La fine delle quote latte ed il valore della concorrenza
La recente protesta degli allevatori per la prossima fine del regime delle quote latte e contro la liberalizzazione del mercato mi ha fatto ripensare alla Nuova Zelanda.
Anzi, prima ancora, in realtà, non ho potuto non soffermarmi a riflettere su un fatto a ben vedere increscioso: chi oggi protesta per la fine delle quote e il possibile avvento del tanto temuto “libero mercato”, sono gli stessi che per anni non hanno rispettato i vincoli di produzione, e sono costati all’Italia miliardi di euro di multe da parte dell’Unione Europea, multe ad oggi ricadute in grande parte sulla fiscalità generale.
La Nuova Zelanda, dicevamo. Le ragioni per cui mi è tornata alla mente sono fondamentalmente due: a) dopo trent’anni di continui successi, è oggi il maggior esportatore mondiale di prodotti lattiero-caseari (“the Saudi Arabia of milk”, come spesso viene definita dalla stampa anglo-sassone – e, a fronte del contrarsi delle stalle italiane, produzione di latte e numero di capi continuano a crescere: nel 2001 si contavano poco meno di tre milioni di mucche da latte nel paese, oggi sono quasi cinque milioni), b) a metà degli anni ottanta era un paese in profonda crisi, da molti ritenuto in declino strutturale, e seppe invece rilanciarsi con una coraggiosa shock therapy liberalizzatrice a tutto campo, che investì in pieno anche il comparto agricolo.
Shock therapy di cui non è necessario qui ripercorrere le tappe – tuttavia ben riassunte, per chiunque fosse interessato, in un paio di interventi di Maurice McTigue, uno dei suoi principali artefici, e di Donald Brash, ex governatore della Banca Centrale – basti dire che, al cuore, si trattò di restituire efficienza all’economia attraverso ampie privatizzazioni, di razionalizzare una spesa pubblica fuori controllo (incluso, mirabile dictu, un taglio consistente del numero di forestali in eccesso), di ridurre corposamente la pressione fiscale, favorendo il risparmio e l’investimento, di ridisegnare gli incentivi del sistema di welfare, di trasformare il ruolo dello Stato da impedimento per la crescita a suo fattore abilitante.
Ora, il meccanismo delle quote latte – una delle più folli politiche europee mai concepite – aveva l’obiettivo a dir poco bizzarro di contenere la produzione ed evitare squilibri tra domanda ed offerta a livello continentale: da una parte si elargivano cospicui finanziamenti, dall’altra si ponevano rigide limitazioni alla produzione, danneggiando le imprese più dinamiche, e creando l’incentivo a cercare l’aiuto della politica assai più che il favore dei consumatori.
L’ironia della sorte è che esso fu istituito nel 1984, proprio quando la Nuova Zelanda sceglieva di incamminarsi sulla strada radicalmente diversa cui abbiamo accennato, tagliando drasticamente i sussidi ed i trasferimenti al settore, rimuovendo dazi e barriere, eliminando la gestione pubblica e centralizzata delle quote di produzione. Gli operatori del settore vennero così esposti per la prima volta ai segnali di mercato, dando il via ad una profonda (e certo non indolore – la convinzione che che si possa uscire senza traumi da decenni di politiche errate è pura illusione) ristrutturazione, che non tardò a manifestare i suoi positivi effetti:
– nonostante previsioni catastrofiche da parte di alcuni gruppi di interesse, i temuti fallimenti di massa nel settore non si verificarono (a chi decise di abbandonare l’attività a seguito della fine del vecchio regime fu offerto un “exit grant”) ed il naturale consolidamento che seguì portò ad un incremento significativo della produttività, che crebbe in modo sostenuto, circa il 3% per anno dal 1985 al 2002;
– un certo numero di produttori marginali effettivamente scomparirono (come era sano che fosse) o vennero assorbiti, ma non tutti i “piccoli” ebbero cattiva sorte: molti si reinventarono nel settore turistico (la Nuova Zelanda, nonostante la posizione geografica non sia certo delle più favorevoli, è diventata una delle principali mete per chi è alla ricerca del cosiddetto “country lifestyle”) e/o, traendo vantaggio dalle liberalizzazioni a tutto campo, diversificarono la propria offerta;
