Oltre 15 milioni di cileni sono chiamati oggi alle urne per approvare o rigettare la nuova costituzione. Il fronte del no è in vantaggio e ha più di un valido motivo per rispedire la stravagante bozza al mittente.
Quella che i cileni si apprestano a votare è una proposta, per essere gentili, fin troppo eclettica per essere considerata la legge fondamentale di uno Stato. La prima cosa che colpisce anche il lettore più inesperto è l’eccessiva lunghezza: 388 doviziosi articoli e ben 57 disposizioni transitorie contro i 143 articoli e le 49 disposizioni transitorie della Costituzione cilena vigente o i 139 articoli e le 18 disposizioni transitorie e finali di quella italiana, considerata tra le più programmatiche d’Occidente con il suo respiro socialdemocratico. Questo semplice segnale ci suggerisce già qualcosa sul contenuto del testo prima ancora di leggerlo, in quanto è il primo sintomo dell’ipertrofia normativa, condizione tipica di una rappresentanza parlamentare orientata maggiormente a sinistra.
Il primo sguardo, in tal caso, non ci ha ingannati: la nuova proposta cilena, infatti, è massimalista, superba e persino incoerente, poiché vorrebbe unire un Paese ma rischia di dividerlo ulteriormente tanto sul piano istituzionale (“Estado plurinacional”), quanto su quello valoriale (aborto, ecologismo, animalismo, contrattazione collettiva etc.), anziché aspirare alla massima trasversalità possibile. Incoerenza e frammentazione finanche sul piano tecnico-giuridico, considerando l’enorme sforzo dei giuristi cileni – giammai sufficiente in un clima ideologico e populista come quello in cui si è ritrovato il Paese andino all’inizio di questo amaro decennio – nel ricomporre le materie e appianare le diverse antinomie in un calderone di undici capitoli tra i quali sono mescolati organi dello Stato e rispettive attribuzioni.
Credere che i sentimenti politici debbano totalmente sparire dal testo costituzionale è certamente impensabile, ma l’Assemblea costituente cilena è andata ben oltre il mandato plebliscitario con il quale il popolo cileno auspicava di raggiungere un modello che potremmo definire socialdemocratico, forse di cultura europea, almeno per quanto riguarda i diritti socio-economici. La Costituzione deve parlare a tutti anzitutto dell’essenziale (norme fondamentali inderogabili come il diritto alla vita, l’uguaglianza davanti alla legge, la libertà d’esercizio delle confessioni religiose senza imporre tributo etc.), con semplicità e chiarezza, in modo da coinvolgere tutto il popolo nello sviluppo sociale, permettendogli di creare progressivamente un percorso politico maturo e condiviso, senza catapultarlo dalla sera alla mattina in assetti che gli sono completamente estranei.
La bozza cilena propone inoltre una forma di Stato più complessa e ramificata rispetto alla Costituzione vigente: Le Regioni e le municipalità godrebbero di un livello di autonomia capace di incrementare la burocrazia e il costo dello Stato-Amministrazione in maniera spropositata.
Già il preambolo con cui si apre la Propuesta è tutto un programma:
“Nosotras y nosotros, el pueblo de Chile, conformado por diversas naciones, nos otorgamos libremente esta Constitución, acordada en un proceso participativo, paritario y democrático.”
Oltre all’ossessione del paritarismo linguistico (- as, – os), che ormai è entrato anche nel diritto (o dal diritto s’impone sulla grammatica), si ripresenta la novità socialista boliviana con l’Estado plurinacional (Costituzione boliviana del 2008) che, oltre a non essere un concetto giuridico, divide la Nazione cilena (indiscutibilmente una agli occhi del Mondo e della storia) e indebolisce il concetto di Stato unitario, minando il futuro dell’assetto istituzionale cileno. Un conto è garantire la coesistenza di popoli e culture differenti, riconoscendo, tutelando e conservando le minoranze (etniche, linguistiche etc.), un altro è riconoscere l’esistenza di nazioni che tali non sono e mai lo sono state.
