A questo mondo sconvolto dalla pandemia guardano dalla città in cui vivono. Se possibile, la più trasfigurata di tutte, Venezia. Ila Bêka e Louise Lemoine sono una coppia di artisti e film-maker italo-francese (italiano del Friuli lui, francese di Bordeaux lei) con all’attivo trenta lavori. I loro interessi spaziano ma ruotano attorno, in particolare, alle città, agli umani che le abitano o che le rifiutano, per abitare altrove. La loro opera integrale è stata acquistata pochi anni fa dal MoMa di New York, per la collezione permanente: evento rarissimo per artisti in attività. La loro dunque è una voce significativa, che esprime uno sguardo attento sia sulle città chiamate al cambiamento e scioccate dall’epidemia, sia sul mondo dell’arte globale, che per definizione dovrà cambiare pelle. Ila Bêka fotografa così, il quadro di partenza:
“Oggi, l’unica certezza globale e condivisa è l’incertezza. Non eravamo più abituati a non sapere come muoverci, a navigare a vista”. “In questi anni siamo stati molto occupati dall’insegnamento alla AA School di Londra, ma ora, passando all’insegnamento online, l’impegno è diventato ancora più importante. Sembra che nei periodi d’incertezza il tempo si restringa…”, dice Ila.
“Come ogni casa di produzione” gli fa eco Louise “c’è un periodo di vendemmia, e un periodo di post-produzione. In questo momento siamo in pieno nella post-produzione, ovvero il lavoro su materiali già raccolti prima”. Ma ci sono situazioni, “modelli di business” e di società che questa separazione non la contemplano.
Il caso di Venezia è paradigmatico. Una città ormai fondata solo sulla monocultura turistica che oggi si trova spiazzata, senza economia, senza prospettive. Un paradiso per chi ci vive e se ne riappropria?
“Un paradiso forse per noi, ma attorno sentiamo e vediamo la catastrofe” prosegue Ila.
“Resta da capire” dice Louise “se Venezia può ancora immaginare un’economia diversa, più mista, se è ancora in grado di tornare indietro”.
“Un vero cambiamento potrebbe verificarsi solo se un blocco dovuto a vincoli esterni, come questo, durasse dieci anni. Perché già adesso si sente invece la voglia di tornare al più presto al business as usual, e anche in maniera più violenta di prima, quasi a voler recuperare”, osserva Ila.
Un mondo, quella della progettazione e delle costruzioni che seguite da anni, e osservate da vicino.
“Certo” spiega Ila. “Abbiamo realizzato un progetto, Homo Urbanus, costituito da 10 film di un’ora ciascuno centrati su quanto gli esseri umani siano influenzati dall’ambiente urbano in cui vivono. Ovviamente intendendo per città anche il sistema di relazioni massive che la caratterizzano. È interessante ripensare, proprio adesso, alla lettura che possiamo dare della città. È quasi straniante pensare a quanto sia completamente diversa rispetto a quella percepita e vissuta fino a pochissimo tempo fa, quando giravamo questo lavoro”.
Le città sono luoghi radicalmente diversi, rispetto a un passato pure così vicino. I luoghi sono identici, il loro significato completamente diverso.
“Esatto, e il cambiamento è un cambiamento connotato dall’ansia ”, ragiona Louise. “Perché ciò che prima era normale – l’incontro, la massa, il contatto – è tutto ciò che oggi è vietato, spaventoso, pericoloso. Le città costruite sulla riduzione degli ingombri e sulla riduzione degli spazi e delle distanze sono diventate le più pericolose. Insomma, si sono rovesciati i connotati della città, delle città costruite esattamente attorno alla possibilità/necessità di incontrarsi, e tutto questo emerge in maniera ancora più forte riguardando adesso i nostri film”.
“È interessante confrontarci” prosegue Ila “con quelle città in cui senza macchina non si può vivere, città che sono all’essenza dell’anti-Venezia. Prendiamo posti come Los Angeles o Atlanta. La macchina lì diventa ora una protezione al virus. E così, proiettando all’estremo la situazione, finisce che la città che funzionerà meglio sarà proprio la città della macchina, fatta per le macchine, costruita completamente a misura di auto”.
O forse, la città che funziona meglio non è la città, è la “non città” fatta dei favoleggiati borghi in cui tutti dovremmo tornare, o andare.
“Ma anche in questo caso, servirebbe comunque una macchina. La Macchina. La macchina non solo per spostarsi, ma per proteggersi, per tenersi a distanza, per sopravvivere”.
Louise poi aggiunge:“ Una specie di esaltazione esponenziale del concetto di smart city, in cui dalla macchina puoi fare tutto”.
