Elenchi parziali e incompleti dal decennio pop
Il testo è stato pubblicato su Pièra n.6 del Settembre 2017, nella sezione curata da Simone Gobbo.
Per alcuni di noi gli anni 80 sono il ricordo dell’infanzia, un ricordo mediato dalle narrazioni di chi ci ha preceduto, visto che, per i nati in quegli anni, le reti televisive commerciali e i cartoni animati giapponesi, le spalline delle giacche, i trucchi sgargianti, Michael Jackson e Madonna, il Napoli di Maradona, il Milan degli olandesi e Michel Platini, erano, tutti, dati di fatto e non episodi di rottura rispetto ai decenni precedenti. Li conosciamo, dunque, attraverso gli occhi dei bambini che eravamo.
Per questa ragione l’architettura degli anni 80 potrebbe essere, per la nostra generazione, più ostica rispetto a quella di altri decenni: ci frena l’assenza di necessario distacco, come se si parlasse di un famigliare, e la nostra contemporanea mancanza di interesse e di studio, in quegli anni, della disciplina architettura, in un senso professionale.
Scrivere sugli anni 80 in architettura diventa allora, per me, una tentativo di comprensione, un viaggio di scoperta personale e per questo, forse, caotico: provo dunque a costruirne degli elenchi incompleti ma numerosi, brevi litanie che potrebbero sembrare slegate le une alle altre, ma che mi pare possano definire dei flash di intendimento tardivo, lungo una linea tortuosa.
Cosa, forse, si pensa degli anni 80
Spesso si immaginano gli anni 80 come il decennio del Post Moderno più legato ad una ripresa delle forme storiche dell’architettura classica, forse perchè, in effetti, si aprono con la prima edizione della Biennale di Architettura di Venezia (1980), presentata con un titolo manifesto, La presenza del passato, che pare raccontare un particolare rapporto, appunto, con la storia dell’architettura.
La Biennale del 1980 avrebbe dovuto essere un punto di partenza per una nuova fase del Post Moderno, capace di marcare il decennio con una sensibilità unitaria, ma è stata forse il canto del cigno di questo approccio al progetto: mentre già sul finire degli anni 70 si costruiscono o si progettano alcune delle opere più simboliche (il grattacielo AT&T di Johnson e Burgee, la Piazza d’Italia di Moore, la Neue Staatsgalerie di Stirling), i primi anni del decennio vedono sfumare l’interesse verso questa sensibilità, tanto che, a chiusura degli 80, un approccio che pare antitetico prende il sopravvento, con la mostra Deconstructivist Architecture al Museum of Modern Art di New York (1988), i cui invitati diventeranno, negli anni a seguire, parte del sistema delle ArchiStar.
L’Italia rimane per molti anni una sorta di riserva protetta di questa ricerca verso una iconicità geometrica, classicheggiante ma ironica, che predilige la densità di citazioni raffinate e popolari, a scapito spesso di una empatia nei confronti dello spazio architettonico (con, per esempio, i progetti di Aldo Rossi o del gruppo Memphis).
Rimasta un po’ in disparte nei decenni successivi, questa ricerca ritorna oggi, spesso in una forma grafica (come nella rivista San Rocco o nei disegni di Servino), ma anche con una ripresa di questa sorta di rivisitazione ironica nei progetti di FAT Architecture o in alcuni (meno ironici) di Steven Holl.
Intermezzo 1: elenco dei brani citati in Cuccurucucù di Franco Battiato (in La voce del padrone, 1981), in ordine cronologico
– Tomás Méndez, Cucurrucucú paloma, 1954;
– Chubby Checker, Let’s Twist Again, 1961;
– Mina, Le mille bolle blu, 1961;
– Milva, Il mare nel cassetto, 1961;
– Bob Dylan, Like a rolling stone, in Highway 61 Revisited, 1965;
– Bob Dylan, Just like a woman, in Blonde on Blonde, 1966;
– Beatles, With a Little Help from My Friends, in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967;
– Beatles, Hello, Goodbye, 1967;
– Rolling Stones, Ruby Tuesday, 1967;
– Nicola di Bari, Il mondo è grigio, il mondo è blu, 1967, cover di Éric Charden, Le monde est gris, le monde est bleu, 1967;
– Beatles, Lady Madonna,1968.
