Caporalato, raccolta fondi per gli indiani Sikh sfruttati nei campi del Pontino

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19 Settembre 2018

Trentamila indiani Sikh lavorano, nelle campagne del Pontino, in condizioni di schiavitù: circa 14 ore al giorno per una paga di 4 euro l’ora. Costretti a chiamare “padrone” il proprio datore di lavoro e spesso a far uso di sostanze dopanti per resistere alla fatica. È la denuncia della cooperativa In Migrazione che ha lanciato su GoFundMe una raccolta fondi per avviare un progetto di sostegno e assistenza alla comunità indiana che vive e lavora nella provincia di Latina. Abbiamo intervistato il direttore scientifico della cooperativa, Marco Omizzolo.

Marco Omizzolo

In questi anni con In Migrazione avete raccontato il fenomeno del caporalato nel Pontino. Storie quotidiane di vessazioni e soprusi. Qual è la situazione in questo momento? 
La situazione oggi è molto articolata. L’omogeneità degli anni passati, soprattutto dopo lo sciopero organizzato insieme a Flai Cgil e alla CGIL il 18 aprile del 2016, si è disarticolata in un sistema molto complesso che prevede il miglioramento, in alcuni casi, delle condizioni retributive dei braccianti indiani e non solo. Nel contempo, però, alcuni padroni italiani hanno risposto alla richiesta di giustizia e legalità aumentando il monte ore giornaliero di lavoro dei braccianti, compensando a loro vantaggio l’aumento retributivo. Altri, invece, spesso aziende agricole di medie e grandi dimensioni, hanno sostituito i braccianti indiani, considerati sindacalizzati o addirittura ingrati, coi richeidenti asilo subasahariani direttamente reclutati in alcuni centri di accoglienza, spesso Cas, determinando una saldatura tra cattiva accoglienza e sfruttamento del lavoro. Si tratta di una nuova frontiera dello sfruttamento, rilevabile anche a livello nazionale come tendenza, che espelle coloro che vengono considerati insubordinati perché reclamano diritti e assume, invece, i più fragili tra i fragili, obbligandoli a lavorare anche 14 ore per 20 o 30 euro al giorno, spesso senza contratto, considerandoli invece lavoratori più adatti allo sfruttamento. Si tratta di un fenomeno che, come In Migrazione, abbiamo denunciato già a dicembre scorso con una conferenza stampa alla Camera dei Deputati e che è stata solo in parte affrontata, almeno sinora, dalle istituzioni. In altri casi, infine, la squadra di braccianti, originariamente tutta composta da indiani, è stata, da padroni ben consigliati, volutamente disaggregata in diversi gruppi di provenienza culturale e linguistica diversa. Ciò significa che, se prima avevamo un gruppo di braccianti omogeneo sul quale intervenire (ad esempio tutti indiani), ora esso è stato diviso e messo in competizione dal padrone, il quale cerca così non solo di abbassare, attraverso una competizione al ribasso, la retribuzione ma anche di limitare le tutela e i diritti degli stessi nonché gli interventi esterni da parte di sindacati e operatori sociali. Questa “nuova divisione del lavoro agricolo pontino” permette al sistema di sfruttamento di persistere, di macinare diritti e, nel contempo, di maturare profitti enormi. Ciò significa, tra le altre cose, che il sistema di sfruttamento è molto più resiliente di quanto si pensava e che riesce ad elaborare una risposta di sistema ad ogni azione conflittuale determinata, sempre nella direzione dell’abbassamento delle tutele e dei diritti e a vantaggio dei profitti.