“Si sta realizzando appieno l’ideale, l’immaginario, della città moderna, la sua apoteosi: la città della macchina, in mano alle macchine”.
Della città moderna, non di quella contemporanea. Pensavo a Her, un film in cui tutti si spostavano a piedi, per poi trovarsi soli. Così soli che l’unica compagnia era artificiale.
“Immaginiamo che la mascherina” dice Ila “sia solo la prima fase che ci porti verso una protezione sempre più estrema, a cui poi si aggiunge una tuta, un esoscheletro, uno scafandro o addirittura una casa intera, portatile. Immaginiamoci un domani, in cui venga fuori un altro virus, ancora più pericoloso. A quel punto sarebbe normale per tutti pensare di spostarci come se fossimo su Marte, completamente coperti, protetti e totalmente irriconoscibili. O addirittura non uscire neanche più, restare a casa per sempre. La città domestica, la città del futuro.
“Sicuramente” prosegue Louise “è un’esperienza che ci porta nel cuore di ciò che avremmo chiamato fantascienza, ed è una marcia velocissima verso la de-corporizzazione. Perché è il corpo il problema. Così la relazione diventa totalmente immateriale: per le lezioni, per il lavoro, ma anche per gli incontri con gli amici”.
Personalmente, al secondo giro mi sono rifiutato di fare aperitivi su Zoom.
“Ma il sistema economico è sempre alla ricerca dell’efficacia e dell’efficienza, e anche stavolta le ha trovate immediatamente. E non saranno certo le nostre piccole obiezioni a sabotarlo. Noi, ad esempio in questo periodo stiamo facendo conferenze in giro per il mondo che in passato avremmo dovuto rifiutare per problemi logistici. Tre o quattro giorni di viaggio per fare una conferenza di un’ora, mentre ora ti colleghi cinque minuti prima dell’inizio e ti scolleghi appena finita. Incredibile!” Dice Ila. “Con il tutto digitale l’efficacia è aumentata e con la de-corporeizzazione delle attività” annota Louise “è addirittura esplosa! È vero che oggi per fare una conferenza ci vuole solo un’ora, ma ormai viviamo dentro al tunnel di Zoom, che Ila chiama “zoonnel”, più di 10/12 ore al giorno! L’efficacia è quindi un nodo fondamentale. In questi tempi stiamo diventando super-efficaci, dei robot da produttività estrema, ma contemporaneamente stiamo sacrificando tutto il resto, i rapporti umani, i rapporti improduttivi”.
Tra le dimensioni ancora poco indagate, ma sicuramente interessanti per sguardi laterali sulla realtà, c’è il fermo delle relazioni “informali” di ogni tipo, comprese quelle sessuali.
“Esatto.” prosegue Louise. “Pensiamo a città come Parigi, New York, o Londra, che avevano stabilito come centrale la figura sociale del single, una figura simbolo di libertà e di emancipazione. La sua libertà assoluta oggi è diventata una prigione. La città e chi la vive attraverseranno fasi profonde di riconfigurazione e di decostruzione delle proprie identità”.
“Pensiamo”, prosegue Ila “a un’altra qualità fortissima della metropoli: l’anonimato, ovvero posti in cui nessuno ti conosce o riconosce. Era una delle sensazioni più forti, più nette, che avevi in una grande città. Oggi tutti cercano di scappare dalle metropoli verso la campagna, ma tutto questo il borgo medievale o il paesino di campagna non possono offrirlo.
Nei vostri lavori avete incontrato personaggi eremitici che sfidavano già l’urbanesimo e la socialità: Moriyama, o l’impagliatore della Maddalena
“Esatto, personaggi che una volta erano considerati degli stravaganti, dei borderline, e ora in fondo le loro vite sono diventate un modello. E spesso sono proprio gli architetti a indicare la strada che porta gli umani fuori dalle città” dice Louise. “Va anche detto” aggiunge Ila “che gli architetti sono sempre bravi a spiegare come gli altri debbano vivere, dove, e in che condizioni. Quando poi vai a vedere dove vivono loro stessi, rimani sempre sorpreso…”
Usciamo da secoli in cui l’urbanesimo non è mai stato messo in discussione nelle sue fondamenta, neanche nei momenti peggiori, guerre, pestilenze, ecc. eppure stavolta sembra diverso, sembra per la prima volta che si possa discutere, forse del perché è la prima volta che le nostre generazioni scoprono un vero evento traumatico.
“Sì, anche perché c’è una differenza fondamentale tra guerra e epidemia. Qui non si vede il nemico, e questo toglie la certezza della sopravvivenza della specie che, almeno per le guerre convenzionali, non è mai stata messa in dubbio. Gli uomini accettavano di poter morire, ma mai di poter scomparire come specie” dice Ila. E poi, aggiunge Louise “la partita con l’epidemia non la finisci con un accordo politico”.
