Giornalismo
Lettera a Bianca Berlinguer (e Mauro Corona)
Un atto d’accusa civile contro la normalizzazione del rumore televisivo. La presenza fissa di Mauro Corona diventa il sintomo di una pigrizia culturale che scambia la ruvidezza per pensiero. Una lettera a Bianca Berlinguer che non chiede censure, ma responsabilità sul linguaggio.
Cara Bianca,
ti scrivo perché la televisione, quando decide di essere casa comune, dovrebbe sapere chi invita a sedersi a tavola e chi invece viene lasciato in piedi. Ti scrivo perché la tua storia professionale, la tua intelligenza e la tua capacità di tenere insieme conflitto e ascolto meritano molto di più di un rituale stanco che si ripete ogni settimana. Ti scrivo per Mauro Corona, o meglio per ciò che Mauro Corona è diventato dentro il tuo spazio.
Non parlo dell’uomo di montagna, del legno, delle mani, delle storie di bosco. Quello è un racconto che ha avuto un suo tempo e una sua dignità. Parlo del personaggio televisivo, del borbottio elevato a cifra morale, della ruvidezza scambiata per profondità, dell’insulto mascherato da franchezza. Parlo di una presenza che non disturba il potere ma il linguaggio, non apre domande ma le chiude con una risata complice.
Il problema non è Corona. Il problema è la sua normalizzazione. È l’idea che basti dire le cose “come vengono” per dire qualcosa che valga. È la convinzione, pericolosa, che la scorrettezza sia autenticità e che la volgarità sia libertà. In quello spazio, Bianca, non si ascolta più un punto di vista. Si assiste a una caricatura che si ripete uguale a sé stessa, puntata dopo puntata, come se il mondo fosse fermo e bastasse una voce ruvida per raccontarlo.
C’è qualcosa di profondamente stonato nel vedere una donna che ha attraversato con rigore la complessità del racconto pubblico fare da contrappunto a una maschera che vive di semplificazione. Non è un duello. È una sproporzione. Tu porti il peso delle domande, lui il privilegio della battuta finale. Tu costruisci contesto, lui lo scavalca. Tu lavori sul senso, lui sul rumore.
E il rumore, oggi, non è innocuo. Perché legittima. Perché insegna. Perché passa l’idea che si possa dire tutto senza pagarne il costo simbolico. Che si possa ferire senza assumersene la responsabilità. Che si possa liquidare il dolore, il femminile, la fragilità, la complessità sociale con un’alzata di spalle. Questo non è spirito libero. È pigrizia culturale travestita da carattere.
So che la televisione chiede ritmo, personaggi riconoscibili, conflitto facile. Ma proprio per questo ti chiedo di più. Di non accontentarti. Di non lasciare che il tuo spazio diventi il luogo in cui l’ironia scende di livello mentre il pensiero arretra. Di non concedere centralità a chi non rischia nulla, perché il rischio lo pagano sempre altri.
Non ti scrivo per censurare. Ti scrivo per pretendere. Perché chi guarda impara, anche quando finge di no. E perché la tua voce ha ancora il peso per scegliere da che parte stare. Non contro qualcuno, ma a favore di un linguaggio che non umilia, di una critica che non si rifugia nella posa, di una televisione che non scambi il carattere per il contenuto.
Questa lettera non chiede epurazioni. Chiede coraggio. Chiede di alzare l’asticella. Chiede di ricordare che essere duri non significa essere giusti, e che la realtà non ha bisogno di maschere per essere raccontata, ma di sguardi che sappiano reggerla.
Con rispetto, ma senza indulgenza,
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