Nell’America di Biden
Sul filo di lana
In realtà, al momento in cui scrivo (è giovedì mattina, 5 novembre) non abbiamo ancora la certezza che il prossimo presidente degli Stati Uniti si chiamerà Joe Biden. Nelle ultime ore però, i più recenti sviluppi dello scrutinio ci portano ad affermare con un elevato livello di sicurezza che sarà lui il prossimo inquilino della Casa Bianca.
Il candidato democratico ha stabilito nel pomeriggio di mercoledì 4 novembre – la serata italiana – il record come candidato alla Casa Bianca più votato nella storia, abbattendo il primato dei 70 milioni e 330mila voti che Barack Obama aveva fatto registrare nel 2008. Ovviamente, il dato non deve stupirci troppo: il numero di elettori a questa tornata è stato il più elevato dal 1908. Anche Donald Trump ha avuto molte preferenze (oltre67 milioni e 500mila), mentre i candidati minori si sono spartiti 2 milioni e 268mila voti. I numeri sono aggiornati alla serata del 4 novembre, dunque sono destinati a salire entro il termine del conteggio.
La tornata elettorale è stata – o meglio, è ancora dal momento che si stanno concludendo le operazioni di scrutinio – appassionante. Nessuno dei due candidati ha staccato l’altro – seppure entrambi si siano dichiarati vincitori durante la notte elettorale tra martedì e mercoledì; Trump in maniera fin troppo trionfale mentre Biden con toni più pacati – e su questo aspetto torneremo in seguito, però Biden si è accaparrato la maggioranza dei voti via posta, giunti in grande quantità quest’anno, a causa del timore dovuto alla pandemia e ha strappato un paio di vittorie chiave in Michigan e Wisconsin. Erano infatti gli Stati del Midwest, compresi nella cosiddetta Rust Belt quelli che sarebbero risultati decisivi, lo si sapeva fin dall’inizio. La maggior parte di questi swing States, si è schierata con Biden.
Lo swing della vittoria
Le circoscrizioni elettorali decisive in questo turno elettorale erano Arizona, Texas, Florida, Ohio, Michigan, Minnesota, Wisconsin, Georgia, Pennsylvania, Nevada e North Carolina. Dal momento che Biden ha più Stati e ha vinto agevolmente in California, ove si assegnano ben 55 grandi elettori – saranno queste figure ad assegnare la vittoria negli States, le quali si esprimono a seconda del voto popolare nelle circoscrizioni che rappresentano – Trump ha bisogno di vincere nella maggior parte di questi Stati ballerini. Il presidente uscente ha trionfato in Florida, Texas, Ohio ed è al momento in vantaggio in Pennsylvania, oltre a guidare di un soffio in Georgia e North Carolina. Troppo poco. Biden guida in Nevada, seppur di poco e si è praticamente già aggiudicato Arizona, Michigan e Wisconsin; due stati della cintura della ruggine, la Rust Belt appunto, quella parte di America industriale che vive una profonda crisi economica, la quale aveva appoggiato in massa Trump 4 anni fa, ammaliata da promesse di ripresa che, al momento, sono state mantenute solo in piccola parte.
Qualora il candidato democratico dovesse aggiudicarsi un’altra di queste circoscrizioni – ha possibilità di recupero in North Carolina e Georgia – raggiungerebbe il magic number dei 270 grandi elettori, quelli necessari alla nomina a POTUS. È davvero probabile che vi riesca al termine dei conteggi dei voti giunti tramite modulo postale, i quali probabilmente lo favoriranno. In questo caso, gli swing States suoneranno per l’ex vice di Obama la musica della vittoria.
Naturalmente, Trump potrebbe recuperare in maniera sorprendente o il conteggio dei grandi elettori potrebbe attestarsi su un clamoroso 269 a 269. In tal caso, va da sé, questo articolo sarebbe carta straccia ma si tratta di ipotesi remote nel momento in cui si scrive.