Quali i casi più complessi che avete affrontato?
Uno dei casi più complessi che sinora abbiamo affrontato riguarda quello di un bracciante indiano che per circa 6 anni ha vissuto in condizione di schiavitù tradizionale, abitando dentro il fondo del padrone e in una sua roulotte senza luce, acqua e gas, coi documenti sequestrati, sistematicamente picchiato e spesso per questo obbligato a scappare e a dormire in un bosco antistante il fondo o nella stalla dove dormiva con gli animali, bevendo e lavandosi con la stessa acqua con la quale lavava e abbeverava le vacche. Peraltro, lavorava 14 ore al giorno e spesso si nutriva rovistando tra gli avanzi che il padrone e la sua famiglia buttavano nella spazzatura. Una vergogna totale. Questo bracciante, arrivato regolarmente in Italia, si è trovato infine in una condizione di irregolarità, per via della pessima legge Bossi-Fini, che lo obbligava a sottostare a quei ricatti e violenze. È da sottolineare che questo lavoratore indiano ha avuto la capacità di intercettare gli effetti, anche mediatici, dello sciopero del 18 aprile ed il coraggio di contattare il presidente della Comunità Indiana del Lazio, Gurmukh Singh, che ha avvertito me e, dunque, In Migrazione. Abbiamo per questo subito interessato il Comando provinciale dei Carabinieri di Latina che, dopo accurate indagini ed aver accertato i fatti, è riuscito ad intervenire salvando letteralmente la vita di quella persona. Infine, questo lavoratore ha avuto anche la forza di denunciare il suo ex padrone, di costituirsi parte civile nel processo, insieme al Comune di Latina (prima volta che una amministrazione comunale si costitusice parte civile in un processo di questa natura), a In Migrazione e all’associazione Progetto Diritti. Per questo suo coraggio il bracciante indiano è stato premiato con un Permesso di Soggiorno per Motivi di Giustizia (primo caso in Italia di questa natura), presto trasformato in un permesso di soggiorno a tutti gli effetti. Ovviamente ora attendiamo il processo e i suoi esiti, sperando in un lieto fine che faccia sperare nuovamente nella giustizia di questo Paese.


C’è stato anche un grande sciopero, due anni fa. Cosa ricordi di quei giorni?

Quello sciopero ha rappresentato una vera e propria frattura epistemologica nella narrazione tradizionale del Paese e della provincia di Latina. Per anni si è affermato che la rivendicazione sociale e sindacale era ormai espressione obsoleta del Novecento. Noi invece l’abbiamo aggiornata e posta al centro della riflessione collettiva, peraltro organizzandola sotto gli uffici della Prefettura di Latina, luogo simbolo del potere istituzionale. Abbiamo posto questo tema sotto il naso delle istituzioni, che hanno risposto in modo diverso. Alcune, infatti, hanno accolto quella domanda di giustizia e legalità agendo contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo, altre, invece, hanno semplicemente alzato, almeno in una fase iniziale, le spalle. Organizzare, insieme alla Flai e alla CGIL, quello sciopero che ha portato circa 4000 persone in piazza, è stata un’esperienza di riabilitazione emotiva e sociale con la più alta idealità immaginabile e motivo di soddisfazione per il percorso di emancipazione che è seguito. Ciò non vuol dire aver risolto i problemi, ma averli posti all’attenzione della politica (a tutti i livelli), dei media e del dibattito sociale e culturale del Paese. Si pensi, ad esempio, che da quello sciopero è partita una sollecitazione fondamentale all’approvazione della nuova e assai importante legge contro il caporalato (199/2016), non a caso messa in discussione da questo governo. Ora, solo i colpevoli possono dire di non sapere del problema e dell’intreccio di affari economici e politici che da esso derivano.


C’è una consapevolezza maggiore da parte dei Sikh?

La consapevolezza è, senza alcun dubbio, aumentata in molti braccianti indiani e, soprattutto, è diventata un virus che ha innescato cortocircuiti continui nel sistema di sfruttamento pontino. Si pensi alle molte denunce presentate, alle diverse vertenze aziendali aperte e agli arresti operati dalle forze dell’ordine locale di caporali e padroni italiani. Ora però è tempo di passare dalla consapevolezza ai fatti ancor più concreti. Come In Migrazione abbiamo presentato più di 150 denunce nel corso degli ultimi due anni, tra vertenze di lavoro e penali, contro caporali, trafficanti, faccendieri e padroni italiani sfruttatori. Si tratta di seguire queste denunce, i relativi processi e di agire in tutte le sedi opportune (aziende e istituzioni in primis), perché quello sforzo, peraltro assai pericoloso, si trasformi in un percorso di giustizia e sviluppo reale e collettivo.


