Statue simbolo di oppressione

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11 Giugno 2020

Dal dibattito, per molti versi stucchevole, se sia giusto abbattere statue del passato in seguito al mutamento di sensibilità e di contesto storico, va sottratto almeno il caso belga delle statue di Leopoldo II. Anche secondo i canoni dell’epoca dell’imperialismo e del razzismo di primo Novecento, Leopoldo II era un criminale sanguinario. I suoi massacri furono denunciati da molti: da giornalisti europei; da missionari protestanti; da letterati; da una commissione d’inchiesta internazionale, cui partecipò peraltro anche un magistrato italiano, Giacomo Nisco; da un diplomatico britannico, Roger Casement (non a caso figlio di un’altra terra oppressa, l’Irlanda) che scrisse un durissimo rapporto contro le atrocità belghe e che con Edmund Dene Morel fondò la Congo Reform Association.

Le agghiaccianti testimonianze dei sopravvissuti, le fotografie dei bambini con le mani mozzate, i numeri implacabili del depopolamento congolese («L’orrore! L’orrore!», le ultime parole del Kurtz di Joseph Conrad) erano sotto gli occhi di tutti e Leopoldo II era tra gli uomini più odiati dalle opinioni pubbliche europee.

Eppure, ancora il 30 giugno 1960, nel giorno dell’indipendenza congolese, re Baldovino rivendicava la missione “civilizzatrice” del Belgio e a rispondergli a tono fu solo Patrice Lumumba, il primo premier, che pagò con la vita l’illusione di un Congo davvero indipendente (audio del discorso). La gioia per la libertà fu effimera e i protagonisti elencati nella celebre “Independence cha cha” divennero familiari al resto del mondo per motivi tragici. Pochi giorni dopo, i belgi mostrarono ai congolesi che la loro “missione” non si era per niente conclusa con l’indipendenza formale: fomentarono e armarono una guerra civile guidata da un loro burattino, l’improbabile Moïse Tshombé, che avviò una stagione di distruzione e devastazione del Congo e delle sue risorse, poi proseguita con altre potenze e con altri attori (uno su tutti il generale Mobutu, a lungo garante degli interessi statunitensi), che ancora oggi non si è conclusa.
Nel caso di Leopoldo II, lo scandalo sta nell’avergli eretto statue celebrative, non nel loro abbattimento. I giovani belgi che hanno espresso disgusto per la celebrazione pubblica dell’orrore non possono restituire i milioni di vite umane sterminate e le ingenti risorse che i loro antenati hanno depredato, ma hanno compiuto un raro gesto di rispetto e di considerazione nei confronti di un popolo cui sono debitori.

TAG: Belgio, Black Lives Matter, congo, Leopoldo II, Patrice Lumumba, razzismo
CAT: Africa, Storia

2 Commenti

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  1. lina-arena 4 anni fa

    Non riesco a formulare un giudizio netto. Hanno ragione quelli che protestano . Ma credo sia anche importante lasciare al loro posto le statue per capire le ragioni ed i motivi che hanno spinto i nostri antenati ad apprezzare l’operato dei signori effigiati negli angoli delle strade. Lasciando il reperto si consente lo studio non solo del personaggio ma anche della gente che lo ha apprezzato e celebrato. In fondo lo stesso ragionamento si dovrebbe fare per le ville o le chiese che hanno richiesto capitali e lavoro per essere erette da una classe di dominatori sovente ingiusti.

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  2. enrico.palumbo 4 anni fa

    Grazie per il commento. Ville, chiese e altri edifici o monumenti si sono mutate in opere artistiche e hanno assunto un valore in sé diverso. Il problema dei monumenti è quello che comunicano a noi, oggi. Difficilmente si usa una chiesa o un sito archeologico per legittimare violenze dell’attualità: non ho notizie di movimenti che propugnano la restaurazione dello schiavismo usando il Colosseo o la colonizzazione del Messico usando una chiesa adorna di ori da lì provenienti. Viceversa, le statue parlano dell’oggi e hanno un valore pedagogico: quelle dei generali confederati del sud, per esempio, sono state erette all’inizio del XX secolo in un clima di restaurazione dell’ordine pre-emancipazione, e non a caso sotto di esse i suprematisti bianchi fanno i loro raduni. Le statue di Leopoldo esprimono la convinzione che il Belgio abbia condotto un’opera civilizzatrice. Abbatterle (o, meglio, spostarle nei musei, se c’è chi le ritiene artisticamente valide) significa compiere un’opera di autocoscienza collettiva su quel che esse rappresentano e il messaggio che vogliono darci, togliendole dallo spazio pubblico.

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