Diritti

È sempre tempo di obbedire alla propria coscienza

9 Luglio 2025

L’appello dei ricercatori del CNR: competenze al servizio di risoluzioni non violente dei conflitti e non al servizio della guerra.

7 luglio 2025: “Noi sottoscritti, ricercatori e tecnologi, ricercatrici e tecnologhe, collaboratori e collaboratrici del Consiglio Nazionale delle Ricerche (…) respingiamo la normalizzazione del conflitto armato, che appare in precipitosa crescita nella teoria, nella pratica, nella comunicazione pubblica, e anche nella nostra sensibilità valoriale, come mostra l’inazione, di fatto la complicità, nei confronti dell’orrore perpetrato a Gaza (…).

Le elevate competenze intellettuali e scientifiche sono parte essenziale – al punto da diventare bersagli – delle azioni belliche: dal know-how tecnico sulle armi fino alla costruzione ideologica e retorica di una “cultura della guerra” (…).

Esprimiamo quindi la nostra ferma indisponibilità a prestare la nostra collaborazione intellettuale e scientifica – a qualunque livello – a iniziative che implichino, anche in modo indiretto, destinazioni belliche (….) ci impegniamo a mettere le nostre competenze al servizio della ricerca e dello sviluppo di approcci nonviolenti alla risoluzione delle controversie internazionali fondati sul diritto e sul dialogo”.

E’ l’appello dei primi 300 sottoscrittori (tra collaboratori e ricercatori) del CNR[1]. Considerato il loro ruolo nell’ambito della società, questo appello non deve essere letto “solo” come un richiamo alla obiezione di coscienza individuale ma come un gesto di disobbedienza civile.

Dall’obiezione di coscienza individuale alla disobbedienza civile

Ripercorrendo lo schema di Alessandro Passerin d’Entrèves (Obbedienza e resistenza in una società democratica e altri saggi. Milano 1970) uno dei padri della filosofia politica in Italia, è possibile considerare diversi comportamenti che regolano la dinamica del conflitto tra norma, potere pubblico e libertà di coscienza:

  • Obbedienza consenziente. E’ il caso dell’obbedienza senza incertezze che nasce da una condivisione e da un accoglimento pieno della richiesta che viene rivolta ai consociati. La norma non è concepita come una imposizione dall’esterno in quanto trova una perfetta adesione del singolo che attua una interiorizzazione del precetto contenuto nella norma.
  • Obbedienza formale: porta per abitudine o per timore della sanzione ad obbedire, manca però una tensione morale che induce all’accettazione profonda della norma, ed esprime a ben vedere un fondamentale atteggiamento di disinteresse verso l’ordine costituito.
  • Obbedienza passiva: è un chiaro segno di protesta che si caratterizza per una disobbedienza inequivocabile alla norma alla quale però segue l’accettazione totale della sanzione che non si cerca in alcun modo di eludere
  • Obiezione di coscienza: si distingue dall’obbedienza passiva per via del carattere palese del rifiuto che si compie. Il rifiuto riguarda una specifica norma e non l’intero ordinamento, si tratterebbe in questo ultimo caso di comportamento sovversivo.
  • Disobbedienza civile: ha gli stessi caratteri di protesta e di rifiuto dell’obbedienza passiva e dell’obiezione di coscienza ma si caratterizza per essere l’espressione di un gruppo di pressione.

La disobbedienza civile, come anche descritta da Hannah Arendt, è dunque un atto politico che “insorge quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più. Che non viene più dato ascolto né seguito alle loro rimostranze. O che, al contrario, il governo sta cambiando ed è ormai avviato verso una condotta dubbia in termini di costituzionalità e legalità”.

Il rifiuto dei ricercatori del CNR di prestare le proprie competenze al servizio della guerra è un gesto politico che una parte della classe intellettuale di questo Paese pone all’attenzione di tutti.

Facile, si dirà, quando non hai le bombe che ti cadono sulla testa; in realtà c’è sempre un prezzo da pagare seppure in condizioni diverse, inoltre i ricercatori del CNR pongono l’attenzione sulla necessità di indirizzare ricerche e know-how verso lo “sviluppo di approcci nonviolenti alla risoluzione delle controversie internazionali fondati sul diritto e sul dialogo”.

In questa direzione non sembra muoversi nessuno, se non gli obiettori di coscienza.

I tanti giovani ucraini, russi e israeliani che oggi esercitano l’obiezione di coscienza, così come i tanti che li hanno preceduti in altre parti del mondo compresa l’Italia, ci dicono che queste scelte le fai sempre con enorme coraggio proprio quando rischi molto come documenta il Movimento Nonviolento (https://www.azionenonviolenta.it/rapimenti-percosse-leva-forzata-peggiora-la-persecuzione-contro-gli-obiettori-e-disertori-ucraini-il-caso-di-stepan-bilchenko/), voce quasi isolata nel raccontare l’esperienza dei giovani obiettori ucraini e russi.

