Italia

Contro l’ossessione del bilancio

Una lettera contro l’ossessione del bilancio di fine anno. Per chi non torna nei conti, per chi ha scelto la cura, il tempo sospeso, le vite che non producono numeri. Dove il sistema si inceppa, forse, è da lì che si ricomincia.

30 Dicembre 2025

Ci sono giorni in cui tutti fanno bilanci e altri in cui bisognerebbe avere il coraggio di non farne.

Il 30 dicembre è uno di questi. Un giorno che non chiude e non apre non conclude e non promette. Un giorno che scivola fuori dalla contabilità dell’anno e proprio per questo dice qualcosa di essenziale. Dice che non tutto torna, che non tutto si somma, che non tutto deve produrre un saldo.

Viviamo immersi in una cultura che chiede conto. Dei risultati, delle performance, delle scelte, perfino delle vite. A fine anno si tirano le somme come se l’esistenza fosse un rendiconto, come se ogni gesto dovesse giustificarsi, ogni errore compensarsi, ogni caduta trovare una riga di pareggio. Ma ci sono storie che non tornano. E meno male.

Penso a un uomo incontrato mesi fa in una sala d’attesa d’ospedale. Aveva lavorato quarant’anni, poi una malattia, poi il tempo sospeso. Non chiedeva niente, non rivendicava nulla. Stava lì. Se qualcuno avesse provato a fare il bilancio della sua vita in quel momento, avrebbe sbagliato tutto.

Non tornano le vite spezzate, quelle che hanno cambiato direzione senza chiedere permesso. Non tornano le madri stanche che hanno tenuto insieme giornate impossibili. Non tornano i ragazzi che hanno perso tempo perché stavano cercando un senso. Non tornano le persone che hanno scelto la cura invece dell’avanzamento, la relazione invece della carriera, il silenzio invece della vetrina.

C’è un’intera umanità che non fa bilanci perché non può, o perché non vuole. Perché ha capito che ciò che conta non sempre si misura, che ciò che pesa non sempre si conta, che ciò che salva spesso non produce numeri. È un’umanità che abita il crinale tra perdita e fedeltà, tra ciò che manca e ciò che tiene, anche quando nessuno lo vede.

La politica, quando è onesta, dovrebbe imparare da qui. Dovrebbe smettere di parlare solo il linguaggio delle cifre e ricominciare ad ascoltare quello delle vite. Perché una società che valuta tutto, alla fine svaluta tutti. E una democrazia che riconosce solo ciò che torna nei conti, smette di riconoscere chi non ce la fa a tornare.

Non fare bilanci non significa rinunciare alla responsabilità. Significa riconoscere che esistono responsabilità che non producono dividendi. Che prendersi cura di qualcuno non è un investimento, ma un atto umano. Che accompagnare una fragilità non è una perdita di tempo, ma una scelta di civiltà.

Il 30 dicembre serve a questo. A ricordarci che l’anno non è solo ciò che abbiamo fatto, ma anche ciò che abbiamo attraversato. Non solo ciò che abbiamo concluso, ma ciò che abbiamo tenuto aperto. Non solo i traguardi, ma le soste, gli inciampi, le deviazioni necessarie.

A chi oggi non fa bilanci va detta una cosa semplice e difficile insieme. Non siete in difetto. Non siete indietro. Non siete un errore di sistema. Siete il punto in cui il sistema smette di funzionare. Ed è proprio da lì che bisognerebbe ricominciare.

 

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