-guides/democratic-republic-congo-mining-and-minerals#:~:text=2022%2D12%2D14-,Overview,position%20for%20the%20energy%20transition.
[13] https://www.africanews.com/2022/11/03/drcs-artisanal-cobalt-mines-tainted-by-lack-of-compliance//
[14] https://www.ceicdata.com/en/indicator/democratic-republic-of-congo/gold-production
[15] https://www.minerals.net/mineral/columbite.aspx
[16] https://www.aljazeera.com/gallery/2022/11/4/dr-congos-faltering-fight-against-illegal-cobalt-mines
[17] https://humanglemedia.com/rebels-dr-congo-soldiers-accused-of-illegal-mining-operations-in-fizi-territory/
[18] https://ipisresearch.be/wp-content/uploads/2019/04/1904-IOM-mapping-eastern-DRC.pdf
[19] https://www.raid-uk.org/content/chinese-mining-companies-drc
[20] https://www.aljazeera.com/features/2016/1/19/blood-and-minerals-who-profits-from-conflict-in-drc
[21] https://www.bbc.com/news/world-africa-26946982
[22] https://www.farodiroma.it/dossier-crimini-e-strategie-di-informazione-deviante-complicano-il-puzzle-di-una-guerra-che-ha-moventi-economici-rosati-beltrami-mvuka-vasapollo/
[23] https://www.files.ethz.ch/isn/105528/22.pdf
[24] https://www.files.ethz.ch/isn/105528/22.pdf
[25] https://orfonline.org/wp-content/uploads/2016/05/ORF_IssueBrief_139_Venugopalan_Final.pdf
[26] https://www.peacewomen.org/sites/default/files/drc_cso_report_2011.pdf
[27] https://reliefweb.int/report/democratic-republic-congo/end-mobutus-dictatorship
[28] https://medium.com/@david.himbara_27884/kagame-rewarded-kabarebes-30-year-brutal-service-with-arrest-253bae429fbe
[29] https://www.kcl.ac.uk/rwanda-and-drcs-turbulent-past-continues-to-fuel-their-torrid-relationship
[30] https://www.peaceagreements.org/view/404
[31] https://www.ohchr.org/en/press-releases/2009/10/secretary-general-hails-pretoria-agreement-political-milestone-peace
[32] https://2001-2009.state.gov/t/ac/csbm/rd/22627.htm
[33] https://www.lemonde.fr/afrique/article/2006/11/27/joseph-kabila-vainqueur-officiel-de-l-election-presidentielle-congolaise_839350_3212.html
[34] https://content.time.com/time/world/article/0,8599,1855309,00.html
[35] https://www.france24.com/en/20081112-fact-file-conflict-north-kivu-dr-congo
[36] https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/766018/DRC_case_study.pdf
[37] https://foreignpolicy.com/2022/07/04/m23-rebel-group-congo-rwanda-uganda/
[38] https://www.hrw.org/news/2011/12/21/dr-congo-24-killed-election-results-announced
[39] https://foreignpolicy.com/2022/07/04/m23-rebel-group-congo-rwanda-uganda/
[40] https://foreignpolicy.com/2022/07/04/m23-rebel-group-congo-rwanda-uganda/
[41] https://www.blackpast.org/global-african-history/groups-organizations-global-african-history/interahamwe-1992/
[42] https://africacenter.org/spotlight/medley-armed-groups-play-congo-crisis/
[43] https://www.bbc.com/news/world-africa-24849919
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[46] https://www.aljazeera.com/news/2012/10/17/un-accuses-rwanda-of-leading-dr-congo-rebels
[47] https://kivusecurity.org/about/armedGroups
[48] https://www.france24.com/en/20131103-democratic-republic-congo-m23-rebels-declare-ceasefire
[49] https://www.france24.com/en/20131111-democratic-republic-congo-m23-rebels-fail-sign-peace-deal
[50] https://www.dw.com/en/suspected-war-criminal-ntaganda-surrenders/a-16682354
[51] https://www.icc-cpi.int/news/initial-appearance-bosco-ntaganda-scheduled-26-march-2013
[52] https://www.hrw.org/news/2013/07/22/dr-congo-m23-rebels-kill-rape-civilians
[53] https://www.reuters.com/article/congo-democratic-deal-idINDEE9BB0CK20131212
[54] https://www.hrw.org/report/2017/12/04/special-mission/recruitment-m23-rebels-suppress-protests-democratic-republic
[55] https://www.hrw.org/news/2017/12/04/dr-congo-rebels-were-recruited-crush-protests
[56] https://www.dw.com/en/suspected-war-criminal-ntaganda-surrenders/a-16682354  b
[57] https://www.voanews.com/a/explainer-what-s-behind-the-rising-conflict-in-eastern-drc-/6690258.html
[58] https://www.accord.org.za/conflict-trends/disarmament-demobilisation-reintegration-democratic-republic-congo/
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[60] https://blog.kivusecurity.org/divisions-between-tshisekedists-and-kabilists-paralyze-the-state-in-eastern-drc/
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[87] “Osservatorio di Politica Internazionale” – La Crisi dei Grandi Laghi – (CESI) n° 30 – Maggio 2011 – page 13 https://www.parlamento.it/documenti/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0030App.pdf
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[90] https://landportal.org/fr/node/100425
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[97] United Nations Security Council (UNSC), “Interim report of the Group of Experts on the Democratic Republic of the Congo, pursuant to Security Council resolution 1698 (2006)”, S/2007/40, 26 January 2007; UNSC, “Final report of the Group of Experts on the Democratic Republic of the Congo”, S/2008/43, 13 February 2008; UNSC, “Final report of the Group of Experts on the Democratic Republic of the Congo”, S/2008/773, 12 December 2008; UNSC, “Final report of the Group of Experts on the Democratic Republic of the Congo”, S/2009/603, 23 November 2009.
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CAT: Africa, Geopolitica

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