Postillando con Ugo Rosa

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16 Settembre 2022

Postilla alla sopravvalutazione dell’esecutore

L’esperimento di Ugo Rosa, la cui postilla è ugualmente stimolante per me, e lo ringrazio per questo, è un paradosso basato, a causa del volere di un dio vendicativo e perfido o una causa aliena che non ci è data comprendere, su una terribile scelta lasciata a noi umani: cosa salvare tra un’interpretazione e una composizione. È il gioco della torre: una delle due cose sarà così perduta per sempre, senza se e senza ma. Però mi trova ancora dubbioso. Ciò che non comprendo è il perché di questa scelta.

Cioè, comprendo in realtà lo sgomento che Rosa esprime riguardo all’ipervalutazione di certi interpreti che, ci siano o no, non cambia il valore della composizione. Invece io credo che il valore cambi, perché noi amiamo una canzone, una sinfonia, una sonata o un valzer, magari proprio per una certa interpretazione che ne ha fatto l’esecutore, sia egli John Coltrane o Julie Andrews o Luciano Pavarotti. Ognuno lascia una visione di quel brano e My favorite things, che magari nella sua versione teatrale non interessa i jazzmaniaci che invece sono più interessati agli sviluppi compositivi dei loro beniamini. Continuo a non vedere la ragione di dover scegliere cosa salvare.

Già c’è la fatalità, spesso anche frutto di specifici e atroci atti di volontà, come i bombardamenti che tutto distruggono, monumenti, archivi, musei, opere d’arte. E, in molti casi, con quei bombardamenti opere uniche non esistono più. Fortunatamente, in alcuni casi, esiste un’ “interpretazione” fotografica che può restaurare un’idea di memoria, come per esempio il dipinto “Schubert al piano” di Gustav Klimt, una delle sue opere più tenere ed evocative di una Vienna felice che sarebbe diventata un inferno pochi anni dopo la sua morte. Certo, quella fotografia è un surrogato, ma almeno ci dà l’idea di cosa abbiamo perso e comunque resta impressa sulla nostra retina e questo è anche un incentivo a guardare alle guerre come il peggio possibile. Sempre disatteso, e lo vediamo di continuo.
Nel caso di Variazioni Goldberg o di Avec le temps, a differenza dell’unica copia di “Schubert al piano” che, una volta bruciata, è scomparsa fisicamente per sempre, la cosa si fa più complicata perché la sopravvivenza del brano è anche assicurata dalle molte interpretazioni che i brani hanno avuto nel corso della storia dell’ultimo secolo, dove la riproduzione dell’arte è diventata assai più semplice grazie a tanti supporti, tra stampe, dischi, CD, DVD, e altri formati digitali. E non sappiamo ancora se questi supporti siano realmente sicuri, visto che pare basterebbe una tempesta solare ad annientare tutti gli archivi elettronici.

Gustav Klimt, Schubert al piano

Quindi Gould e Ferré potrebbero perire entrambi nello stesso identico momento per una causa X. Proprio per questa ragione la scelta di chi buttare dalla rupe è, secondo me, anodina: teniamocele tutte e due, non vedo perché scegliere la distruzione dell’una o dell’altra. Allo stato attuale delle cose, sarebbe difficile far scomparire contemporaneamente in tutto il mondo le Variazioni Goldberg nell’esecuzione di Glenn Gould, qualche copia resterebbe sempre nella discoteca di qualche appassionato, così come anche Avec le temps di Leo Ferré. E, per fortuna, le Variazioni Goldberg di Bach sono state stampate anch’esse in migliaia di copie e si trovano, oltre che nei negozi, anche nelle biblioteche musicali di ogni conservatorio del mondo, in più copie. La rimando anche al saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), che meglio di me affronta l’argomento di cui discutiamo: tutto cambia nell’epoca in cui la musica e arte diventano portatili e ognuno può avere dei succedanei di un capolavoro in casa propria. E così succede che Gould e Bach siano allo stesso livello, anche se può dare fastidio.

