Cronaca

Protestare serve

Protestare serve nella logica non violenta per cui i mezzi sono fini

25 Settembre 2025

Abbiamo tutti visto in questi mesi una crescita in tutto il mondo delle proteste contro la guerra, in particolare per chiedere una tregua o la fine della guerra a Gaza. Con un certo cinismo c’è chi liquida queste proteste come del tutto superflue e inefficaci. Andrebbe però evocato un esempio del passato.

Nella guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam (1955-1975) il mondo si schierò con i Vietcong e vinse. Ci fu un movimento globale che prima e al di là di dei governi e della politica, si mobilitò. E così furono i corpi di uomini e donne che seppero unirsi dando vita a un movimento globale che alla fine ebbe ragione anche della superiorità militare degli Usa.

Gli operai della Fiat a Mirafiori gridavano: «Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina». In quella guerra morirono più di 100 tra fotografi e operatori cinematografici; una cifra che testimonia l’ansia di documentare da vicino e senza restrizioni quanto accadeva sul terreno. Più che l’uso dei gas o dei defolianti fu importante lo sdegno suscitato da foto come quella del generale sudvietnamita che giustiziava un vietcong e della bambina che correva nuda, lasciandosi alle spalle il suo villaggio bruciato dal napalm. Fu la commozione per quelle immagini a decidere chi aveva vinto e chi aveva perso in quella guerra. Perché furono immagini che mobilitarono le coscienze.

In occasione della marcia su Washington, Martin Luther King sentì parlare per la prima volta di Malcom X, che criticò la manifestazione definendola “farsa su Washington”.

Malcom X era quel leader afroamericano che si batteva per i diritti civili dei neri, ma con un programma di attivismo fondato sull’aggressività e la violenza.

Chi, come Martin Luther King, pensa che la non violenza sia la strada maestra, organizza le sue proteste prendendosene tutti i rischi. E’ molto comodo trincerarsi dietro l’idea che marciare, scendere in strada, digiunare o scioperare sia un’iniziativa “inutile”, o una “passerella”. Nella filosofia nonviolenta i mezzi impiegati sono fini: l’efficacia di un’azione non sta nel successo, ma nell’esempio. Nel testimone che può essere raccolto da chi, armato di buona volontà e capacità organizzativa, potrà essere ispirato a gesti più efficaci.

E’ per questo che l’iniziativa della Sumud Flotilla nel suo carattere simbolico ha un valore immenso. C’è chi prova e chi sta a guardare viene stimolato a provarci anche lui, come può, come sa, come riesce.

Peraltro lo abbiamo visto in Italia in questi giorni fino allo sciopero nazionale del 22 settembre. E’ stato un crescere continuo nel coinvolgimento di tante persone in grandi città, piccoli centri. Hanno provato a scendere in piazza, suonare pentole, accendere candele, boicottare, organizzare presidi. E alla fine questa crescita è divenuto un vero movimento di popolo.

Faccio mie le riflessioni di Paola Caridi: «non abbiamo numeri delle manifestazioni, ma sappiamo, nella nostra anima, che non si torna indietro. Non è un movimento, ma sono certa che sia – traslando la definizione fatta da Asef Bayat, sociologo tra i più interessanti – un ‘nonmovimento’: in questo caso un nonmovimento politico. E’, per citare ancora Bayat, “vita come politica”.  Non sappiamo quante persone sono scese in strada, quanti negozi hanno deciso di chiudere. Panifici e pasticcerie e ristoranti: perché non si può cucinare, curare il cibo, e poi reggere l’urto dell’immagini dell’affamamento ordito dagli israeliani contro i palestinesi. Quanti insegnanti si sono astenuti dal lavoro, quanti autisti e macchinisti hanno scioperato. Non interessa, anche se sarebbe bello avere i numeri per non sentirsi neanche per un momento dei numeri. Siamo i senzapotere. Non siamo impotenti. E fermeremo il genocidio».

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