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Arte

Riflettere sul Bataclan e capire noi stessi

di Paolo Randazzo
22 Aprile 2024

Non si tratta di solo conoscenze specifiche, ma di comprensione per via di esperienza: chiunque abbia mai partecipato, anche solo parzialmente, alla concreta realizzazione di un film sa perfettamente quale enorme scarto via sia tra la realtà della costruzione materiale di un oggetto chiamato film e la fruizione (percezione, conoscenza, comprensione, partecipazione emotiva) di un tale oggetto da parte degli spettatori. In questo scarto si trovano il punto di vista del regista e l’insieme dei condizionamenti culturali, ideologici, politici, economici a cui è sottoposto e con i quali deve venire, o meno, a compromessi ed ancora ci sono margini impliciti di menzogna e di falsificazione ideologica del racconto mimetico della realtà. È sostanzialmente questo il contesto di senso di “Kamikaze, assocerò sempre la tua faccia alle cose che esplodono” lo spettacolo concepito e diretto da Marco Lorenzi, su testo di Emanuele Aldrovandi (mentre il dramaturg è Lorenzo De Iacovo), meritoriamente, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo e dal Teatro Nazionale Croato Ivan de Zajc di Fiume. Lo spettacolo si è visto dal 5 al 14 aprile nella Sala Grande del Biondo a Palermo. In scena un ensemble composito di attori e attrici provenienti dalla Compagnia stabile del Dramma italiano di Fiume (Elena Brumini, Aleksandar Cvjetković, Serena Ferraiuolo, Stefano Iagulli, Mario Jovev, Mirko Soldano) e italiani Vittorio Cammarota, Aurora Cimino ed Eletta Del Castillo. E d’altro canto la compresenza, anche in questo spettacolo, di mimesi teatrale e di riflessione teorica sul linguaggio cinematografico sembra essere diventata la cifra essenziale del linguaggio artistico di Lorenzi, senza fortunatamente scivolare nello stucchevole. Si tratta sostanzialmente di una riflessione, strutturalmente politica, sul come e perché dei giovani immigrati mediorientali o nordafricani di seconda generazione si siano radicalizzati e, proprio nella civilissima Francia, si siano resi disponibili alla realizzazione di un efferato delitto qual è stata la strage del Bataclan (ricordiamo: il 13 novembre del 2015). Qual è il veleno culturale e politico che impedisce un reciproco e civile riconoscimento, una condivisione vitale dell’alterità che superi ogni dualismo violento e costruisca una nuova e plurale identità europea e occidentale? La vicenda, decostruita nella sua sintassi superficiale e rimontata in quattro quadri di senso prima che d’azione, è quella di una giovane regista (un’Aurora Cimino intensa e capace di dare autenticità e misura al suo personaggio) di origini nordafricane che vorrebbe realizzare un film sperimentale sull’attentato del Bataclan, sui giovani che vi parteciparono da terroristi, sulle motivazioni profonde di quella scelta terroristica. Un’idea interessante e una potente capacità costruttiva e metaforica capace di leggere e spiegare la realtà, eppure agli occhi della manager della casa di produzione croata che avrebbe dovuto tirar fuori i soldi per produrre il film, quella costruzione del racconto, quella lettura intelligente, senza sconti e profondamente politica della realtà occidentale non serve e non basta: nel film deve esserci il piccante (meglio ancora se torbido e piccolo-borghese) motivazionale delle relazioni personali e familiari. Ovvero, esattamente, la negazione e il tradimento della struttura sociologica e politica del film che la giovane regista vorrebbe realizzare. Il tutto portato sulla scena teatrale con un ritmo incalzante ed esatto, nonché con una notevolissima capacità di suscitare nel pubblico partecipazione politica consapevole e giudicante. Una capacità che viene incanalata nella metafora della costruzione materiale del film, delle scene da filmare, sezionare, discutere e poi montare: una ragazza nordafricana che, per evitare vittime innocenti e per salvare il fratello, lo denuncia alla polizia parigina e ne rivela (non creduta e sbeffeggiata) il coinvolgimento in un imminente attentato terroristico di matrice islamista, la cena tra parlamentari europei i quali, messa da parte ogni ideologia e appartenenza, rivelano che è solo il business la ragione del loro agire, il dialogo tra due fidanzati spagnoli (lei ancora di origine nordafricana) che si scontrano sulla matrice razzista anche di certi comportamenti linguistici apparentemente innocenti da cogliere e da filmare ripetutamente e frazionare nella loro inautentica esteriorità, per poi rimontare, talvolta anche paradossalmente, secondo un principio di autenticità politica. Una politicità necessaria e salutare che ci ricorda che il teatro non esiste se non si intride di realtà, se non rifiuta radicalmente la dimensione ricreativa, se non fa domande politiche e non pretende che il pubblico si confronti seriamente con esse.

 

Palermo, Teatro Biondo, Sala Grande  dal 5 al 14 aprile 2024. Prima italiana. Di Emanuele Aldrovandi. Regia Marco Lorenzi. Dramaturg e regista assistente Lorenzo De Iacovo. Con Elena Brumini, Vittorio Camarota, Aurora Cimino, Aleksandar Cvjetkovi, Eletta Del Castillo, Serena Ferraiuolo, Stefano Iagulli, Mario Jovev, Mirko Soldano. Scene e costumi di Gregorio Zurla, musiche di Enza De Rose e Leonardo Porcile. Proiezioni video Edoardo Palma, Emanuele Forte, disegno luci di Robert Pavlič. Assistente alla scenografia e ai costumi Ivan Botiki, direttrice di scena Andrea Slama. Produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Nazionale Croato Ivan de Zajc di Fiume (Hrvatsko narodno kazalište Ivana pl. Zajca u Rijeci). Crediti fotografici di Drazen Sokcevic.

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