Franco Battiato ci introduce ad una sorta di follia citazionista, che non si accontenta di mescolare brani che abbracciano vent’anni di storia musicale, ma aprono al mondo della letteratura (Cantami o Diva; l’ra funesta), dell’antropologia (i pellerossa americani; i profughi afghani), del cinema (La ragazza dalla pelle di luna), dell’astrologia (la Luna e Urano nel Leone) e ancora altro, in un circolo infinito di rimandi; una intricata matassa di pensieri e parole che fiondano l’ascoltatore in una vertigine uditiva, che ritroveremo, ancora, solo nel 1996, nel brano Irata, dei CSI, che faranno dialogare in musica Fenoglio e Pasolini.
Battiato, insomma, costruisce un manifesto/esempio di manipolazione del passato, più o meno antico, capace di trovare vigore nuovo proprio in questa ottica di ri-arrangiamento di opere precedenti, in un continuo gioco di remix di spunti storici, come una costante messa in discussione della produzione artistica, che necessita di una presa di visione multipla, di una moltiplicazione infinita di significati.
Alcune cose che succedevano negli anni 80
Il titolo della Biennale curata da Portoghesi, in realtà, nasconde una delle caratteristiche più importanti dell’esposizione stessa, ossia la grande eterogeneità degli invitati e il marcato eclettismo dei progetti in mostra, che conduce l’esposizione verso differenti linee di ricerca.
Gli anni 80, che spesso ci appaiono come un insieme coeso di metodi, sensibilità e ricerche, sono, in effetti, crogiolo di inedite modalità di progetto, capaci di fiorire e diventare approcci dominanti negli anni a venire.
Qui si elencano, in estrema e parziale sintesi:
- l’investigazione sulle implicazioni della tecnologia applicata all’architettura, con progetti come la torre dei Lloyd’s di Londra di Rogers (1986), figli diretti del Centre Pompidou (1977), ma che si rifanno soprattutto alle ricerche dei metabolisti giapponesi e dei radicali europei;
- l’influenza di un approccio diagrammatico al progetto, nel quale si tendono a forzare gli aspetti logistici e programmatici dello spazio, favorendo i fertili incidenti tra funzioni, forme, flussi, in una sorta di estetica dello scontro, apparentemente casuale, di elementi, che possiamo ritrovare, soprattutto, in quello che sarà il Deus ex machina dell’architettura contemporanea, Rem Koolhaas (l’emblematico progetto del Parc de la Villette è del 1983);
- la ricerca scultorea, che tenta di liberare le forme dell’architettura verso una totale empatia nei confronti dello spazio, anche a scapito del programma funzionale, che raggiungerà il suo culmine sul finire degli anni 90 e poi oltre, ma che vede già al lavoro alcuni progettisti in questi anni (il progetto Peak a Honk Kong di Hadid, del 1983; il museo Vitra di Gehry del 1989);
- i primi esperimenti sulla matericità dell’architettura, sui rivestimenti, sulle texture, su una scarnificazione formale dello spazio, ripresa dalle ricerche artistiche della Minimal Art, che vedranno negli svizzeri Herzog and De Meuron gli esponenti di spicco (il magazzino Ricola è del 1986).
Nonostante queste numerose ricerche, sotto traccia, con un riverbero che si esprimerà in piena potenza solo molti anni più tardi, si possono osservare altri progetti, capaci di smarcarsi dalle ricerche di maggiore tendenza degli anni 80 e di traghettare l’architettura direttamente in un futuro più lontano, ai giorni nostri, con un balzo temporale che va dagli anni Settanta al presente, come saltando, direttamente, il decennio in cui nascono: sono ricerche che possono ancora, oggi, dare voce ad una architettura innovativa, che si smarca dal revival del passato ma affonda in profondità nelle radici dell’architettura stessa.
Per capire l’origine di questi progetti, però, bisogna fare un passo indietro.
