Cronaca
Oltre l’ergastolo: l’educazione come risposta politica alla violenza sulle donne
L’inasprimento delle pene non ferma la violenza: serve un investimento strutturale in educazione, prevenzione e un radicale cambiamento culturale
Quando un femminicidio sconvolge le cronache, la reazione è spesso un misto di profondo dolore e un’irresistibile sensazione di impotenza. La morte di una donna, in particolare se giovane, incinta, risuona con un’intensità quasi personale. Pensiamo a Giulia Tramontano, Ilaria Sula, ma anche ad Assunta Carbone – nomi che ci riportano a domande dolorose: “Come non ha potuto vedere? Perché non l’ha lasciato prima? Cosa è sfuggito ai primi segnali d’allarme?”.
“Abbiamo la forza di saperi, pratiche, piazze” dice Barbara Leda Kenny, senior gender expert, che ci ricorda che il movimento femminista ci ha dato le parole e un linguaggio politico per parlare della violenza degli uomini contro le donne. A partire dal fatto che “femminicidio” non indica semplicemente che è morta una donna, ma che quella donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne.
Chiunque conosca a fondo la violenza di genere sa che il femminicidio è la drammatica punta di un iceberg, l’esito più brutale di una lunga catena di episodi violenti, tollerati e accettati dalla società tutta. Usando la parola femminicidio diciamo che c’è premeditazione, una premeditazione che abita tutta la società. Troppo spesso, infatti, ci hanno insegnato a minimizzare o persino a fraintendere i segnali, scambiandoli per “gesti d’amore” – frasi come “era geloso, ma non voleva”, “è premuroso, forse troppo”, “è fatto così, solo un po’ burbero”, “forse l’hai provocato, era depresso” – che normalizzano comportamenti inaccettabili.
Eppure, ogni volta che accade, la risposta prevalente delle istituzioni è sempre la stessa: inasprire le pene. Lo abbiamo visto ancora una volta con il disegno di legge del governo che vuole trasformare il femminicidio in reato autonomo punito con l’ergastolo. Peccato che non abbiamo nessuna evidenza che l’inasprimento delle pene sia un deterrente per chi commette violenza di genere. È una risposta ex post, che serve più a soddisfare l’indignazione pubblica che a prevenire i delitti.
Nel processo a carico di Impignatiello, il femminicida di Giulia Tramontano, che per sei mesi l’ha avvelenata con veleno per topi, la premeditazione è caduta in Appello. Sì, proprio mentre nel dibattito pubblico si grida alla necessità di ergastoli e punizioni esemplari, la giustizia fa fatica a riconoscere l’intenzionalità e la pianificazione anche quando è documentata. E intanto continuiamo a vivere in una società patriarcale, in cui la disparità di genere è strutturale: nei salari, nelle carriere, nei ruoli di potere, nel carico di cura, nell’accesso alla giustizia, nella rappresentazione mediatica.
Le politiche che funzionano non sono quelle della repressione, ma quelle che orientano le azioni prima che la violenza esploda. Questo significa investire in formazione non solo agli adulti o a chi si interfaccia con le donne che subiscono violenza, ma a partire dall’infanzia.
Esistono studi e iniziative che mostrano come l’educazione affettiva e alle relazioni nelle scuole possa contribuire concretamente alla riduzione della violenza di genere tra i giovani. Negli Stati Uniti, ad esempio, un programma sperimentale in aree urbane svantaggiate ha mostrato segnali promettenti nella riduzione di atteggiamenti favorevoli alla violenza. In Olanda, un’iniziativa scolastica ha aumentato significativamente l’accettazione del diritto di dire “no” all’interno di una relazione, con effetti che si sono mantenuti nel tempo.
In Svezia, uno studio longitudinale ha messo in luce come l’educazione sessuale riduca le gravidanze indesiderate e favorisca una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro — entrambi fattori strettamente correlati con una minore esposizione alla violenza. Anche in ambito universitario si registrano progressi: un programma basato su un approccio “sex-positive” ha ridotto in modo significativo gli atteggiamenti tipici della cultura dello stupro, migliorando la consapevolezza sul consenso.
Per citare Giulia Marchesi e Francesca Palazzetti, autrici del saggio I bambini non nascono sotto i cavoli, «in Italia purtroppo la situazione relativa all’educazione sessuale non è delle migliori: il nostro è uno dei sette Paesi dell’unione Europea dove ancora manca l’obbligatorietà di questa materia all’interno delle scuole, insieme a Lituania, Cipro, Ungheria, Bulgaria, Polonia, Romania. Questo mancato riconoscimento istituzionale colloca l’educazione sessuale in un limbo in cui non si capisce chi dovrebbe occuparsene e a chi dovrebbero fare riferimento bambini e ragazzi»
La Comprehensive Sexuality Education (CSE) è riconosciuta invece come uno strumento chiave per prevenire la violenza di genere e costruire comunità più sicure. Eventi recenti, come il simposio “The Gender Talk” a Bruxelles, ne hanno sottolineato il ruolo trasformativo, anche nel contrastare la violenza online.
La verità è che educare è molto più difficile che punire. Ma è l’unico investimento che ha effetti duraturi. Eppure, chi governa troppo spesso considera la prevenzione un costo, e la repressione una scorciatoia efficace. Ma non lo è.
Il dolore brucia. Ma non dobbiamo confondere giustizia con vendetta. Abbiamo bisogno di cambiamento culturale, non solo penale. Serve una società capace di decostruirsi, di riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi, di educare i ragazzi al rispetto delle vite altrui, di proteggere le donne senza colpevolizzarle, di formare le nuove generazioni all’empatia.
Una società che non aspetti il prossimo 25 novembre per fare qualcosa, ma che cominci ora. Perché per tante, troppe, di noi è già troppo tardi.
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