Perché sulle politiche alimentari Obama ha fallito

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12 Ottobre 2016

Difficile immaginare qualcuno migliore dei coniugi Obama per far approvare nuove regole per rendere il sistema agroalimentare americano più equo e sostenibile. Lui che affiancò i piccoli agricoltori già nella campagna del 2008, lei paladina del cibo sano e fautrice dell’orto più famoso del mondo. Eppure in due mandati nulla di sostanziale è cambiato.

O almeno questo si sostiene nell’ultimo numero di The New York Times Magazine, interamente dedicato all’industria agroalimentare e intitolato “Can Big Food Change?”. A sviscerare questo fiasco dell’amministrazione Obama è lungo pezzo di Michael Pollan. Pollan, che come scrittore si occupa di cibo e agricoltura da trent’anni, ripercorre la triste parabola che ha visto fallire ogni tentativo degli Obama di riformare le politiche alimentari, nonostante i propositi iniziali.

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Piccola premessa: negli Stati Uniti l’agro-alimentare è basato su un sistema di sussidi pubblici che incoraggia a produrre su larga scala, dunque allevamenti intensivi e monoculture. Le monoculture di mais e soia da sole ad esempio occupano circa la metà dei terreni agricoli americani. Richiedono enormi quantità di combustibili fossili per la manutenzione e il trasporto, impoveriscono la terra a causa del massiccio uso di prodotti chimici, emettono grandi quantità di gas serra: il settore agricolo è responsabile del 30% delle emissioni totali. Poi, solo una piccola percentuale di queste produzioni diventa mais o soia per le persone, il resto diventa cibo per animali o ingrediente per prodotti processati (es. sciroppo di mais), alimenti che sono tra i più brillanti responsabili della percentuale di persone obese (36.5%) o diabetiche (9,3%).

Il danno ambientale, sociale e sanitario compiuto da un sistema così concentrato nelle mani di poche grandi aziende – quelle che il NYT chiama Big Food – è difficile da quantificare e dunque sfuggente all’azione politica.

Ora che Obama è quasi out è molto probabile che niente di tutto questo cambierà tanto presto. Ma in questi otto anni di delusioni ce ne sono state e Pollan non ne risparmia neanche una. All’inizio del primo mandato, Obama ha visto fallire un programma di regolamentazione sulle industrie delle sementi e della carne, che – stando a un’investigazione congiunta dell’antitrust americana e del ministero dell’agricoltura – costringevano (e costringono) piccoli allevatori e agricoltori a subire imposizioni e ricatti su prezzi e quantità di produzione. In questo caso, come in molti che seguirono, Big Food, rispose con un’attività di lobbying costata più di 9 milioni di dollari, che fece retrocedere a grandi passi i promotori delle nuove regole, delle quali – chiude Pollan – nessuno ha mai più sentito parlare.

Seguono altre speranze infrante, tra cui le potenzialità politiche del carisma di Michelle Obama su questi temi. In un discorso del 2010 di fronte alla Grocery Manufacturers Associations, la First Lady domandò alle aziende alimentari di “ripensare da capo i prodotti da offrire, le informazioni da fornire in merito ai prodotti e il mondo in cui pubblicizzarli ai bambini”. Il discorso ebbe lì per lì una certa risonanza ma fu quasi subito risucchiato in una specie di partnership tra la Obama e qualche grossa catena di distribuzione per aumentare la visibilità dei prodotti freschi, ridurre qua e là qualche ingrediente nocivo e modificare qualche imballaggio. Insomma – prosegue Pollan – la macchina comunicativa di Big Food riuscì a risolvere il tutto con qualche foto di Michelle nei supermercati e una generale annacquatura delle sue richieste, specie quelle sul marketing indirizzato ai bambini. L’unico vero successo della First Lady è stato l’Healthy, Hunger-Free Kids Act: nuove linee guida per un cibo più sano nelle mense scolastiche.

Pollan prosegue a snocciolare le vittorie politiche di Big Food sugli Obama: fallita la regolamentazione ambientale dei CAFO, gli allevamenti intesivi che sono tra i più grossi emettitori di gas serra; e fallito il tentativo di ridurre l’uso (e abuso) di antibiotici negli animali, nonostante i conclamati e crescenti rischi legati alla resistenza agli antibiotici nell’uomo.

A questo punto Obama deve aver capito che non c’era, in lui e intorno a lui, il peso politico sufficiente per far approvare alcune misure anche solo di buon senso. Un concetto che credo sia ben raccontato dalla recente legge sull’etichettatura degli OGM. Qui l’amministrazione Obama, nonostante il 93% della popolazione si dichiarasse favorevole alla specificazione della presenza di OGM negli alimenti, è riuscita a confezionare una legge decisamente al ribasso, che permette di sublimare un’informazione così di base – OGM presenti o assenti – in una scelta multipla tra simboli, QR code e numeri di telefono per chiedere informazioni (in cosa consiste questa legge).

Per arrivare alla triste constatazione di Pollan: il food movement – di cui lui stesso è un teorico e sostenitore – non esiste. O è incapace di contrastare il radicato sforzo lobbistico dell’industria, contro il quale gli Obama hanno praticamente solo incassato.

Però esistono persone sempre più informate, che specie nelle vesti di consumatori possono fare moltissimo rivolgendosi a quello che Big Food ha di più caro: i suoi brand. Si cita l’esempio dei raccoglitori della Florida del Sud, semi-schiavizzati e pagati 1 centesimo ogni dollaro finale. Dopo decenni di lotte sindacali inascoltate, decisero di cambiare destinatario: dalle aziende “sul campo” che li ricattavano direttamente, ai brand che, in fondo alla catena, dettavano ritmi e prezzi. Siamo nel 2011 e le manifestazioni e campagne di boicottaggio nei confronti di McDonald’s, Burger King, Chipotle, Subway, Walmart, che quei pomodori li compravano, portarono a una rapida firma di un accordo per un miglioramento delle condizioni lavorative.

E molto più della politica è riuscita a fare anche la cultura, specie quella cinematografica. Pollan ricorda il successo di Food Inc., un documentario che, raccontando i danni dei fast-food e delle sterminate colture di OGM del Midwest, spiegò alle persone quanto lampante fosse il bisogno di riforma del sistema agroalimentare. Tanto che alcune aziende, tra cui Monsanto e DuPont, sentirono il bisogno di rispondere a quel film con una campagna multimilionaria: la creazione della U.S. Farmers and Ranchers Alliance, un gruppo di agricoltori e allevatori che – dietro il finanziamento delle grosse corporation dell’agribusiness – si pronuncia in difesa dell’industria ogni qual volta che qualche film, libro o personaggio ne metta in luce le storture.

In conclusione: la politica è lenta, ma la coscienza alimentare delle persone forse non lo è altrettanto. E quello che non sono stati capaci di fare gli Obama può arrivare dal basso, da una costellazione di piccoli sforzi di mobilitazione e divulgazione dei fatti. Se il Food Movement è ancora acerbo e poco radicato nelle istituzioni – e questo è vero tanto negli USA quanto in Europa – il mercato si è già portato avanti, per assecondare quelle persone e quelle coscienze, creando solo negli USA un’economia – di biologico, locale, artigianale – da 50 miliardi di dollari. Chiamiamolo Little Food, chiosa Pollan, perché è ancora piccolo rispetto a Big Food, ma cresce sano e più veloce.

Foto di copertina tratta da qui.

Twitter @dilettasereni

TAG: agribusiness, agricoltura, cibo, Michael Pollan, michelle obama, New York Times Magazine, obama
CAT: Agricoltura, agroalimentare

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