La rivoluzione della gentilezza
Il bullo è un egoista che non apprezza il punto di vista degli altri; sono dei carnefici per via della ferocia delle loro azioni. In realtà, il bullo è povero, è incapace di leggere le emozioni delle sue vittime: perché è una bestia, non ha neppure la contezza di sé.
La scelta di chiudersi e di prediligere un comportamento aggressivo, il più delle volte, è motivata da un percorso di crescita arido di amore, da un desertificazione emozionale, che importa solitudine e depressione.
Ecco perché la durezza apparente del bullo non si sfalda e sgretola con la violenza che gli va inflitta e con il potere coercitivo che si dovrà esercitare contro di lui, ma solo con la straordinaria gentilezza. Deve capire e deve essere persuaso, con la ragione gentile, che l’ arroganza e tracotanza non pagano, hanno uno scarto consensuale con la realtà difficile a colmarsi.
I maleducati, invece, sono quelli che ti superano in coda, ti rubano il parcheggio o lasciano la macchina sui binari del tram,sul marciapiede e se ne vanno per i fatti loro. Sono quelli che sui mezzi pubblici rendono forzatamente tutti i passeggeri partecipi alla loro conversazione telefonica e sono anche quelli che ascoltano la musica senza auricolari o che occupano mezzo vagone con i loro effetti personali.
Sono quelli che non salutano, perché hanno la spocchia: ma in fondo sono noiosi.
Non esiste più la gentilezza nelle relazioni: il rispetto dell’altro, la straordinaria capacità di predisporsi ad un ascolto in silenzio, per sentire le ragioni dell’interlocutore, è un fatto ormai raro.
Ma la gentilezza presuppone anzitutto la pazienza.
Dobbiamo avere chiara la consapevolezza che la vita è un turbinio di un cambiamento notevole: il giorno dopo non è mai uguale a quello di prima e le insidie ed i pericoli sono sempre in agguato, le cattive notizie arrivano sempre, è difficile pensare che una giornata possa trascorrere indisturbata, senza un problema o una questione da risolvere: la storia non è finita, è fatta di un precipizio in cui le cose cadono l’una sull’altra.
Ecco allora il significato della lezione universale: la gentilezza senza pazienza non si rivela. Bisogna allenare questa virtù, se si vuole avere un comportamento gentile, rimandando qualsiasi reazione impulsiva e mantenendosi calmi, neutri di fronte a ciò che succede.
Ma gentilezza è anche praticare l’arte dell’attesa: la frenesia ci ha privato della capacità di aspettare.
Corriamo inseguiti dall’ossessione delle scadenze, chiudendoci in un involucro e dimenticandoci degli altri.
Nella società globalizzata e iperconnessa il tempo si ristringe al «tutto adesso»: camminiamo o guidiamo mandando messaggi, leggendo le email o i nostri profili sui social.
Lo stesso accade mentre gustiamo un caffè al bar o quando siamo a cena.
E non godiamo del tempo che passa.
Non riusciamo ad aspettare, come se ci fosse sempre qualcosa che ci incalzi e ci obblighi a fare subito ciò che potremmo benissimo posticipare.
Il tempo della gentilezza invece è lento: perché implica riflessione e meditazione.
Flessibilità, non rigidità, in quanto chi è gentile cerca sempre di evitare la violenza, si pone in una torsione anche semantica e concettuale, perché deve stare attento alle parole, ai gesti, ai comportamenti, in modo da suscitare nell’altro l’attenzione al ripensamento, alla rieducazione sentimentale, alla riscoperta della razionalità.
Lo straordinario potere della gentilezza si esprime con la sontuosa allegria, che può anche declinarsi semplicemente con un sorriso o osservando l’altro, perché possa compiacersi della tua attenzione.
Quando sorridiamo, proviamo un senso di leggerezza e di gioia che ci aiuta a sintonizzarci prima con gli altri.
La gentilezza genera questo stato di benessere.
Quando facciamo qualcosa per qualcuno, per il piacere di farlo e non perché obbligati o perché ci sentiamo in colpa, il destinatario dei nostri gesti avverte che vi è una «predisposizione felice».
Gli atti gentili spontanei creano un vortice che genera gioia a chi li fa e a chi li riceve.
Basta cedere il posto in coda alla cassa al supermercato, o sul treno, o dare una mano a qualcuno con la sporta della spesa.
Piccoli gesti, per nulla impegnativi, ma che assicurano il pieno di sorrisi.
La gentilezza si deve estrinsecare anche con le parole e con una comunicazione costellata da buone maniere e commendevole nella costumanza gestuale.
Perché chi è gentile ha l’eleganza sentimentale, uno stile fascinoso ed inconfondibile che dà la cifra morale di un comportamento sociale altamente considerevole.
La persona gentile, anche quando riceve un rifiuto, non tradisce il suo volto turbato dalla cattiva azione: dice a sé stesso “poi passa”.
Non si conosce nessun altro segno di superiorità nell’uomo che quello di essere gentile.
Le parole gentili non costano nulla. Non irritano mai la lingua o le labbra. Rendono le altre persone di buon umore.
Un solo atto di gentilezza mette le radici in tutte le direzioni e le radici nascono e fanno nuovi alberi.
La gentilezza rende la comprensione dell’ altro, sull’assunto che non si nasce per far del male.
Si devono giudicare le cose da un altro angolo visuale e cercare in tutti i modi di fornire sempre una motivazione ad un fatto, anche se inspiegabile ed irrazionale.
Come sostenevano gli stoici bisogna praticare l’oikeiosis, l’attaccamento agli altri.
La gentilezza è una trasmissione di vibrazioni tra sentimenti, come quelle che provocano il suono dei violini, per cui ogni individuo risuona delle pene e dei piaceri altrui, come se fossero suoi.
Siamo strappati a noi stessi e portati all’interno dei mondi emozionali degli altri e dobbiamo agire con tatto: accarezzare con una piuma dolcissime anime fragili- e sono tantissime- anche quelle dei bulli che cadono affranti al cospetto della ragione, quando si dispiega con la forza mite del sentimento.
Facciamo la rivoluzione della gentilezza: avremo un mondo migliore.
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