Impressioni a caldo
Anche se dovesse imporsi, come probabilmente avverrà visto quanto scritto or ora, Biden difficilmente avrà vita facile. Trump ha già promesso di dargli battaglia, chiedendo riconteggi e minacciando di rivolgersi alla Corte Suprema – la quale lo appoggia in massa dal momento che ha nominato giudici a sua immagine e somiglianza – in quanto non si fida dei voti postali e teme che siano state fatte sparire schede con il suo nome apposto sopra, oppure se ne siano aggiunte altre con quello del suo avversario. Insomma, sta facendo di tutto per mettere in difficoltà chi scrutina con un’attitudine da bimbetto, minando quella – non troppo elevata – credibilità internazionale che ha costruito negli ultimi 4 anni.
Staremo a vedere a cosa condurranno questi piagnistei di The Donald, intanto assumiamo che il 20 gennaio sarà Joe Biden a giurare a Washington e facciamo qualche considerazione relativamente al turno elettorale che probabilmente lo consegnerà alla storia come il quarantaseiesimo presidente degli USA.
Il programma di Biden non convince tutti. Gran parte dei suoi elettori sono persone che avrebbero probabilmente votato chiunque avesse sfidato Donald Trump, altri votanti forse lo vedono di buon occhio perché rappresenta una sorta di argine al fiume filo-socialista interno al partito che porta sempre più acqua e attira sempre più pesci – ovvero voti – soprattutto tra i giovani. Gli americani più anziani, quelli cresciuti durante il red scare ai quali hanno insegnato, probabilmente pure a scuola, che il socialismo è il diavolo, continuano a fare scongiuri di fronte alle idee di questa corrente. Non tollerano però neppure Trump. Per tali persone, Biden è il candidato perfetto, Chi meglio di un uomo che è stato in politica per 50 anni e si mantiene su posizioni più vicine a quelle repubblicane che dell’ala più progressista del suo partito può rappresentare quel caro vecchio partito democratico che quasi non sa neppure cosa siano i valori di sinistra? This is America, in fondo.
La vittoria di Biden non sarà netta né convincente. Come si è già scritto né un contendente né l’altro sono stati in grado di staccare lo sfidante. Il ticket presidenziale democratico – la proposta di governo condivisa dall’ex numero 2 di Obama con la sua candidata vicepresidente, Kamala Harris – doveva vincere in scioltezza contro Trump. Perlomeno, questo dicevano i sondaggi in vista dell’Election Day. Ci si aspettava che Biden potesse arrivare a Washington acclamato come Napoleone al suo rientro a Parigi dopo l’esilio sull’isola d’Elba; la realtà dei fatti però, è molto diversa. Gli Stati Uniti sui quali dovrà governare sono un Paese non diviso, bensì proprio lacerato. Il candidato dem sarà il rappresentante di una metà dei suoi concittadini, non di tutti. Se i suoi dovessero aggiudicarsi ambedue le camere, il ruolo potrebbe risultargli più semplice; al Senato però c’è uno scarto strettissimo tra i due partiti ed entrambi potrebbero finire per aggiudicarselo.
Debole come Joe Biden, poi, appare anche il sistema elettorale a stelle e strisce. È giunto il caso di dirlo forte e chiaro: non è più pensabile andare a votare con un metodo risalente a due secoli fa. Lo step del collegio dei grandi elettori è obsoleto a dir poco. Pare davvero curioso, per usare un eufemismo, che nel 2020 si utilizzi ancora un procedimento così macchinoso, il quale da sempre si presta ad essere contestato. Già Thomas Jefferson, ai suoi tempi, fece ricorso in seguito ad una elezione per lui non soddisfacente. Chiunque sia il prossimo inquilino della Casa Bianca, forse farebbe bene a contemplare anche una riforma elettorale.
Non so se Biden sarà migliore di Trump. Probabilmente sarà meno peggio di lui – soprattutto relativamente ad alcuni temi fondamentali; penso ad esempio a quello ambientale – ma non so dire se ciò sia sufficiente.
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