Visto che li abbiamo citati già diverse volte, che ruolo avranno gli architetti? A cosa servirà il loro lavoro?
“Il mestiere dell’architetto è sospeso su un equilibrio fragile” osserva Ila. “Da un lato c’è la vocazione a voler migliorare le condizioni di vita della comunità, dall’altro il vitale bisogno di clienti che paghino il conto. Ma questi ultimi hanno le loro esigenze il più delle volte condizionate dagli interessi economici, dal profitto, dal mercato.” “L’economia contamina l’idea” sintetizza Louise. “L’architettura ha sempre cercato di creare nuovi modelli di società in sintonia con gli interessi economici del tempo. La smart city per esempio può essere vista come uno di questi modelli più recenti. Personalmente darei quindi più fiducia a un filosofo che a un architetto, perché non ha bisogno di venderti qualcosa per vivere…” chiosa Ila.
Voi vivete di mobilità, nella mobilità, e avete conosciuto da vicino, da dentro, questa modalità globale di vita culturale che vive di eventi, presentazioni, incontri, mondanità. Come reagisce e reagirà il vostro mondo, il mondo, a questo grande cambiamento?
Louise: “Le trasformazioni delle relazioni sociali sono molto rapide e adattarsi è indispensabile. Ma tutto va nella direzione del consumo, più che della condivisione o della riflessione. Abbiamo visto una massa incredibile di contenuti riversati in rete e siamo arrivati presto alla saturazione. Testate importanti che fanno dirette Facebook o Youtube con invitati prestigiosi e che raccolgono solo una piccola dozzina di spettatori. E poi tutto di corsa, per inventarsi nuove modalità di monetizzazione di contenuti. Siamo sicuramente entrati in una nuova fase di internet che non sappiamo ancora gestire.
“In tutto questo” aggiunge Ila “qualcosa di molto interessante è anche il verificarsi dello scollamento tra il contenuto e la mondanità, intesa quest’ultima come l’espressione della potenza delle relazioni personali. Ebbene, questa modalità telematica fa forse esistere in prevalenza il contenuto. La mondanità si dimena, si agita, cerca ovunque, ma non ha ancora trovato il suo spazio digitale e così il contenuto si vede liberato dal sistema di relazioni che prima girava attorno all’evento che il contenuto stesso aveva generato. Onestamente per me questo va benissimo, la mondanità non era proprio il nostro forte” Ila ride “ma c’erano interi sistemi economici e culturali che si basavano esclusivamente su quest’ultima. Cultura e mondanità vivevano insieme, e per molti questo scollamento è diventato anche un guaio economico”.
Pensiamo proprio a Venezia, una città evento per eccellenza.
Louise sorride: “il cinico Ila vede la mondanità solo come un problema, ma sappiamo che c’è anche dell’altro, i grandi eventi sono occasioni d’incontro, di scambio di idee, di impressioni”.
“Se nel nuovo mondo” specifica il cinico Ila “la scomparsa della mondanità finisce col dare preminenza al contenuto, allora io vedo tutto questo come un’opportunità straordinaria, forse una tra le più importanti che questo virus abbia portato. Ma più che cinico mi vedo forse più come un ingenuo, perché questa effimera scomparsa non è probabilmente altro che un’illusione destinata ad andarsene via con il virus. E poi con la mondanità purtroppo scompare anche l’informalità, la casualità dell’incontro, l’imprevisto. A volte era tempo perduto, ma altre generava chimica, idee, corto circuiti. Adesso domina solo l’algoritmo e lo spazio per l’imprevisto è molto ridotto. Non mi è ancora capitato di incontrare qualcuno per caso su Zoom o Teams…”
“È vero, organizzando eventi online si fa fatica a raggruppare pubblico, perché spesso la gente partecipa in modo molto pragmatico, efficace, mirato, e poi se ne va quando vuole, senza neanche salutare” dice Louise.
“Io saluto sempre” aggiunge, ridendo, Ila. “Ma siamo solo all’inizio del processo, come se fossimo all’inizio di una nuova era. Ancora non sappiamo come sarà alla fine della parabola. Con alcune tecnologie già esistenti potremmo partecipare a diversi eventi online contemporaneamente, utilizzare degli avatar realistici completamente indistinguibili da noi, diventare finalmente ubiqui e controllare a distanza i nostri molteplici comportamenti liberandoci definitivamente del corpo. Un’ulteriore iperefficientizzazione della macchina, che dovrebbe suscitare da subito una domanda: ma a cosa serviranno, alla fine, i nostri corpi?”
Sito internet di Bêka & Lemoine
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