Nel decennio precedente: prove di azzeramento sull’architettura
Durante gli anni 70 tre figure paiono lavorare su un concetto di azzeramento della dimensione corrente dell’architettura o, meglio, del concetto stesso di modifica dello spazio, in senso storico, territoriale, etnografico. Saggiano il paesaggio con scarni elementi che riescono a modificare fortemente l’architettura dei luoghi nei quali si trovano, sperimentando configurazioni quasi primitive dello spazio, per riappropiarsi di una dimensione più autentica dell’architettura stessa.
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Nei deserti spagnoli, Ettore Sottsass, con una serie di installazioni minime raccolte sotto il nome di Metafore, sonda le possibilità di esistenza di architetture schematiche, lievi tracce nel paesaggio costruite con corde, tessuti, sottili montanti di legno. Sono, più che spazi costruiti, intenzioni spaziali, che acquistano una densità di significato profonda grazie a suggestivi titoli: È molto difficile disegnare un pavimento lucido, quasi un miracolo; Disegno di una porta per entrare nell’ombra; Vuoi sederti al sole… O vuoi sederti al sole.
E’ come se Sottsass cercasse di arrivare ad un grado zero dell’architettura, ma senza perdere la raffinata ironia che contraddistingue i suoi lavori; così facendo interseca piani di lettura differenti, che riescono a porre l’accento, di volta in volta, sui diversi elementi che compongono l’architettura stessa, come l’ingresso, il passaggio, la scala, la copertura, il muro, la trabeazione, sondando in profondità l’essenza del progetto, delle sue ragioni, delle sue necessità fondamentali.
Qualche anno prima, in Svizzera, un giovane Peter Zumthor ripercorre, idealmente, le orme di Carlo Mollino, che intorno al 1930 osserva, rileva e disegna architetture rurali tipiche delle valli Gressoney e Valtoumenche, costruendo un personale dizionario di tipologie costruttive, dettagli, materiali, spazi, decori.
Dal 1967 ho ricevuto una specie di educazione etnologica in storia dell’arte, passando dieci anni al Dipartimento per la Conservazione dei Monumenti nel Cantone dei Grigioni. Dieci anni trascorsi a guardare fattorie, a osservare insediamenti. Ho scritto un paio di libri sull’argomento. Facevo inventari, studiavo le strutture degli insediamenti storici e controllavo forme d’arte all’interno di edifici storici. Per esempio, le decorazioni sulle facciate delle fattorie, i graffiti in Engadina. Era un modo di imparare la storia dell’arte partendo dal basso. Studiavo architettura vernacolare. È stata un’esperienza fantastica e formativa. (Intervista di Francesco Garutti a Peter Zumthor, in Klat #05, primavera 2011).
L’architetto svizzero definisce, così, un rapporto nuovo con la storia dell’architettura, profondo, non legato ad una formalità iconica, che tratta il passato come un feticcio, ma come materia organica, che evolve nel tempo, a seconda delle necessità, dei limiti e delle opportunità che l’ambiente offre.
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Nei primi anni 70 Richard Serra costruisce un’opera capace di modificare il tragitto stesso della storia dell’architettura, ampliando il range delle possibilità progettuali, allargandolo a questioni paesaggistiche, integrando, dunque, spazio esterno e interno. E’ una modalità inedita, che implica un ripensamento di cosa sia architettura, poiché abbatte le separazioni tra edificio e territorio, coagulando il progetto entro una idea di opera totale: lo fa attraverso la serie di sculture Pulitzer Piece, Stepped Elevation, mostrando come elementi opportunamente giustapposti nel paesaggio permettono allo spazio di acquisire una consistenza che è più che fisica, che diviene una materia mentale e che non necessita di indicazioni di limiti tangibili. Lo spazio individuato dalle sculture di Serra è, così, tenue, impalpabile, ma assolutamente deciso, ben definito.
L’artista americano costruisce dunque una topografia nuova del territorio, sottolineando e deformando le caratteristiche intrinseche del paesaggio.
La questione non riguardava più il posizionamento di un oggetto autonomo in un campo ma piuttosto un modo di vedere delle cose fra delle cose. […] In tutti i miei lavori nel paesaggio voglio stabilire una dialettica tra la percezione che si ha di un luogo nella sua totalità e quella che si ha in relazione al campo dove si cammina. (Richard Serra, Questioni, contraddizioni, soluzioni, in Eduardo Cicelyn, Mario Codognato, Serra, 2004.)