Art.5, I-II: “Chile reconoce la coexistencia de diversos pueblos y naciones en el marco de la unidad del Estado. Son pueblos y naciones indígenas preexistentes los Mapuche, Aymara, Rapanui, Lickanantay, Quechua, Colla, Diaguita, Chango, Kawésqar, Yagán, Selk’nam y otros que puedan ser reconocidos en la forma que establezca la ley.”
Con l’art.18 Capitolo II (“Derechos fundamentales y garantías”) della bozza costituzionale, i neo-padri costituenti cileni hanno raggiunto l’apice della stramberia giuridica:
“La naturaleza es titular de los derechos reconocidos en esta Constitución que le sean aplicables.”
Parliamo di proprietà che sono tipiche della persona umana e non di un’entità talmente astratta e generica come la natura (intesa come sistema totale di tutti gli esseri viventi, animali e vegetali e delle cose inanimate) che si estende ovunque e che, priva di personalità, non può essere confusa con la persona umana.
Certamente apprezzabile è l’attenzione riservata dallo Stato cileno ai rapporti internazionali: tra i limiti imposti all’Assemblea costituente c’è il rispetto dei trattati internazionali ratificati dal Cile e ancora in vigore. Ciò premesso, si rischia comunque di cadere nell’incertezza quando si utilizzano princìpi e concetti non pienamente determinati nel contenuto costituzionale. La svolta a sinistra del popolo cileno non poteva che provocare importanti conseguenze in materia di diritti di proprietà privata (v. diritti d’uso dell’acqua e delle materie prime o il regime di espropriazione), tuttavia, non sono tanto le singole scelte quanto, in generale, la mancanza di certezza del diritto ad allontanare gli investitori da un Paese. Pertanto, già avere un progetto costituente ciclopico che non offre un preciso ordine gerarchico nell’applicazione delle norme costituzionali comporta una serie notevole di problemi.
Secondo il noto centro studi cileno Instituto Libertad y Desarollo, la proposta indebolisce gravemente le basi della democrazia rappresentativa, portando il Cile ad una democrazia identitaria con un Parlamento frazionato. L’Assemblea costituente non dimostra fiducia nel sistema dei partiti politici e privilegia un’architettura che incoraggia l’atomizzazione, anziché plasmare grandi maggioranze. Il sistema progettato cerca di radicalizzare il dibattito parlamentare dando continuità permanente alle regole elettorali che erano applicabili alla Convenzione. I seggi riservati ai popoli indigeni risultano sovradimensionati, comportando ulteriore frazionamento e permettendo alle forze più estreme di bloccare il dibattito e i processi di riforma, nonché l’alternanza del potere. Con il nuovo sistema si rischia di produrre nuovi conflitti anche tra il Presidente della Repubblica e il Parlamento, in qualità di co-legislatori. Ciò può avvenire con l’iniziativa di leggi di necessario concorso presidenziale e con la regolamentazione del veto dell’Esecutivo. Il disegno istituzionale priva la Camera delle Regioni della possibilità di dibattere su temi di grande rilevanza per i cittadini (pubblica sicurezza, diritti patrimoniali, sicurezza sociale, regolamentazione del lavoro etc.). In questo modo si genera un potere eccessivo e senza contrappesi, interni ed esterni, per il Congresso dei Deputati.
Sul fronte dell’ordinamento giudiziario, viene compromessa gravemente l’indipendenza dei giudici proponendo la creazione di un Consiglio di Giustizia che, con i giudici in minoranza, concentrerà anche i poteri di nomina, valutazione e revoca dei magistrati. Pertanto, si teme un indebolimento nella protezione dei diritti e delle libertà. Inoltre, con la creazione di vari sistemi giudiziari nazionali e indigeni senza limiti giurisdizionali ben definiti, si rischia discriminazioni arbitrarie, disuguaglianze davanti alla legge e grave incertezza.
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