Ormoni e ogm Usa in cambio di auto Ue, ecco lo scambio per il Ttip

4 Maggio 2016

Se gli europei vogliono vendere le loro auto negli Usa, si prendano prodotti transgenici, carni agli ormoni, pollo al cloro. Se c’erano ancora dubbi, adesso la partita che sta giocando Washington con il negoziato per il mega accordo commerciale Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) in corso da tre anni è diventata chiarissima. E si gioca, in buona sostanza, anzitutto proprio sull’agricoltura, il mercato Ue fa gola alla potentissima lobby agraria statunitense, con buona pace di standard e garanzie cari agli europei. Se lo si era intuito da tempo, le recenti rivelazioni di documentazione riservata sulle posizioni negoziali di Usa e Ue da parte della sede olandese di Greenpeace portano la conferma definitiva, e questo riduce se possibili le chance che il Ttip veda mai la luce, come ormai temono anche vari commissario europei.

Perché le carte rivelano come gli americani siano molto decisi e stiano perseguendo posizioni durissime. E infatti prendono di petto gli europei su questioni per loro di primaria importanza, come anzitutto la liberalizzazione delle esportazioni di auto europee negli Usa: l’eliminazione soprattutto delle barriere non tariffarie (standard di sicurezza e crash test diversi) potrebbe aumentare del 150% le esportazioni di veicoli made in Ue oltre Atlantico – e infatti i produttori automobilistici europei sono i più entusiastici sostenitori del Ttip. Washington lo sa, ed ecco il ricatto: gli Stati Uniti, si legge nelle carte negoziali, «si sono affrettati a sottolineare che (…) progressi sulle parti relative ai veicoli a motore saranno possibili solo se l’Ue mostrerà progressi nella discussione sulle tariffe agricole». La pressione è fortissima, è di questi giorni una lettera di 26 senatori Usa diretta al Segretario di Stato all’Agricoltura Thomas Vilsack (rivelata dalla delegazione del Movimento Cinque Stelle al Parlamento Europeo), in cui si lamenta che nel 2015, «mentre gli Usa hanno registrato un avanzo commerciale di 16 miliardi di dollari per i prodotti agricoli a livello globale, nell’Ue le esportazioni Usa hanno visto un deficit commerciale record da 12 miliardi di euro».

Ecco perché la lettera avverte che «un accordo finale che non includa una parte sostanziosa per l’agricoltura potrebbe avere un impatto negativo sul sostegno del Congresso all’accordo». Per i senatori, «è imperativo che resti prioritaria l’eliminazione di barriere su tutti i prodotti, incluso manzo, maiale, pollo, riso, frutta e legumi». E si chiede esplicitamente l’eliminazione «delle barriere regolatorie in vigore da molto tempo come quelle contro gli ormoni utilizzati nel manzo Usa». Non basta. I senatori vogliono che i negoziatori Usa «combattano contro le restrizioni alle indicazioni geografiche promosse dall’Ue», e infatti i negoziatori Usa rifiutano di riconoscerle così come rifiutano anche le denominazioni semi generiche (come Chianti, Marsala o Champagne): gli americani vogliono produrre Chianti in California e continuare a vendere “Parma Ham” o “Parmesan” made in Usa. Posizioni assolutamente inconciliabili con linee rosse dell’Ue, ma soprattutto di paesi come l’Italia e la Francia.

Posizioni che in sostanza si rispecchiano nella carte negoziali. Ad esempio gli Stati Uniti pretendono un passaggio in cui si afferma che «le parti lavoreranno per promuovere lo sviluppo agricolo internazionale e la sicurezza alimentare globale» tra l’altro «incoraggiando e sostenendo la ricerca e la formazione per sviluppare nuovi prodotti agricoli innovativi». Non basta: gli Stati Uniti rifiutano l’approccio precauzionale dell’Unione Europea (non si autorizza un prodotto se vi sono dubbi che siano dannoso), e invece pretendono il modello americano (si vieta solo se c’è la prova scientifica della dannosità). E infatti nel testo proposto dagli Usa si legge che «ogni parte dovrà assicurare che terrà conto (…) delle prove scientifiche disponibili, incluso dati quantitativi e qualitativi». «Se prodotti alimentari non vengono autorizzati sulla base di conoscenze scientifiche – ha tuonato il segretario di Stato Vilsack – bensì su requisiti formulati dai politici, questo frena il commercio».

Per ora l’Ue punta i piedi, insistendo sul diritto di ogni stato membro a tutelare persone, animali e ambiente nel proprio territorio. Greenpeace, però, lamenta che il principio precauzionale non è mai citato nella parte redatta dall’Ue, anche se il commissario europeo al Commercio Cecilia Malmström assicura che «è scontato, in quanto parte essenziale dell’acquis comunitario» (e cioè l’insieme di normative Ue accumulate negli anni). Gli Usa, inoltre, rifiutano qualsiasi obbligo di etichettatura, che impone ad esempio di indicare che un prodotto contiene Ogm o ormoni. Non basta. Se Ue e Usa concordano sulla necessità di scambiarsi informazioni su nuove normative di standard tecnici e requisiti di sicurezza in preparazione, Washington pretende qualcosa che somiglia a un diritto di veto preventivo per normative che potrebbero imporre nuovi obblighi alle imprese, e chiede di includere un suo rappresentante negli organismi europei che fissano gli standard (senza offrire reciprocità). Inoltre gli Usa chiedono che l’Ue introduca una procedura vincolante che valuti «la necessità di una normativa» e analizzi «costi e benefici di alternative».

Un muro contro muro che nel tredicesimo round negoziale concluso la scorsa settimana non ha visto alcun passo avanti sostanziale sui punti di cui si diceva, né sulla spinosa questione dell’accesso degli europei alle gare d’appalto pubbliche negli Usa. Né sul fronte chimico: gli Usa sono furibondi che l’Ue, per ragioni precauzionali, vieti 1.328 sostanze chimiche nei cosmetici (contro le 11 vietate in America), e anche qui tentano il ricatto: niente gas liquido Usa (cui gli europei puntano, soprattutto quelli dell’Est, per ridurre la dipendenza dalla Russia), se non ci sarà un ammorbidimento europeo.
Le chance di concludere in autunno sono irrisorie (anche se vi sarà un nuovo round negoziale a luglio). Poi ci saranno le elezioni presidenziali in Usa, e quindi, con la nuova amministrazione, si dovrà probabilmente ricominciare punto e accapo. Il Parlamento Europeo, che dovrà approvare l’accordo, è sul piede di guerra, e così vari stati membri (l’accordo andrà ratificato da tutti e 28). Soprattutto Parigi: «a questo stadio – ha detto il presidente François Hollande – la Francia dice no nella tappa che conosciamo dei negoziati». Forti dubbi ha espresso anche l’Austria, il cancelliere tedesco Angela Merkel è invece a favore, ma la vasta maggioranza dell’opinione pubblica del suo paese è fortemente ostile.

Quanto all’Italia, Matteo Renzi resta formalmente a favore, ma con dei caveat: «La nostra posizione sul Ttip – ha detto giorni fa ad Hannover il presidente del Consiglio – è che siamo impegnati in un negoziato, siamo favorevoli e spingiamo perché si concluda nel rispetto di alcune specificità». Tra queste, proprio la tutela degli standard e dei prodotti doc che gli americani vogliono sopprimere. Roma, in queste circostanze, difficilmente potrebbe approvare l’accordo.

TAG: ttip
CAT: agroalimentare, commercio

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