Invece andiamo ad analizzare il sistema del divismo e quindi dell’esaltazione inconsulta dell’interprete, che, a mio avviso, potrebbe essere più costruttivo.
Il divismo è nato collo spettacolo, perché, come dicevo nella mia risposta precedente, il divo, sia egli/ella uno sportivo, un cantante, un attore, un politico, uno scienziato, incarna ciò che l’uomo comune non è in grado di fare, o, per lo meno di farlo a quei livelli.
Il gladiatore che veniva incensato e portato in trionfo non è molto diverso da un castrato che gorgheggiava vocalizzi impossibili nel Settecento, così come oggi possono esserci il sovracuto di Sumi Jo o le lacrime da Oscar di Anne Hathaway nei Miserabili. Anche quando nacque il melodramma, il successo dei primi cantanti che recitavano cantando produsse un fenomeno di divismo con conseguente fanatismo, e fu grazie a loro che le composizioni degli autori si diffusero. Se l’interprete di Arianna, trovata all’ultimo minuto, non avesse recitato in maniera toccante il suo Lamento e questo Lamento non fosse stato poi diffuso dalla medesima interprete (qualcuno dice che fu anche lei a sollecitarne la composizione perché era un’esperta di lamenti, genere in voga all’epoca), forse oggi noi non conosceremmo il Lamento d’Arianna di Monteverdi, che ebbe tanta fortuna sia perché il brano, peraltro l’unico sopravvissuto dell’intero melodramma, fu cantato con una veridicità straziante dal soprano, sia perché in seguito fu anche arrangiato come madrigale a più voci, entrando nel repertorio di cori e ensemble vocali di tutto il mondo, sfidando il tempo.
Quindi interprete e composizione vanno spesso di pari passo.

Ovviamente l’eccessiva importanza che oggi si dà a CERTI interpreti fa pensare ai più accorti che non sempre gli interpreti meritino quelle attenzioni ma che molto sia dovuto alla promozione che si fa di quell’interprete. E lì entrano in gioco molte altre realtà oltre alla riproducibilità ma che ad essa sono collegate Per esempio, ne ho parlato pochi giorni fa a proposito del vincitore del Premio Campiello, che ha scritto un libro sulla vita segreta e violenta delle faine (che parlano, scrivono e cucinano) che forse può piacere al figlioletto della mia vicina, che cattura i miti gechi in giardino e poi li schiaccia col martello. Un bambino ammodo. Quel libro (e il suo autore) è un tipico prodotto di marketing: soldi, soldi, soldi, consumo, consumo, consumo.

Analogamente il pompaggio di certi cantanti sanremesi, che hanno un successo strepitoso in ogni angolo del mondo e forse anche sulla Luna, che ripropongono spesso cover che altri interpreti hanno pure cantato meglio, almeno per il mio gusto, riflette la costituzione di questo sistema: look, abiti firmati, trucco, culo maschile scoperto insieme al resto del tronco, seno femminile che ogni tanto fuoriesce da un top di tre misure più piccolo (sequenze fintamente censurate per far capire che non era previsto), luci abbaglianti… la voce e l’interpretazione musicale sono assolutamente ininfluenti, per la diffusione del prodotto. I giovanissimi sono contenti di essere rappresentati da quella band in cui si riconoscono (alcuni si travestono pure da loro, come si vedevano in giro, all’epoca, migliaia di cloni di Boy George) e chiamano i dissenzienti rosiconi. Senza capire assolutamente nulla di come siano stati plagiati dal sistema che li obbliga a comprare tutti i gadget della band, magari anche la cacca della bassista in un’ampolla da mettere al collo, come una reliquia. Il feticismo si esprime anche così.

Il meccanismo delle reliquie sacre è assimilabile a quello delle reliquie dei divi, la ciocca di capelli, il primo dente, l’unghia, la lettera d’amore… Quando la salma di Vincenzo Bellini fu esposta per gli omaggi del pubblico si narra che una sua amante(?) o ammiratrice si chinò per baciare la salma, mentre in realtà volle strappargli i peli dal petto colla bocca per tenerli come reliquia. E parliamo di duecento anni fa. Gli eccessi del divismo ci sono sempre stati. Oggi sono più evidenti perché abbiamo a disposizione i potenti mezzi della tecnica.
Però, allora, andiamo a discutere di questo nei dettagli, perché è lì che si annida la stortura, il gioco della torre non credo ci aiuti a comprendere meglio le ragioni di un mondo che anch’io comprendo sempre meno, ovvero: lo comprendo ma non mi piace. E potrebbe anche essere utile per i lettori, che magari potrebbero trovare spunti di riflessione.

Detto tra noi: Stravinskij aveva scritto quel pensiero da lei citato, ma poi, se non ci fosse stato Nijinskij, la Sagra della Primavera sarebbe stata probabilmente un’altra cosa.

 

TAG: arte, bach, consumo, divismo, Ferré, Gould, Musica, star system, Stravinskij, Variazioni Goldberg, Walter Benjamin
CAT: Arte, Musica

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