“Anche l’usignolo. Vita di città, di bosco e di campagna”: intervista all’autore

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5 Luglio 2021

Sarebbe necessaria una lunghissima intervista per mettere a fuoco tutti gli spunti che Niccoló Reverdini offre in Anche l’usignolo. Vita di città, di bosco e di campagna (Mondadori 2021), ma cercherò di indirizzare la mia curiosità in un numero congruo di domande. La prima riguarda senz’altro il tema della memoria, che attraversa in maniera trasversale tutto il libro e che nelle sue pagine diventa un trampolino dal quale continuare a prendere slancio per la progettualità del futuro; in un’epoca, quale quella contemporanea, in cui tutto è schiacciato in un continuo «iperpresente», per riprendere l’ottima definizione di Mauro Ferraresi, lei evita che il passato venga fagocitato o si trasformi in sterile idealizzazione.

Da dove deriva questa sua inversione di tendenza e dove affonda le radici l’intento di trasporla in una narrazione?

Credo cospiri, al riguardo, la mia attitudine alla melanconia: una piega originaria, vissuta fin da bambino, anche rispetto al passato prossimo. Una sorta di fisiologia del ricordo, naturalmente provocata dai luoghi, specie in assenza delle persone con le quali lì avevo condiviso la vita. Proprio per questo, rispetto alla sorte di scrivere, la questione si è fatta molto delicata: all’inizio, ho temuto di non riuscire a rispecchiarmi nel racconto, di non rendere giustizia alle esperienze e alle persone care che avrei ritrovato nella narrazione. Ho dovuto rintracciare ogni appiglio e alla fine non ho più abbandonato la parete, in un vero free solo della memoria, sempre molto esposto, ma al bisogno anche alquanto pudico. Ho comunque cercato di attenuare la mia voce narrante, alternandola a quella dei miei maestri dialettofoni di bosco e di campagna, nonché alla memoria letteraria, che è un altro strato vivo del racconto. Tutti, in fondo, ricordano, fra le pagine del libro. Lo stesso ecosistema e lo stesso paesaggio mostrano nella continuità segni evidenti di cambiamento, valutati alla luce dell’impatto antropico, scandagliato fra sincronia e diacronia.

Lei si è formato all’Università di Pavia, dedicandosi allo studio della fortuna dei classici latini nella letteratura italiana, allievo, tra l’altro, del grande Dante Isella. Non devono stupire, quindi, i molteplici riferimenti letterari di cui Anche l’usignolo è pregno e la letterarietà stessa del testo nel suo complesso che, anche laddove descrive piante, ortaggi e tecniche di coltivazione, non perde mai un afflato proprio di chi la letteratura la pratica da sempre.

In che modo, le chiedo, ha scelto di coniugare cultura e coltura, in quest’opera certamente ma anche nella vita di tutti i giorni?

Nel libro accenno agli eccessi dei miei studi universitari e a concomitanti urti affettivi, che mi hanno infine sbattuto come flutti sulla corte deserta della Forestina. Il lavoro agreste ha sopito e curato quei malanni, ma la vena letteraria è presto riemersa, suggerendo un approccio capace di restituire un equilibrio, anche sorretto dall’etimologia: cultura, dal latino cultura, derivato di colĕre, “coltivare”. Allora la formazione filologica ha incoraggiato il recupero dell’assetto originario, a querco-carpineto, del Bosco di Riazzolo e mi ha permesso di rileggere storicamente il Basso Milanese attraverso le molteplici fonti letterarie antiche e moderne, che richiamo a piene mani nel racconto. Devo pure ricordare che il mio maestro Dante Isella mi è stato molto vicino all’inizio dell’avventura alla Forestina, preoccupato della complessità dell’impresa: la sua famiglia gestiva un’importante azienda di trasporti, prima al traino dei cavalli e poi su gomma, alla quale lui stesso si era inizialmente dedicato, cercando di conciliare il suo contributo con i crescenti impegni degli studi. Oggi le due dimensioni sono in me fortemente intrecciate e il libro è un frutto della loro convivenza.

