Giuseppe Sgarbi, l’assenza in amore: lei mi parla ancora

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18 Agosto 2020

Sono dettagli feroci, scrive in un bellissimo libro, “Entro nel tuo sonno”, Sergio Claudio Perroni, a farci comprendere l’assenza del nostro amore, la scissione, l’ineluttabile ed inesorabile separazione.

“Sono un pettine, sono un posacenere, sono il libro che lei teneva sul comodino e non leggeva mai, sono una di quelle cose da nulla che all’improvviso diventano giganti, quelle inezie da cui di colpo si sprigiona la tenerezza di una figura perduta, sono un brutto cuscino, il suo ombrello appeso all’ingresso per un inverno che non vedrà più la pioggia, l’interruttore su cui poggiava le dita entrando nella stanza, sono il correre sbadato della tua mano a qualcosa che non è più lì, sono la minuscola assenza, che richiama la presenza perduta, il niente che disegna l’enormità del vuoto, sono il moltiplicarsi dei gesti che fai per coprire il pensiero, per sviare il ricordo, e mi faccio rumore, frastuono, silenzio”.

Separarsi, lasciarsi, non parlarsi più, non ricercare il sentiero del perdono, la commendevole aspirazione a ritornare insieme, produce l’assenza dell’amore che se ne va, come un cane che non ha più un padrone.
È la condizione della prostrazione, come un lutto che non si metabolizza, non si elabora. Non si ha voglia di rinascere, di cambiare vita, di sostituire l’amato con un altro, come se fosse semplice: non si ricomincia, si pensa al passato, non si coniuga il futuro ed il presente non ha alcun significato.
L’assenza in amore diventa devastante, quando non si ha più la possibilità di un incontro, di un riavvicinamento. Questa condizione ce l’ha raccontata Freud in famoso articolo del 1917 , “Lutto e malinconia”: quando una perdita diventa incolmabile con la morte e non c’è più la speranza di riannodare le fila, chi subisce l’assenza si abbandona ad un’assoluta fragilità e lega il suo destino solo al ricordo, alla nostalgia. Si ha l’avvilimento del sé, la perdita di interesse per il mondo.
In questo caso solo il tempo può mitigare la ferita, rimarginarla.
Il lavoro del lutto è straziante, struggente, sollecitato dalla memoria di chi non c’è più.
Bisogna lavorare con il dolore, avere la capacità di sopportarlo, paradossalmente farlo rivivere, con il racconto, sino ad essiccare le lacrime. Sì, perché sono le lacrime il lago nel quale deve essere calata la nostra perdita.

“Lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore, come un giaciglio su cui trovo riposo”, ci rammenta nelle Confessioni Sant’Agostino.
È il percorso che dovrà affrontare chi tenta faticosamente di riaffacciarsi alla vita, rivedere una alba radiosa, perché il dolore ha consumato, rinsecchito il passato, come fiori chinati in assenza di luce.

“Quando l’esperienza giunge ad una fine, si interrompe: anche la comunicazione e la cura ne soffrono.Il lutto sconta la maturazione del sé”.

L’esistenza potrà ancora avere un significato, spiegato solo da un istinto di autoconservazione.
Zarathustra di Nietzsche portava sulle spalle l’acrobata caduto nel vuoto ed era ingobbito: potrà affrontare il suo destino solo liberandosene, raggiungendo il necessario oblio: seppellendo il dolore, non il ricordo dell’amore.
Ma ci sono anche quegli amanti (e sono dolcissimi e fanno piangere di gioia) che hanno poco da vivere, perché si attardano ad un’età avanzata: hanno dentro – e non può essere eclissato, andare via, rimosso – il grande amore.
Questi guardano al passato: lo ha scritto in un libro affascinante, che è un elegia d’amore, Giuseppe Sgarbi, “Lei mi parla ancora”: l’assenza parla, con il linguaggio del silenzio. Perché le parole sono come pesci deposti in fondo al mare, aspettano l’amo cui abboccare e si lasciano tirare su, per dare il significato alla vita che sta per andare via. E’ il passato che interessa al grande amore, vissuto nella costruzione della bellezza, fatta da entrambi.

Un giorno ci ritroveremo di nuovo e sarà bellissimo, le parole non serviranno più.”

scrive Giuseppe Sgarbi, papà di Vittorio, per ricordare 65 anni di amore con la di lei moglie Caterina Cavallini. Lui farmacista, lei collezionista d’arte di valore.
Questo amore assoluto e vissuto anche nella dolcezza del rimpianto sarà oggetto anche di un magistrale film di Pupi Avati.
In una frase significativa si raccoglie il messaggio del libro, scritto con gran cura:
“Di un futuro nel quale tu non ci sei, non so cosa farmene”.

 

Foto di Caterina Cavallini e Giuseppe Sgarbi

TAG: Giuseppe Sgarbi, letteratura
CAT: Arte, Letteratura

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