Moira Orfei e la paura della contemporaneità

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27 Ottobre 2014

L’immagine immutabile, moltiplicata sui muri in occasione delle feste natalizie, circola nelle menti di ognuno senza alcuna opacità. Gli occhi cerchiati dall’eye-liner, il sorriso al tempo stesso sensuale e materno (diretto a papà e figli) e l’inconfondibile chignon elefantiaco fanno si che chiunque pronunci il nome di Moira Orfei, abbia in mente esattamente il viso dell’unica circense famosa in tutto il mondo. Un’icona si direbbe, quindi. La sua immagine non è soggetta ad alcuna trasposizione, è ormai entrata nell’immaginario collettivo. Nella sua inquietante immutabilità, questa icona innesca una serie di stimoli che riguardano l’architettura e gli architetti, la salvaguardia e la trasformazione, la modernità e la contemporaneità. Lo spirito del movimento Moderno era quello di sostituire il vecchio, rappresentato anche dalla produzione accademica, in favore di un approccio che combinasse funzione e forma, eliminando inutili orpelli decorativi e abbracciando la fiducia nel progresso visto come un fattore di avanzamento non solo tecnico ma anche sociale. Gli architetti progettavano edifici ma anche stili di vita, disegnavano planimetrie ma anche nuove ipotetiche comunità che le avrebbero popolate. Le immagini delle 18 torri cruciformi di Le Corbusier nel centro di Parigi – per i meno esperti la proposta è passata alla storia come Plan Voisin – raccontano anche di una modernità “brutale” nei confronti della città consolidata, storica. Una modernità scevra da timori reverenziali perché in linea con il progresso e intollerante verso città igienicamente e tecnologicamente inadeguate alle nascenti esigenze. Il maestro francese presentò l’enorme diorama del Plan Voisin all’interno del padiglione dell’Esprit Nouveau (il “nuovo spirito”, appunto) alla fiera di Parigi del 1925. Una proposta provocatoria in un padiglione che riproduceva in scala reale le abitazioni in cui l’uomo nuovo avrebbe vissuto. Le macchine da abitare.   

Era il 1925, Moira Orfei sarebbe nata 6 anni dopo a Codroipo, Friuli.   

E’ inevitabile non pensare a lei rivedendo il padiglione dell’Esprit Nouveau ricostruito a Bologna nel 1977, in occasione della partecipazione francese al SAIE. Moderno allora e adesso venerato e visitato come la salma di Lenin in Piazza Rossa. Ricostruito com’era, ma non dov’era, con un’operazione che avrebbe fatto rabbrividire qualsiasi architetto se avesse riguardato un monumento neoclassico o eclettico. Perché l’architettura moderna attiva un cortocircuito con la contemporaneità difficile da risolvere. Un misto di feticismo – basti vedere i tour organizzati che assomigliano più a pellegrinaggi che a viaggi d’istruzione – opportunità di conoscere dal vivo un passato non vissuto e necessità di avere un conforto grazie a riferimenti tangibili. Una ricetta da cui difficilmente sembra possibile separarsi. Non è un caso se da qualche anno si parla di “restauro del moderno”, un’espressione ossimorica con cui si identificano le azioni volte a restaurare quegli edifici che propugnavano la “rottamazione” dell’antico e la sostituzione completa di un modo di vita radicato, stratificato, in favore di tecnologia e benessere, igiene e velocità. Perché si è capito che, nonostante fossero realizzate con un materiale che si pensava eterno, hanno una vita limitata e necessitano di una manutenzione costante. Insomma l’edificio che rottamava l’antico, lotta adesso affinché non venga eliminato. Talvolta sostenuto da una schiera di sostenitori che, pur di mantenere in vita la propria icona, la riproducono “più vera” di quanto fosse stata originariamente concepita. Nel 1980, l’architetto Oriol Bohigas – allora responsabile dell’urbanistica della città di Barcelona – affidò l’incarico a un gruppo di progettisti affinché ricostruissero il padiglione della Germania, ideato da Mies Van Der Rohe (un altro Maestro del Moderno) e realizzato nel 1929 per l’Esposizione Universale alle pendici del Montjuic. L’operazione si concluse sei anni dopo e il padiglione finale è figlio di un lavoro che ha migliorato degli aspetti – come l’impermeabilizzazione e lo smaltimento delle acque meteoriche, per esempio – che non erano stati sviluppati nel progetto originario. Migliore dell’originale, quindi.  