I caporali sono indiani e italiani. Voi li definite a disposizione di “aziende agroalimentari senza scrupoli”

I caporali sono soprattutto indiani perché funzionali al padrone nella gestione efficiente della squadra di lavoro di connazionali nel campo agricolo, sia per una questione di lingua che di prassi percepita. Ma lo sfruttamento non riguarda e non si esaurisce solo dentro questo schema. Esso è molto più ampio e organizzato e comprende anche alcuni impiegati pubblici, soggetti deputati al controllo e alla vigilanza, sindacalisti, commercialisti, avvocati. Per questa ragione noi parliamo di un sistema e continuiamo a ritenere riduttivo e pericoloso parlare solo di caporalato. Si pensi ad esempio al ruolo del MOF di Fondi, dove la penetrazione delle mafie è costante, nonostante i buoni risultati di forze dell’ordine e Magistratura. Altrimenti non si spiega come si arrivi, secondo Eurispes, al volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia, salito, nel 2017, a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30% nell’ultimo anno. La filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha, ancora secondo Eurispes e io sono perfettamente d’accordo, tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito “militare” per vestire il “doppiopetto” e il “colletto bianco”, riuscendo così a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0. Questa è una elaborazione teorica che trova riscontro nelle ricerche e indagini territoriali. Ne dobbiamo prendere coscienza per agire contro questa degenerazione, prima che sia troppo tardi.


Come nasce l’idea di una raccolta fondi per aiutare la comunità indiana Sikh? Qual è l’obiettivo finale della campagna?

L’obiettivo finale è quello di avviare un centro servizi d’avanguardia capace di intercettare i bisogni reali dei braccianti indiani (e non solo), fornendo loro gli strumenti essenziali e indispensabili per uscire da ogni forma di emarginazione e dipendenza. In Migrazione aveva già avviato un progetto di questa natura, chiamato “Bella Farnia”, nel 2015, divenuto best practice per il Cnr e Eurispes (dossier Agromafie). Ora si tratta di replicarlo con pari professionalità, adeguandolo però alla rinnovata complessità della situazione in essere, evitando ogni scivolamento ideologico ma agendo solo ed esclusivamente sulle leve della competenza, professionalità e rispetto dell’identità e volontà dei nostri fruitori. Questo è un aspetto centrale, Noi non invitiamo alla denuncia ma forniamo strumenti di comprensione e informazione sulla realtà sociale, lasciando libera la persone di decidere se assumere tali strumenti ed usarli in vertenze o se invece usarli come occasione di emancipazione personale, evitando azioni conflittuali dirette. Nell’uno o nell’altro caso per noi si tratta di un successo. La centralità di questo progetto sta nella professionalità certificata di altissimo profilo dei soggetti che vi parteciperanno come insegnanti, avvocati, mediatori o altri, la libertà e autonomia dei fruitori e la sua organizzazione nei luoghi centrali per la comunità (non solo luoghi fisici e non solo spazi tradizionali). Questo sforzo deve prevedere un processo di emancipazione anche da parte della collettività autoctona (emancipazione anche dal torpore e dall’ignavia). Il loro contributo non è infatti solo una donazione economica ma la sottoscrizione di un impegno preciso con la comunità indiana pontina affinché insieme si possa spezzare l’isolamento e l’emarginazione dei braccianti, ogni forma di razzismo, spesso usato per giustificare sfruttamento e violenze e ogni caporalato e mafia. Questa sottoscrizione è, dunque, un atto di sfida a chi pensa che il padrone resterà sempre il padrone e un lavoratore sempre un soggetto debole e subordinato e, nel contempo, un atto d’amore verso il proprio futuro e un atto politico in favore di questo Paese che certo non può continuare a pensare che i problemi siano riconducibili alla presenza dei migranti. Questa è infatti una pericolosa banalizzazione che deve essere superata quanto prima.

Il progetto di crowdfunding è raggiungibile alla pagina www.gofundme.com/ fermiamo-il-caporalato

TAG: agricoltura, agromafie, campagne, Caporalato, diritti, Latina, migranti, sciopero, sfruttamento
CAT: Agricoltura, immigrazione

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