Intermezzo 2: Numero di volte in cui è ripetuto il titolo nella canzone Just Like Honey, di Jesus and Mary Chain (in Psychocandy, 1985)
Diciassette.
Esattamente a metà degli anni 80 anche Jesus and Mary Chain operano una sorta di azzeramento nella storia della musica, attraverso l’ossessiva ripetizione del titolo della canzone. Definiscono, così, un moderno ritmo tribale, un territorio di musicalità cadenzata, continua, che rapisce i sensi dell’ascoltatore, come in una preghiera.
E’ musica punk, minimale e raffinata, dirompente ma accogliente allo stesso tempo, capace di creare un’atmosfera legata ad un sentire quasi primitivo; come un ritorno all’origine della musica, il riverbero degli strumenti pare raccontare l’eco di una caverna, dove tutto è ovattato e il suono riempie il vuoto dello spazio.
Altre cose che succedevano negli anni 80
Come a continuare il senso delle precedenti ricerche, tre progettisti tracciano, durante gli anni 80, percorsi inediti per l’architettura, rimettendo in discussione significati, modalità, contenuti, forme, ma provando, sempre, a proporre un inizio, una sensibilità nuova, che si possa affrancare da ciò che è a lato dell’architettura (la citazione, la tecnologia, il diagramma, la deformazione spaziale), ma che in questi anni pare essere il discorso predominante.
Lacaton & Vassal: Cos’è l’architettura
Searching for and deciding upon the site took six months, the building work two days.
The wind took two years to destroy it. (dal sito Lacatonvassal.com)
Nei primi anni 80 Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal si trasferiscono a Niamey, in Nigeria, dove risiederanno per cinque anni; qui, nel 1984, costruiscono la propria abitazione: in cima ad una duna, godendo della frescura del vicino corso d’acqua.
Operano rifondando, con minimi elementi, l’idea stessa dell’architettura, o, meglio, ripartendo dalle necessità fondamentali che hanno “creato” la disciplina: proteggersi da condizioni climatiche avverse, approfittando di quanto l’intorno offre.
Passano dunque la maggior parte del tempo dedicato al progetto a cercare il luogo esatto dove l’architettura può sorgere, definendo un ambito di possibilità: all’interno di questo ambito, lievi modifiche (come quelle che apportava Sottsass al deserto spagnolo) riescono a trasformare radicalmente lo spazio naturale.
Tre ambienti concentrici disegnano una profondità di intimità, metafora stessa di una protezione sempre maggiore: un cerchio interno, nucleo chiuso dove dormire; un recinto esterno, dove svolgere le attività domestiche; una pensilina, capace di catturare i venti, incanalarli al di sotto di essa, e, contemporaneamente, di essere segnale e spazio per il territorio non domestico, come un soggiorno all’aperto.
Con materiali grezzi ed elementi strutturali irregolari, quasi di fortuna, Lacaton & Vassal riescono a impreziosire il paesaggio nigeriano, incastonando una gemma nella sabbia cocente: da qui l’architettura può nuovamente partire, per trasformare il mondo.
Peter Zumthor: La presenza, reale, del passato
Nel 1986 si concludono i lavori per la copertura di resti romani a Chur, nei Grigioni svizzeri.
Peter Zumthor si relaziona con una immagine di classicità storica evitando di usare la storia stessa come una sorta di talismano o riproponendo elementi storici in un gioco di citazioni; ripensa, bensì, ai sistemi che hanno dato consistenza al racconto dell’architettura: la soglia/ingresso; il corridoio/passaggio; il tetto/lucernario; la finestra/scorcio e panorama; la scala/raumplan.
Le forme degli edifici paiono relazionarsi con l’intorno in cui si trovano, più che con i sottostanti resti romani, costruendo un paesaggio a piccola scala delle alte montagne circostanti e incombenti, ma il tutto appare permeato da una incredibile levità: i volumi-scala dell’ingresso e i gradini di discesa al terreno archeologico non toccano mai il suolo; i passaggi tra i volumi sono intelaiati da strutture di metallo leggere, che strutturano lo spazio con geometrie impalpabili; i lucernari, che sovrastano la copertura, sono in realtà superfici che inquadrano il cielo, smaterializzando la loro apparente pesantezza in un flusso di luce; le vedute dall’estero all’interno paiono bucare l’edificio con forza, necessitando di grandi cornici, come per catturare la veduta dell’interno, che pare sfuggire verso il panorama esterno.
