Clinton vs Bush: la nuova Guerra delle due rose
In vista delle ormai prossime presidenziali del 2016, entrambi gli schieramenti dei due maggiori partiti statunitensi iniziano apertamente a fremere, dando i primi evidenti segni di fibrillazione interna.
Da una parte troviamo il GOP, nel cui ambito già da qualche tempo sta via via prendendo forma un articolato dibattito ideologico-filosofico tra le variegate anime che lo compongono. Un dibattito che – al momento – sembra sostanzialmente esprimere due posizioni maggioritarie, per quanto magari non particolarmente innovative: un “nostalgico” ritorno al neoconservatorismo (rappresentato da Jeb Bush) e una linea più libertaria, dalle venature smaccatamente populiste (incarnata dal Tea Party)
Nel campo avversario la compagine democratica tende a mostrarsi più compatta, tanto sul piano programmatico quanto su quello più pragmaticamente politico. E questo lo si può ravvisare sotto svariati punti di vista. Innanzitutto è storicamente dimostrato come le divergenze di natura puramente ideologica all’interno del Partito Democratico siano assai minori, rispetto a quelle caratterizzanti lo schieramento dei rivali repubblicani. Se difatti questi ultimi risultano tradizionalmente frazionati in una miriade di correnti politiche non poco litigiose tra loro, i democratici ad oggi – pur al netto di numerose sfumature – sono per la maggior parte divisi in due linee politiche principali: una liberal (più a sinistra), incarnata da Obama; ed una centrista (più moderata), rappresentata dai Clinton.
Ora, sembra proprio che questa tradizionale (e più semplice) divisione in casa democratica perduri ancora oggi, alle soglie del 2016. E se quasi otto anni fa il Partito dell’Asinello decise in occasione delle primarie di virare risolutamente a sinistra (supportando alfine la figura di Barack Obama), in vista del prossimo appuntamento elettorale sembra invece maggiormente propenso ad una più moderata scelta clintoniana. E le motivazioni sarebbero molteplici.
In primo luogo il senso di delusione che aleggia intorno alla figura dello stesso Obama. Presentatosi nel 2008 come l’homo novus del cambiamento radicale e repentino, ha finito poi per deludere non poche delle aspettative che aveva allora (talvolta un po’ fanaticamente) suscitato: si pensi alle riforme sociali e – soprattutto – alle problematiche di politica estera (dall’Afghanistan alla Siria, passando per la Libia).
Un ulteriore dato di analisi è poi il deterioramento in questi anni dei rapporti con Israele. Le aperture di Obama all’Iran hanno finito con l’innescare una serie di durissime reazioni, ben esemplificate e sintetizzate dal discorso di Netanyahu al Congresso il 3 marzo scorso. Se è difatti vero che il primo alleato statunitense di Israele è rappresentato dal GOP, non è da escludere che anche non pochi democratici vogliano risanare la rottura: anche in tal senso si comprenderebbe dunque una scelta centrista (clintoniana).
E’ comunque evidente come – al di là delle differenti linee ideologiche – il progressivo emergere di Hillary e Jeb nelle loro rispettive compagini risulta essenzialmente vincolato all’abnorme potere politico ed economico di cui le dinastie Clinton e Bush notoriamente dispongono. Se è difatti indubbio che sia ancora presto per parlare di candidati effettivi alla corsa presidenziale del 2016, risulta ciononostante plausibile ritenere che alla fine i due sfidanti possano essere proprio costoro.
Tanto più che un articolo di Ben White apparso qualche giorno fa su Politico.com ha rilevato come Goldman Sachs sarebbe assolutamente ben disposta (in termini di finanziamenti) verso entrambi i candidati, proprio in virtù delle loro comuni posizioni “centriste” (oltre che per le vecchie relazioni instaurate negli anni dalla banca tanto con i Bush quanto con i Clinton). Un elemento che ovviamente si troverebbe a rafforzare entrambi in termini di robustezza economica, gettando le basi per una sterminata potenza di fuoco da impiegare in un’eventuale (e probabile) campagna elettorale.
Tutto questo non significa comunque che si prospetti per Hillary e per Jeb una strada automaticamente in discesa. La provenienza da dinastie potentissime e l’endorsement da parte del mondo finanziario che conta possono difatti altresì rivelarsi un’arma a doppio taglio particolarmente infida.
Entrambi vengono difatti visti da cospicue quote dei loro rispettivi schieramenti (ed elettorati) come odiosi esponenti di un’aristocrazia che cozza palesemente con la tradizionale idea del self-made man americano. E non dobbiamo dimenticare che buona parte della vittoria di Obama in occasione delle primarie del 2008 fu dovuta ad una linea impostata sul presentare sé stesso come l’uomo nuovo in grado di sfidare e abbattere quell’establishment che la Clinton rappresentava: una linea che – abilmente veicolata dall’uso dei social network – alla fine si rivelò vincente. Ed è bene altresì rilevare come non sia forse un caso che oggi all’interno del GOP alcuni movimenti anti-sistema (a partire dal Tea Party) accusino Jeb di essere sostanzialmente una sorta di feudatario, pronto ad essere espressione esclusiva dei “poteri forti”.
Ma i problemi per i due non si fermano certo qui. A fronte del fatto che Jeb venga visto nell’ambito del suo schieramento ancora troppo a sinistra su tematiche come l’immigrazione, Hillary ha dal canto suo grattacapi assai peggiori. La questione di Bengasi, lo scandalo delle email e una certa torbidezza attorno ai finanziamenti in favore della Clinton Foundation: da giorni la stampa statunitense si sta letteralmente scatenando contro l’ex Segretario di Stato con accuse pesanti che vanno dall’inettitudine al conflitto di interessi.
Lo scontro che sembra profilarsi all’orizzonte sembrerebbe essere dunque quello tra le due dinastie dei Clinton e dei Bush (come già avvenne nel 1992). E le prime scaramucce tra i due sono iniziate proprio ieri, con Jeb che ha accusato la rivale di scarsa trasparenza sulla vicenda delle email, definendola “sconcertante”. Dal canto suo Hillary non sembra al momento impegnarsi troppo nel difendersi, scegliendo una strategia più attendista, in attesa che passi la bufera.
Solo il tempo ci dirà se dovremo rassegnarci ad un ennesimo scontro dinastico o se potremo invece magari sperare nel sorgere di una novità vera e potente: se potremo assistere a quel cambiamento liberale e meritocratico che lo Zio Sam ha sempre (pur tra mille contraddizioni) rappresentato o se dovremo sorbirci un’altra estenuante e deprimente Guerra delle due rose.
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