Anche in Israele, coraggiosamente con pesante discredito sociale e affrontando il carcere, molti giovani praticano l’obiezione di coscienza pensando soprattutto a come costruire un futuro di convivenza (https://www.open.online/2024/10/10/israele-storia-itamar-greenberg-18enne-israeliano-rifiuto-guerra-gaza-intervista/) nell’interesse di tutti, e forse sono tra i pochi a pensare al dopo.

Obiezione di coscienza e disobbedienza civile solo in tempi di guerra?

La guerra, i costi del riarmo, ma anche il cambiamento climatico sottovalutato, e (pensando anche a diverse situazioni della vita quotidiana “in tempo di pace”) le leggi assenti per inerzia o scarso coraggio del Legislatore su temi cruciali (es. fine vita), e le leggi che intervengono invece in maniera invasiva nella sfera dell’espressione del pacifico dissenso (es. decreto sicurezza) hanno come contraltare, in un ordinamento democratico, la pratica di “azioni di resistenza” che spesso producono innovazioni nel diritto e nella società.

Basti pensare al diritto allo sciopero o all’obiezione di coscienza al servizio militare, forme di “resistenza” duramente contrastate dal potere politico, che hanno prodotto tuttavia nel tempo riconoscimenti di nuovi diritti e forse hanno consentito agli ordinamenti democratici di ricongiungere diritto e giustizia sociale, libertà individuali e solidarietà.

Nella stessa direzione anche l’esperienza della disobbedienza civile di Cappato e dell’Associazione Luca Coscioni, che ha prodotto importati pronunce della Corte Costituzionale e avviato il dibattito nel Paese e in Parlamento sul “fine vita” (https://www.glistatigenerali.com/attualita/diritti/depositato-il-disegno-di-legge-sul-fine-vita-la-prospettiva-resta-il-viaggio/).

La storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare è particolarmente emblematica rispetto all’evoluzione della sensibilità giuridica che ha portato ad estendere il concetto di difesa della Patria (art 52 cost) dall’essere concepita come sola difesa armata, a difesa dei cittadini fragili e vulnerabili, e alla difesa del patrimonio artistico e ambientale del nostro Paese. Dal carcere dei primi obiettori all’abolizione della leva obbligatoria e all’esperienza estesa alle donne del servizio civile, forse neppure i primi obiettori immaginavano quanto feconda potesse essere la loro pratica di obiezione di coscienza al servizio militare!

In questo particolare momento storico anche i casi di assenza di alcune importanti politiche pubbliche meritano azioni di “resistenza”: l’assenza di politiche pubbliche per le gravi condizioni della detezione carceraria, per il progressivo smantellamento del welfare sociale, per il dissesto del territorio e, non appaia fuori contesto, l’abbandono cinico della politica alla sorte dei borghi spopolati delle aree interne[2], sono solo alcuni degli scenari dove prendono vita con coraggio forme (anche drammatiche) di resistenza non adeguatamente ascoltate o narrate.

Di fronte a questo scenario, coloro che avvertono un disagio (politico, culturale e sociale) hanno senz’altro il diritto/dovere di dissentire nelle forme di resistenza che l’ordinamento democratico ancora consente. Lasciare una traccia, anche solo di azione simbolica, della presenza di una coscienza civica forgiata dai diritti costituzionalmente garantiti, non è velleitario, è invece ripuntare la “bussola” quando c’è il rischio di perdere il sentiero.

Richiamando ancora la filosofa tedesca Arent: “Il dissenso implica consenso ed è il tratto caratteristico di un regime di libertà. Chi sa di poter dissentire sa anche che, in qualche modo, quando non dissente esprime un tacito assenso”.

 

[1] Testo completo e link di sottoscrizione https://onedrive.live.com/personal/bebfab15222cf4ec/_layouts/15/Doc.aspx?sourcedoc=%7B1ee4cc2b-da79-4616-a31a-ced1d4d30748%7D&action=default&slrid=8073afa1-c0be-d000-5843-3de7b05bcf64&originalPath=aHR0cHM6Ly8xZHJ2Lm1zL3cvYy9iZWJmYWIxNTIyMmNmNGVjL0VTdk01QjU1MmhaR294ck8wZFRUQjBnQnJYUjhPV040enJHWGUtSGY5MThjbHc_cnRpbWU9dmE5cF9WaTkzVWc&CID=d6afb131-9a17-4c46-949c-b488219f3b1f&_SRM=0:G:43

[2] Nel Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI) 2021–2027, si legge testualmente “alcune aree non possono porsi obiettivi di inversione di tendenza, ma devono essere accompagnate in un percorso di cronicizzato declino”.

 

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