La Cascina Forestina, sita nel Basso Milanese a cui, nel corso degli anni, sono spettati premi e riconoscimenti e che lei conduce, come coltivatore diretto, dal 1996, è grande protagonista delle pagine di Anche l’usignolo; grazie alla sua capacità comunicativa e alle sue doti di scrittore, il lettore è come trasportato dal luogo dove sta leggendo il suo libro proprio nei pressi della Cascina, a osservare il minuzioso e appassionato lavoro lì condotto per generare, prima ancora che produrre, frutti della terra.

In un tempo, tale è quello che stiamo vivendo, nel quale la parola è sospesa tra assenza e abuso e i termini “sostenibilità” e “rispetto ambientale” vengono usati in modo spropositato o come sostantivi-esca, vorrebbe ridefinirci, alla luce della sua lunga esperienza nel settore del Green, cosa significhi davvero parlare di questi argomenti e quali difficoltà e fatiche si incontrano nel volere operare in un’ottica che sia davvero etica ed ecosostenibile?

Credo sia essenziale il rapporto fisico, materiale con il lavoro: la riscoperta della manualità, l’adesione alla terra, che richiede fatica e umiltà. Ed occorre sentire la dignità e il piacere di questa esperienza, osservando ogni giorno la certezza del nostro operare, anche in termini estetici e morali. I metodi dell’agricoltura biologica dialogano con l’ambiente naturale, puntando a un equilibrio che favorisca la flora e la fauna locali, traendone a propria volta vantaggio in rapporto all’agroecosistema. Il racconto indugia su questo prezioso colloquio, richiamando ogni volta dati verificabili e concreti, siano l’umido microclima del Bosco a vantaggio dell’orto o le virtù alimentari di una specie come la cinciallegra, capace di portare ogni giorno al nido centinaia di coleotteri e lepidotteri nocivi alle colture. Occorrono, naturalmente, coerenti politiche agricole e ambientali, sempre più urgenti e necessarie anche a fronte dei cambiamenti climatici: le forme di coltivazione a basso impatto ambientale arricchiscono la presenza di sostanza organica nel terreno, garantendo prodotti migliori e aumentando il sequestro di anidride carbonica. Sono obbiettivi vitali per la continuità della vita e bisogna riconoscere alla Politica Agricola Comune un impegno crescente in questa direzione, a partire dagli Anni Novanta, dunque proprio dall’inizio del mio stesso lavoro alla Forestina. Ogni nostra opera è stata da subito indirizzata alla tutela e all’incremento della biodiversità, verificabile anche nella conservazione e nel miglioramento del paesaggio rurale e silvestre. Ma i risultati migliori possono essere raggiunti solo grazie alla collaborazione delle aziende agricole, oggi fortunatamente inclini, anche in Lombardia, a un maggiore spirito consortile, talora mediante la costituzione di specifici Distretti rurali nelle aree produttive periurbane.

© Martina Corbetta, 2020

© Roberto Garavaglia, 2011

Altri due elementi caratterizzano Anche l’usignolo: l’inserimento frequente di espressioni dialettali e, poco dopo la metà dell’opera, l’inclusione di inserti fotografici. Da una parte, dunque, la necessità di riprodurre anche linguisticamente un tempo altro a testimoniarne la durata e la capacità di percorrenza delle epoche; dall’altra la volontà di dare una conformazione visuale precisa a volti, luoghi ed esseri di ogni specie. Da dove deriva e verso dove si dirige questo desiderio di contaminazione, insito già nella struttura stessa dell’opera, un ibrido tra saggio e narrazione?

