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Arte

Cosa hanno in comune l’arte e la matematica?

di Titti Ferrante
4 Febbraio 2023

“L’autobus per Sarajevo era parcheggiato in ultima fila, ancora più defilato degli altri. Era arancione. Un arancione vero, da antiruggine, e verde anche, con una bella scriita SLAVEK sul fianco. Uno dei due autisti ci dormiva dentro e l’altro, un uomo dall’espressione buona, con la faccia magra e la riga dei capelli impomatati da una parte sola, gironzolava nella piazza”. (V.Capossela)

Harold Hardy, un grande matematico britannico affermava che una delle caratteristiche della matematica fosse la bellezza e che “Le forme create dal matematico, come quelle del pittore o del poeta, devono essere belle”. La matematica e l’arte possono essere considerate una coppia indissolubile; esistono infatti numerosi intrecci, sfaccettature, convergenze e divergenze che possono mostrare questo legame. E’ presente, inoltre, una forte relazione fra il mondo dell’arte figurativa e il mondo della matematica; le due, infatti, sono creazioni umane che hanno alla base la fantasia e un linguaggio rigoroso.
Rigore e meticolosità hanno contribuito a creare alcune delle opere più belle della storia dell’arte. Si pensi a Filippo Brunelleschi che stupì Firenze e il mondo intero quando, agli inizi del Quattrocento, si recò alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, si posizionò al centro della porta maggiore, e disegnò, secondo le regole della prospettiva, il Battistero che vi stava di fronte. Si recò poi in Piazza della Signoria, si posizionò all’angolo di via de’Calzaiuoli, e disegnò secondo le stesse regole il Palazzo Vecchio. Le due tavole del Brunelleschi sono andate perdute, e sappiamo della loro esistenza solo grazie alla testimonianza di Leon Battista Alberti. Disegnarle all’epoca non era per niente banale perché le regole della prospettiva non erano ancora state scoperte.
Dopo la sua scoperta, la prospettiva divenne il nuovo paradigma artistico occidentale, ma l’arte orientale ne rimase immune per secoli. La rottura delle convenzioni e degli schemi della pittura classica e aristocratica giapponese è avvenuta nell’ambito di una forma d’arte alternativa e popolare, chiamata ukiyo-e, “immagini del mondo fluttuante”. Un termine questo che veniva usato dai buddhisti per indicare le percezioni della realtà impermanente, ma che a metà del Seicento, la borghesia urbana incominciò a riferire alle scene di vita dei quartieri a luci rosse e dei teatri. L’arte degli ukiyo-e fiorì nel periodo Edo, tra il Seicento e l’Ottocento, e fu innovativa, di rottura non soltanto per la scelta dei soggetti e del linguaggio, ma anche del mezzo espressivo. Invece di usare i tradizionali rotoli dipinti della pittura classica, vennero infatti adottate le stampe colorate riprodotte da matrici di legno, le cui riproduzioni potevano essere vendute a basso prezzo e fatte circolare a migliaia. I suoi artisti producevano xilografie e dipinti di soggetti come bellezze femminili, attori Kabuki e lottatori di sumo, scene e paesaggi di viaggio, flora e fauna, ed erotica.
I suoi maestri più popolari divennero i ritrattisti Kitagawa Utamaro e Torii Kiyonga. Nella seconda metà dell’Ottocento le loro opere si diffusero anche in Occidente, e in Francia esercitarono un fascino che ispirò in generale movimenti quali l’Art Nouveau, l’impressionismo e il cubismo, e in particolare artisti come Van Gogh.
Più o meno nello stesso periodo di fioritura degli ukiyo-e, il Giappone chiuse i rapporti con l’Occidente, e visse un paio di secoli di autarchia culturale. Ne risentì in particolare la matematica, che ebbe uno sviluppo autoctono in seguito chiamato wasan(da Wa, “Giappone” e san “matematica”), indipendente da quello occidentale chiamato yosan (da Yo, “Occidente”)
La più nota e singolare espressione wasan furono i sangaku, “le tavolette matematiche” incise su matrici di legno analoghe agli stampi degli ukiyo-e. I sangaku erano una specie di ex voto offerti in omaggio dai samurai, mercanti e contadini a qualcuna delle innumerevoli divinità dello shintoismo e del buddhismo, venerate nei luoghi sacri in cui venivano appese le tavolette. Queste costituivano probabilmente altrettante sfide intellettuali ai visitatori di quegli stessi luoghi, o pubblicità per le scuole delle quali provenivano. Nella seconda metà del Settecento, apparve la prima raccolta di problemi in essi proposti. Ne seguirono poi varie altre, manoscritte o stampate dalle matrici di legno: tra esse, “I Problemi matematici appesi nei templi” di Fujita Kagen.
I problemi dei sangaku coinvolgono quasi sempre cerchi, elissi o sfere tangenti, e il loro livello di difficoltà va dall’elementare all’universitario. A volte la soluzione richiede soltanto riga e compasso, altre volte la geometria superiore e l’analisi. Spesso, però, i risultati sono assolutamente originali, e costituiscono una specie di ideale prosecuzione dei Greci. In particolare, quelle del perduto trattato “Sulle tangenti” di Apollonio, in buona parte dedicato a trovare un cerchio tangente a tre cerchi dati. Oggi questo si chiama problema di Apollonio, e il numero delle sue soluzioni va da zero a otto della disposizioni dei cerchi di partenza. Le soluzioni vengono comunque sempre a coppie in cui una include i cerchi che l’altra esclude, e viceversa.

In foto: Max Bill, litografia della serie Quindici variazioni su uno stesso tema.

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