
Italia
Cosa avrebbe detto De Andrè sulla piazza di Serra?
2 Maggio 2025
Nei giorni in cui si parlava di Vecchioni e Guccini e del loro appoggio alla piazza riarmista, molti si chiedevano (e me lo chiedevo anche io) “chissà cosa direbbe De Andrè”.
Poi però ho pensato: mica è la prima volta che il baraccone della sinistra si mobilita per cause belle e perse, con i suoi eroi e i suoi girotondi, le sue formule vuote, i suoi pericolosi slanci di idealismo e ottusità.
Andiamo a vedere, mi sono detto, situazioni simili in passato, e vediamo cosa ne disse De Andrè.
Mi sono ricordato della Svolta della Bolognina (1989). Pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ultimo Segretario Generale del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, annunciò a sorpresa una ristrutturazione del partito, che avrebbe cambiato persino il nome e il simbolo.
Il comunismo, come il Novecento, era finito. Un’ideologia fallimentare, ormai crollata ad Est, e dunque non più spendibile in Occidente. E poi il PCI era da decenni un partito socialdemocratico, tanto valeva dirlo apertamente.
Nella base del partito si aprì un dibattito storico, il più acceso e partecipato di sempre. Il docufilm “La Cosa” di Nanni Moretti ci consegna il preziosissimo patrimonio di quei giorni. Il documentario si apre con un anziano signore meridionale incapace di parlare in italiano, che sbraita nella sede del partito che lui non ci capisce dei grandi eventi, però in tanti erano morti per la falce e il martello, qualcosa vorrà pur dire. E mo’ sostituire quel simbolo con un alberello…
Ma fu l’opinione progredita, progressista, moderna a prevalere, con oltre l’85% dei consensi. Pompata sulle pagine di Repubblica di Scalfari, su l’Unità di D’Alema. In quegli anni La Repubblica aveva superato l’Unità come quotidiano di riferimento della base del PCI (e questo spiega molte cose).
Ecco il sol dell’avvenire, si diceva. Ecco il nuovo mondo. Finalmente volge al termine quel blocco internazionale che rendeva impossibile alla sinistra governare in Italia. Ora che la minaccia sovietica non c’è più, anche ai vecchi partiti comunisti verrà concesso di salire al governo per fare “le riforme”.
La socialdemocrazia sarà finalmente una realtà compiuta. Il giovane compagno Veltroni scrisse che la piena occupazione non sarebbe più stata una chimera. Si sarebbe addirittura ricomposta la scissione del 1921, i socialisti finalmente riuniti come forza socialdemocratica, una marea elettorale in grado di sconfiggere per la prima volta la DC.
In questo clima di speranze e di grande fibrillazione, mentre Guccini cantava alle feste dell’Unità e Vecchioni abbracciava pubblicamente Occhetto (qui), Fabrizio de Andrè se ne uscì con una canzone strana, cupa, dall’arrangiamento disturbante, molto diversa dalle sue celebri armonie di poesia e musica: “La domenica delle salme” (1990).
Fu diffuso anche un video con lo stesso cantante, caso unico nella discografia di De André (vedi alla fine dell’articolo). Nel video si vedeva un Fabrizio chiuso in casa, nell’oscurità, che spiava dalla finestra il mondo fuori. Un’atmosfera di angoscia e isolamento.
Il video era spiazzante, una sequenza di immagini grottesche e irrazionali della prima metà del Novecento, soprattutto delle due guerre mondiali. Il messaggio era chiaro fin dal primo fotogramma: la storia non stava andando avanti, stava tornando indietro.
La canzone si apriva con un arpeggio sconfitto, una fuga in tram nella nebbia, un poeta solitario nella notte, un “pettirosso da combattimento”, una minuscola lampadina accesa e tremante nel buio sconfinato.
Iniziava il grande smarrimento, la nuova era della globalizzazione, che riproduceva la stessa dinamica dell’ellenismo. I centri della decisione politica divenivano troppo lontani dal cittadino, e l’artista ripiegava su sé stesso, nella propria emarginata impotenza.
La dissoluzione dell’Urss è descritta nella canzone come una grande abbuffata di mafia e prostituzione, con i grandi capitali che andavano all’assalto della macchina statale sovietica, fra “tro*ie di regime” e “trafficanti di saponette che mettevano pancia verso est”.
Nella caduta del Muro, mentre la sinistra del suo tempo vedeva aprirsi una prateria di nuove possibilità di progresso, De Andrè vedeva “la scimmia del Quarto Reich” che “ballava la polka sopra il Muro”, e la “Piramide di Cheope” che iniziava ad essere ricostruita, “masso per masso, schiavo per schiavo”.
Emerge qui la consapevolezza profonda di cosa è stata la democrazia sociale italiana dagli anni 50 agli anni 80: non un libero sviluppo di ideali collettivi in una democrazia parlamentare (come pensava la sinistra naïf), ma un compromesso sociale garantito da un equilibrio di forze, di cui l’Urss era uno dei pesi della bilancia. Se crollava l’Urss, crollava tutto.
De Andrè presagiva con sgomento un mondo dove “non si udivano più fucilate” e dove “il gas esilarante presidiava le strade”. Un mondo dove ormai il dissidente è rintanato, perseguitato, come “Renato Curcio il carbonaro”, come i primi martiri cristiani (“gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe”). Un mondo apparentemente civile che però sta venendo a prenderti, dove tuonano i “ministri dei temporali”, e dove si è liberi solo con “un cannone nel cortile”.
L’ultima stoccata, anch’essa profetica, è per i colleghi cantautori, che “avevano voci potenti”, ma che tradiranno il loro mandato.
La canzone si conclude con la più accurata delle espressioni, due paroline che avrebbero racchiuso i successivi 30 anni, al tramonto di tutte le lotte sociali della Prima Repubblica: “pace terrificante”.
Alla fine del video si vede Dresda che soffoca sotto le bombe. Nel mondo ormai pacificato, nel villaggio globale del libero mercato che avrebbe scongiurato tutte le guerre, nella nuova alba europea e nel nuovo secolo americano, De André si distingueva dai suoi entusiasti colleghi e rivedeva guerra e barbarie in Europa.
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