Metti una sera a Teheran: a teatro non li trattereste come bifolchi retrogradi

29 Gennaio 2016

Se non fosse ridicola, la storia delle statue coperte sarebbe davvero inquietante. Perché poi apre – come ha dimostrato una bella puntata di Tutta la città ne parla, in onda il 28 scorso su Radio3Rai – a molteplici scenari e furibonde interpretazioni possibili. Dal “buon gusto” all’arte “degenerata”, dal “servilismo” italiota all’opportunismo renziano, dal ruolo dell’arte nella società ai canoni della bellezza, i temi in gioco sono tanti.

La chiesa cattolica per secoli ha evirato statue e messo mutandoni pure a Michelangelo: laddove si lascia spazio all’oscurantismo religioso, la Ragione (e la lucidità) retrocedono pericolosamente. È buffo: l’Italia si ricorda di essere laica solo a tratti, in rari momenti, per il resto ossequia il papa-re anche in questioni davvero serie come i diritti civili. Ma l’arte, nelle sue forme migliori, è da sempre pungolo e stimolo di discussione. E il guaio è che, quando si ha a che fare con quel bellissimo e contraddittorio paese che è l’Iran, le faccende spesso si ingarbugliano ulteriormente. L’Iran è un coacervo di domande, di pensieri, di questioni insolute con cui non è facile fare i conti, e che non si possono sbrigare in una battuta. O semplicemente coprendo statue.

Il confronto con l’Iran è una faccenda maledettamente seria e ci costringe a una complessità di approccio che rende tutto un po’ più faticoso, specie in materia d’arte o di cultura – e il teatro non fa eccezione. Di questo vorrei parlare.

La cosa sorprendente, infatti, è che a Teheran, e in tutto il paese, c’è una vita teatrale ricchissima, seguita con grande passione e partecipazione da un pubblico vario, eterogeneo, dove moltissimi sono i giovani che seguono indifferentemente scena “di ricerca” e teatro “tradizionale”.

Il teatro si studia: ricordo – durante il mio primo viaggio alla scoperta del teatro iraniano, con una serie di operatori europei, come Marie Collin, Giorgio Gennari, e altri – una giovane regista che mi interrogava con slancio sull’opera di Rosso di San Secondo. Autore da noi poco frequentato – soppiantato da Pirandello – Rosso ha grande credito all’università di Teheran. Ero del tutto impreparato e certo non all’altezza della mia interlocutrice.

Anni dopo, nel 2011, membro della giuria del bellissimo festival Fadjr, che ha ospitato anche molti artisti italiani (da Romeo Castellucci a Muta Imago a Koreja Teatro a molti altri), ho avuto il piacere di confrontarmi con una creatività diffusa, sensibile. In piena “primavera araba” anche Teheran era scossa da tensione, ma il festival ebbe luogo senza incidenti, anzi con rinnovato entusiasmo e partecipazione, proprio per la possibilità di avere un confronto con mondi altri, con lingue ed estetiche diverse.

Gli spettacoli “stranieri” erano letteralmente presi d’assalto, al Fadjr. Sistematicamente venivano aggiunti posti, cuscini, strapuntini: ovunque pur di vedere, ascoltare, capire. Le discussioni dopospettacolo erano infinite, articolate, strutturate.

Certo, gli artisti occidentali che approdano sulla scena iraniana devono tenere conto di alcune “regole” obbligatorie. Donne velate, innanzitutto; o impossibilità di contatti fisici tra uomo e donna: nel caso, l’uomo deve far vedere chiaramente che tocca solo la stoffa dell’abito, e non il corpo della donna. Poi ci sono restrizioni della “censura” sui testi, con cui gli artisti hanno imparato sapientemente a convivere, usando metafore che sono lampanti, chiarissime, per chi li riceve.

Anche per questo, hanno immutato successo autori come Rosso di San Secondo o Garcia Lorca, capaci di esprimere da un lato le inquietudini delle “maschere sociali”, dall’altro le tensioni sociopolitiche in contesti oscurantisti. Il pubblico lo capisce, lo sa. E applaude. Gli artisti iraniani hanno capito come muoversi sul limite friabile tra ciò che è consentito e ciò che è proibito, a volte protestando, altre aggirando.

Ci sono maestri indiscussi della scena, come quel genio del teatro di figura che risponde al nome di Behrooz Gharibpour (memorabili i suoi lavori: dal classicissimo Rostam&Sohrab a Ashoura fino al Macbeth di Verdi), e non mancano, giovani artisti che si arrovellano sulle possibilità della scrittura scenica. Da Amir Reza Koohestani, che ha riscosso successo anche in festival europei e italiani, a Homayoun Ganizadeh (di cui vidi una Antigone dal taglio “gotico”, molto significativa), da Reza Servati, arrivato anche a Torino con il suo Strange Creatures, al drammaturgo e regista Nassim Soleimanpur, grande successo a Edimburgo un paio di stagioni fa. Meritano una riflessione più ampia questi due ultimi citati. Servati, alle prese con una sorta di teatrodanza, mi confessava tutto il disagio di una generazione di artisti non abituati a “trattare” con il corpo, riuscendo invece a allestire uno spettacolo in cui fisicità diverse, eccessive, erano dominanti. Soleimanpour, invece, uno stile metateatrale “alla Tim Crouch” senza aver mai letto Tim Crouch, giocava intelligentemente sulla sua impossibilità a lasciare il paese, scrivendo una “messa in scena” in divenire con attori che dovevano dar voce, all’improvviso, all’autore assente. Sono solo esempi, dunque, di una scena viva e fremente, che ha bisogno di possibilità, di aperture.

Per questo, la svolta epocale che sta vivendo l’Iran deve essere considerata in tutte le sue enormi potenzialità. Non solo economiche, con l’apertura di un nuovo enorme mercato; nemmeno solo geopolitiche, pure di tutto rilievo; quanto, piuttosto, dal punto di vista culturale, sociale, artistico. Un paese con quasi 78milioni di abitanti, con un patrimonio archeologico di infinita bellezza (basti pensare a Persepoli) potrebbe finalmente superare tutte le inquietanti e violente contraddizioni che l’hanno connotato sino ad oggi. Il fatto che Rouhani sia passato da Roma è importante, per tanti – uomini e donne – che sperano in un paese più aperto. Con buona pace delle statue.

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CAT: Arte, Medio Oriente
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