Era il 1980, Moira Orfei recitava una piccola parte nel film “Tornano i bersaglieri” con Ugo Tognazzi.

Il suo chignon era sempre corvino, il suo eye-liner sempre perfetto.  

L’aspetto curioso delle due vicende fin qui descritte risiede nel fatto che entrambi i manufatti non vennero distrutti da bombardamenti o vandalismo – e quindi il ricostruirli avrebbe avuto anche un forte valore simbolico – ma furono semplicemente smontati a conclusione dell’evento che li ospitava. Erano stati progettati con un’obsolescenza programmata che la contemporaneità non ha accettato. E pur di farli rivivere li ha riprogettati, correggendo gli elementi meno riusciti o poco importanti per un edificio effimero. La temporaneità è diventata permanenza. I padiglioni sono stati trasformati in icone viventi, reperti di un’epoca eroica che non c’è più ma che continua a sopravvivere nel presente. Certo, a scorrere la quantità di fotografie del padiglione spagnolo presenti su internet, viene il dubbio che si tratti più di una trovata di marketing urbano che di un’operazione di cultura architettonica. Che sfrutta con largo anticipo l’esigenza, in questi tempi così incerti, di avere dei punti di riferimento anche solo nominali. Un pò come rifare la Mini: una macchina non più dalle dimensioni ridotte ma che, grazie al suo nome, ha ancora un appeal spendibile sul mercato. In ogni caso, questo approccio – a fini commerciali o meno – testimonia di una contemporaneità che fatica a fare i conti con sé stessa, perché valuta il futuro più come minaccia che come opportunità. Non si spiegherebbe altrimenti la polemica che in questi giorni sta animando la città di Milano circa la possibilità che l’Expo Gate – ovvero i due padiglioni progettati da Scandurra Studio e posti davanti al Castello Sforzesco – possa rimanere anche dopo che la manifestazione planetaria sia finita. Un partito progressista ha addirittura indetto una petizione per scongiurare la ventilata minaccia. O forse, in questo caso, si tratta soltanto di un equivoco legato alla relazione che il manufatto ha con il contesto urbano? I due padiglioni ricostruiti a Bologna e Barcelona sono defilati rispetto ai centri storici e, a meno che non si vada apposta, è difficile notarli mentre l’Expo Gate è davanti gli occhi di tutti. E’ davanti a un monumento, quindi è “brutto”. Un sillogismo che non considera minimamente se l’edificio “funzioni” a scala urbana rendendo migliore e più vissuta una parte di città. Se, una volta smontati i padiglioni, l’area antistante il castello risentirà della mancanza di un catalizzatore di eventi e avvenimenti. Insomma, resta il dubbio che riuscire ad apprezzare il presente rispetto ai momenti “eroici” del nostro passato stia diventando la cifra stilistica della contemporaneità. La sclerotizzazione dei vincoli – architettonici, paesaggistici, urbanistici – va di pari passo, anche se nessuno lo ammetterà mai, con l’incapacità di vivere pienamente il presente urbano, fatto di spazi pubblici in contrazione e di isole private sempre più rifinite, raffinate, impenetrabili e fotografabili.  

E’ il 2014, Moira Orfei è diventata nonna. Il suo chignon è sempre corvino, il suo eye-liner sempre perfetto. Ma non si esibisce più, ha deciso di lasciare la scena a chi ha qualcosa da dire. Senza paura di essere dimenticata.

TAG:
CAT: Architettura e urbanistica, Milano, Qualità della vita

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