L’architetto svizzero, dopo un apprendistato fertile nell’analisi dei caratteri fondamentali di una storia dell’architettura super locale, riesce qui a costruire uno spazio a-storico, eppure pienamente immerso nelle profondità della storia dell’architettura, in continuità con il passato, narrando del futuro.
Enric Miralles, Carme Pinòs: Il territorio nuovo
Il cimitero di Igualada, frutto di un concorso vinto da Miralles e Pinòs nel 1985, è una concrezione topografica che costruisce un territorio nuovo, modificando radicalmente l’ambiente naturale attraverso i nuovi input dati dal progetto architettonico.
E’ una creazione dello spirito, un unicum inscindibile di architettura, urbanistica, paesaggio, nel quale i muri, i passaggi, le coperture, le recinzioni, gli apparati espositivi, le sedute e gli elementi naturali lavorano come un insieme organico, un corpo vivo che trascende l’architettura, per farsi territorio, non importa più se naturale o antropizzato.
Entrare in questo luogo significa addentrarsi in un universo parallelo, dove le curve del paesaggio assecondano e favoriscono i movimenti umani, creando differenti livelli di percorso, che permettono al visitatore di osservare il luogo in cui si trova da differenti punti di vista, in un gioco complesso di scoperta dello spazio.
La morte, elemento imprescindibile di ricordo ed esposizione, diviene qui una compagna positiva, che guida il cammino, ma non lo forza, donando serenità al visitatore, che sente fluire la vita stessa nelle forme morbide dell’architettura, ricordando il parco Güell, riferimento costante del progetto, che nelle parole di Miralles si riallaccia a quanto visto con le opere di Serra: linee invisibili, impalpabili, che però riescono a modificare radicalmente, seppure con pochi elementi, la topografia del territorio, la sua essenza, le sue principali caratteristiche.
¡Esto es lo que me gusta del Gaudí del parque Güell! El saberse apoyar en las líneas invisibles, como las diseñadas por el fluir del agua, por el moverse entre las sombras, del aire. Estas líneas invisibles son un poco como aquellos prototipos estructurales absolutamente magníficos que Gaudí sabía hacer y que indican esa parte fundamental de la arquitectura que, una vez terminada la construcción, ya no se verá. Así me gustaría que se interpretasen nuestros diseños: como si fuesen prototipos estructurales, soportes transparentes de una arquitectura que, una vez construida, se llene de los fenómenos naturales, de las sombras, del aire, del fluir del agua. (Intervista di Benedetta Tagliabue a Enric Miralles, in L’Architettura Cronache e Storia n. 409, 1989)
Bonus track: Minuti di intro strumentale in Plainsong dei Cure (in Disintegration, 1989)
2’37”
(Il cantato dura 1’06”; la canzone, in totale, 5’17”)
Un’intensa poesia minima che trasporta in un territorio altro, introdotta, mediata e conclusa da un sentiero musicale quasi barocco, eppure, incredibilmente, discreto, sottotono, triste.
Then you smiled for a second: un racconto a più voci, distorte, con un riverbero profondo, che rende il cantato quasi incomprensibile, come a richiedere la maggiore attenzione possibile all’ascoltatore, la massima empatia verso una vicenda così intima, ma quasi soprannaturale.
I Cure, sul finire del decennio, provano a chiudere un’epoca con una traccia densa, magmatica, ma non più di citazioni e riferimenti, come fa Battiato, e nemmeno di sola atmosfera, come i Jesus and Mary Chain; operano una sintesi, come i tre progettisti visti prima, di alcune istanze del decennio, ma in continuità con ricerche degli anni 70: qui la sinuosità della musica, forse influenzata dal lavoro dei Pink Floyd, è capace di permeare tutti sensi di chi ascolta, trascinandoci in una dolcezza che pare non finire, da assaporare con una estrema lentezza, come a godere di un decennio ambiguo, eppure molto fertile.
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