– poiché si cominciò ad operare sulla base della domanda reale e non semplicemente perché si ricevevano sussidi e protezione, nuovi mercati e nuovi prodotti (in particolare nel comparto caseario) vennero alla luce;
Ex post si può concludere facilmente che l’industria si è mostrata perfettamente in grado di competere e, anzi, guadagnare quote di mercato, in un contesto internazionale ancora caratterizzato da sussidi agricoli diffusi e molto costosi per i cittadini, i quali tendono a pagare due volte, prima come contribuenti e poi come consumatori, dati i prezzi artificialmente alti che il protezionismo comporta. Ed è interessante notare un ulteriore aspetto messo in rilievo dai protagonisti di quella vicenda: proprio il fatto che lo sforzo riformatore avvenisse a tutto campo, senza, in pratica, risparmiare nessun angolo dell’economia kiwi, contribuì a temperare le resistenze ed a costruire il necessario consenso,
Adesso che l’assurdo regime delle quote europee è prossimo alla fine e in un contesto globale in cui il prezzo del latte è sotto pressione per eccesso di produzione, sarebbe auspicabile lasciare che il mercato trovi il proprio equilibrio ed a partire da tale equilibrio il settore possa riorganizzarsi, resistendo alle sirene che chiedono con insistenza nuovi e costosi interventi distorsivi, tanto più in un paese come l’Italia che, per molti versi, si trova in una situazione di crisi (anche fiscale) molto simile a quella attraversata dalla Nuova Zelanda pre-’84, ed in gran parte per le stesse ragioni.
Al contrario, compulsando le dichiarazioni che in questi giorni provengono dalla politica di ogni colore (anche volendo tralasciare la Lega, da sempre su posizioni anacronistiche su questi temi), l’impressione è che accadrà ben altro (naturalmente, ci si riferisce qui ad un framework complessivo che informi le cosiddette politiche agricole, il che non esclude a priori l’eventuale possibilità di fornire attenzione a realtà particolarmente svantaggiate, ad esempio con decisioni di denominazione dei prodotti, attenzione che, però, andrebbe giustificata in modo puntuale e che non può certo diventare la regola).
Per Paolo De Castro, ad esempio, coordinatore socialista alla commissione agricoltura dell’Europarlamento, si tratterà di approntare ”meccanismi che assomigliano alle quote ma non lo sono”(!); il ministro Martina sostiene invece che c’è un “problema di definizione del prezzo” (del latte) e chiede “all’industria uno sforzo” per “riconoscere che in Italia i prezzi di produzione sono più alti”, cioè, a conti fatti, di pagare il latte sopra il prezzo di mercato; secondo Marco Zullo, eurodeputato M5S, le Regioni dovrebbero intervenire per salvaguardare “il nostro punto forte” ovvero “la qualità”, qualità che, apparentemente, non può sostenersi da sé, in quanto “le famiglie scelgono il prezzo più basso”, ovvero bisognerebbe sostenere qualcosa per cui si ammette non esserci domanda (sufficiente); Nunzia De Girolamo, ex ministro delle politiche agricole, ha parlato della necessità di corrispondere il “giusto prezzo” agli allevatori, non è dato sapere se riferendosi alla dottrina medioevale della Scolastica.
Se questo è il livello di elaborazione, poche illusioni, insomma: nel nostro paese resta culturalmente difficilissimo riconoscere il valore della concorrenza ed il ruolo essenziale che ricopre nel favorire l’innovazione e, di conseguenza, la crescita della produttività, anche di fronte ai conclamati fallimenti delle strampalate alternative che, di volta in volta, ad essa vengono proposte. Ciò non significa, in ogni caso, che ogni tanto non sia comunque bene rispolverare l’esempio di quei paesi (altro caso molto notevole è quello del Canada della metà anni novanta) che ce l’hanno invece fatta a scrollarsi di dosso il fardello di un soffocante passato. Per ricordarsi che il declino è una scelta consapevole, non il prodotto di un destino cinico e baro, come troppe volte facciamo finta di credere.
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