Gli eritrei arrivati in Italia scappano da un regime e dai gulag

14 Giugno 2015

C’è un filo invisibile che lega Milano ad Asmara. Un filo fatto di giovani volti stanchi come quello di Agazit, 19 anni, i capelli raccolti in treccine sottili. Sorride malgrado la stanchezza. Conosce solo poche parole in inglese, quel tanto che basta per indicare la prossima tappa del suo viaggio: Svizzera. Agazit ha già percorso più di ottomila chilometri attraverso il Sudan, il deserto del Sahara, la Libia, il mar Mediterraneo.

Ogni mese, circa 5mila ragazzi e ragazze come Agazit fuggono dall’Eritrea, un piccolo paese del Corno d’Africa, che fu colonia italiana, e che oggi gli organismi internazionali descrivono come uno “stato caserma”, una “prigione a cielo aperto” su cui governa, da 22 anni e senza aver mai indetto elezioni, Isaias Afeworki. Negli ultimi giorni, la Stazione Centrale di Milano è balzata alle cronache dei tg nazionali con le crude immagini di centinaia di giovani costretti a dormire sui cartoni sui marmi del mezzanino.

Amanuel, 25 anni, è uno dei più “anziani” tra gli oltre 5mila profughi eritrei transitati per Milano, da gennaio a oggi. «Ho iniziato il servizio militare a 17 anni – spiega -. Se non accetti di partire, finisci in prigione». La prima tappa dei giovani eritrei destinati alla naja è il famigerato campo di Sawa, a circa 300 chilometri dalla capitale Asmara. «Tutti frequentiamo l’ultimo anno di scuola superiore a Sawa: un po’ si studia, un po’ ci si addestra», spiega Amanuel che descrive condizioni di vita durissime. «Fa caldo, si può arrivare anche a 40 gradi durante il giorno». Nel deserto ai confini col Sudan, sotto il sole cocente, i giovani eritrei – maschi e femmine – marciano e imparano a utilizzare le armi.

«Il principale motivo per cui tanti giovani fuggono dall’Eritrea è proprio il servizio militare, che in Eritrea è a tempo indeterminato», spiega Alganesh Fessaha, milanese di origine eritrea e presidente dell’ong “Ghandi”. Si imbracciano le armi a 16 anni e si resta arruolati fino ai 50 anni. Nemmeno le ragazze riescono a sfuggire al reclutamento coatto. Al contrario, per molte di loro il servizio militare rappresenta un ulteriore supplizio: «Le più belle diventano prede degli ufficiali e costrette a prostituirsi», spiega Fessaha.

Eppure, formalmente, il governo dell’Asmara non è in guerra con nessuno degli Stati circostanti. Certo, ci sono tensioni mai sopite con l’Etiopia, da cui l’Eritrea si è separata nel 1991 al termine di una lunga guerra, seguita da un altro conflitto tra il 1998 e il 2000. Tensioni che però non giustificano una mobilitazione militare così massiccia. E così i giovani eritrei diventano manodopera a basso costo per la costruzione di strade e delle ville dei membri più influenti del governo e degli apparati delle sicurezza, braccia da sfruttare nei campi e nelle miniere.

Un recente rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea denuncia l’utilizzo di manodopera forzata nella miniera di Bisha che, attualmente, è l’unica attiva nel Paese. «La maggior parte dei lavoratori erano soldati arruolati nel servizio militare», si legge nel rapporto. A spartirsi i ricavi sono la compagnia canadese “Nevsun”, proprietaria del 60% della società che gestisce la minieram, e il Governo eritreo.

«In Eritrea un giovane non può farsi una vita, non può sposarsi, né aiutare la famiglia», conclude Alganesh Fessaha. Ricevono uno stipendio da fame, l’equivalente di 10 euro al mese. Dopo alcuni anni sotto le armi, Amanuel ha deciso di tentare la sorte. «Una notte, io e alcuni amici siamo scappati, volevamo andare in Sudan e da lì metterci in viaggio verso la Libia. Ma le guardie al confine ci hanno visto – racconta -. Hanno sparato e due miei amici sono morti, io sono stato preso, picchiato e messo in prigione per più di un anno». Appena uscito dal carcere, Amanuel si rimette in viaggio: questa volta il tentativo riesce. Raggiunge Khartoum, capitale del Sudan e snodo di smistamento lungo le rotte dei traffici di esseri umani. Attraversa il deserto del Sahara per raggiungere infine Tripoli e da qui imbarcarsi per l’Italia. Ma il viaggio non è ancora finito: «Volevo andare in Olanda, ma mi hanno detto che è difficile arrivare». Il rischio è di rimanere “ingabbiati” in Italia senza poter raggiungere le mete finali. Con una mossa inaspettata la Francia ha chiuso la frontiera di Ventimiglia e, mentre i migranti studiano o hanno già trovato transiti alternativi, la libera circolazione delle persone in Europa è rimessa in discussione dai vari governi a trent’anni esatti dalla firma del Trattato di Schengen (14 giugno 1985).

In base alle stime dell’Onu, negli ultimi anni circa 357mila eritrei sono fuggiti dal loro Paese. Circa 32mila hanno raggiunto l’Italia negli ultimi mesi. Circa 70mila vivono in Etiopia e almeno il doppio in Sudan. Quello che più colpisce osservando i volti dei profughi eritrei è la loro giovane età. Molti, se interrogati, dicono di avere vent’anni. Ma i volti imberbi e le spalle sottili tradiscono un’età decisamente inferiore. «Sono sempre di più i ragazzi che si mettono in viaggio da soli a 14, 15 anni – spiega Paulos, che in Eritrea faceva l’insegnante di letteratura –. Sono i loro genitori a spingerli a partire, prima che vengano arruolati. Ma questi ragazzi non sanno a cosa vanno incontro, non sanno quanto sia duro il viaggio della morte attraverso il deserto». Paulos lo sapeva, eppure ha deciso di partire lo stesso: «Non c’è libertà in Eritrea, non ci sono giornali, non puoi dire quello che pensi».

Il rapporto dell’Onu descrive un Paese segnato da «vaste e sistematiche violazioni dei diritti umani», da detenzioni arbitrarie e torture che «hanno creato un clima di paura nel quale il dissenso è soffocato». Inesistente la libertà di stampa: l’Eritrea è al 172° posto su 180 nel Press freedom index di Reporters without borders. Chiunque chieda il rispetto dei diritti umani o più semplicemente notizie di un parente scomparso viene bollato come dissidente e traditore. Perché non ci sono leggi in Eritrea, ma solo paura.

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CAT: Africa, Milano

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