La componente linguistica dialettale è strettamente connessa alla mia formazione agricola e forestale, curata dagli anziani maestri incontrati alla Forestina. Un’esperienza viva, quotidiana, lessicale e fraseologica, felicemente rapportata ai miei studi filologici pavesi. Ho potuto così attingere a nuove risorse espressive, ricche di moralità e di humour, che sono parte integrante del mio racconto. Non sarei riuscito a ritrarre il Gino, l’Antonio e il Lino senza ricorrere alla loro lingua vera, dalla quale traspaiono efficacemente i loro caratteri e le loro competenze. Ho anche cercato di registrare un patrimonio lessicale, rurale e selvatico, a forte rischio di estinzione, perché ormai ignorato dai giovani locali, che utilizzano un dialetto italianizzato, molto impoverito nei termini agresti e selvatici. L’inserto iconografico offre al lettore una composita rassegna di immagini, utili a riconoscere le persone e i paesaggi che mi hanno accompagnato. Ma vi sono anche tavole ottocentesche dedicate alla fauna selvatica o ritratti famigliari, come quello di mio nonno materno Franco alla Cascina Capanna o di mia zia Betta sorridente nel Bosco di Riazzolo. Alcune riproduzioni sono state concesse dal Museo Civico di Storia Naturale di Milano o dalla Biblioteca Nazionale Braidense e dalla Fondazione Federica Galli, una grande artista che ha lavorato a lungo nel nostro Bosco, incidendo trentatré acqueforti fra la fine degli Anni Settanta e i primi Anni Ottanta, per aggiungerne infine sei nuove nel 2006, in occasione di una mostra allestita alla Forestina e divenuta un’esposizione permanente, grazie al generoso dono della stessa artista. E ci sono, fra le foto, varie altre sorprese, ciascuna con specifico richiamo alla pagina del testo.

“Museo Civico di Storia Naturale di Milano, Biblioteca, RAR.C.33, vol. 1, tav. 32”.

“Società italiana di Scienze Naturali, Milano”.

L’usignolo, che ci viene da subito incontro attraverso il titolo che lei ha scelto per questo suo lavoro, si distingue per la bellezza del canto e anche per il suo essere un animale solitario e territoriale: la sua figura, quindi, porta a ripensare metaforicamente l’importanza della voce e il binomio assenza/presenza.

Cosa significa per lei avere e dare voce e cosa vuol dire esserci, nonostante la malattia e le difficoltà del vivere?

L’usignolo è variamente presente nel libro, tanto nelle sue appartate attitudini selvatiche, quanto nei suoi valori simbolici: da un lato il canto, che segnala, a più riprese, la componente lirica del racconto e dall’altro, come specie transahariana, il viaggio e l’accoglienza dei migranti, anche e proprio nelle corti delle cascine, che appaiono talora come antichi porti di mare. Ogni anno attendo la sua voce alle soglie del Bosco e quando l’avverto sento sciogliersi una malinconia. Esserci significa sempre resistere, tornare: contare sempre sulla propria dignità, anche attraverso i malanni dell’anima e del corpo, rialzarsi fino alla fine e prepararsi senza sgomento, con un umile sorriso, alla morte.

 

Niccolò Reverdini

Niccolò Reverdini (Milano, 1965) si è formato all’Università di Pavia, dedicandosi allo studio della fortuna dei classici latini nella letteratura italiana. Allievo di Dante Isella, ha collaborato all’edizione delle Opere (Adelphi, 1994) di Carlo Dossi, di cui è pronipote, ricostruendo anche la storia editoriale delle Note Azzurre (Adelphi, 2010). Dal 1996 conduce, come coltivatore diretto, la Cascina Forestina, sita nel Basso Milanese. La Camera di Commercio ha conferito alla Forestina la Medaglia d’oro per l’agricoltura biologica (2001) e il Premio Piazza Mercanti per la tutela dell’ambiente (2003). Nel 2009 il Parco Agricolo Sud Milano ha riconosciuto il Marchio Oro alle attività aziendali, premiate nel 2017 anche dal Ministero delle Politiche Agricole, che ha incluso la Forestina tra le dieci “Eccellenze rurali” del territorio nazionale. (Ph. © Roberto Garavaglia, 2005)

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CAT: Agricoltura, Letteratura

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