Italia
Perché Reprimere il Dissenso è un Rischio per la Democrazia: Il Caso del Decreto Sicurezza
Il dissenso ha sempre spinto il progresso. Oggi però viene criminalizzato, come mostra il nuovo Decreto Sicurezza. Tra repressione, crisi delle strutture collettive e società frammentata, serve ricordare: indignarsi è ancora un atto politico necessario.
Senza dissenso non c’è progresso.
Non serve uno storico per constatare questo fatto: buona parte dei cambiamenti sociali è avvenuta anche grazie al malcontento di una parte della popolazione che è riuscita a incanalare quel sentimento e a incidere dal punto di vista politico o sociale. Si potrebbe citare la Magna Charta Libertatum, figlia dei malumori della nobiltà inglese dell’epoca verso il potere vessatorio della monarchia. Oppure eventi più sanguinosi come la Rivoluzione francese che, al netto delle sue degenerazioni, ha contribuito a gettare le basi delle democrazie borghesi. Più vicini a noi nel tempo, ci sono i movimenti operai, quelli per i diritti delle donne, della comunità LGBTQI+, delle minoranze etniche.
Diritti che oggi riteniamo imprescindibili-come quelli sulle condizioni di lavoro-sono stati ottenuti attraverso scioperi, occupazioni e il sostegno di movimenti capaci di incanalare il dissenso, come sindacati e partiti politici.
Per farla semplice, le cose sono spesso cambiate perché qualcuno si è messo di traverso e, per usare un francesismo, ha rotto le scatole.
La tolleranza per le manifestazioni di dissenso sembra però diminuita nella popolazione generale: manifestazioni, scioperi e proteste vengono spesso percepiti come una seccatura che intralcia la vita delle “persone normali”.
La destra ha ovviamente cercato di capitalizzare questo fastidio. Lo dimostra oggi il Decreto Sicurezza del governo Meloni, approvato dal Senato nei giorni scorsi. Un provvedimento che devia dai fondamenti democratici del nostro Paese. Di certo l’Italia non è la Russia di Putin o l’Ungheria di Orbán, ma la repressione del dissenso ha caratterizzato fin dall’inizio queste “democrature”. La differenza non è quindi sostanziale, ma modale. Con un avvertimento importante: nemmeno in Russia, un paese ben lontano dalla democrazia, il dissenso è stato represso da un giorno all’altro. Ci sono voluti anni e una serie di provvedimenti.
Tra le misure più preoccupanti del decreto, c’è quella che inasprisce le pene per chi blocca strade o ferrovie-anche in forma pacifica e simbolica. La nuova formulazione prevede il carcere, anche in assenza di violenza o di pericoli per la sicurezza pubblica: Un sit-in, un rallentamento temporaneo del traffico o una catena umana. Il tutto lasciando enormi margini di discrezionalità alle autorità.
Non si tratta più solo di ordine pubblico: si criminalizza il dissenso pacifico.
Questo provvedimento si inserisce in una cornice più ampia: lo slittamento di senso avvenuto attorno al termine sicurezza. Una parola tornata di moda dopo la pandemia, anche a sinistra, sull’onda di un mondo sempre più instabile e del bisogno di stabilità da parte della popolazione.
Ma la sicurezza di sinistra – quella che ha caratterizzato il periodo socialdemocratico del secondo dopoguerra – aveva una dimensione di cura dell’individuo da parte dello Stato. Questo si impegnava a costruire un welfare state per garantire ai cittadini una vita dignitosa: in salute, istruiti, con un tetto sopra la testa.
Una visione della sicurezza più vicina al ventre materno. Oggi, invece, la sicurezza che ha contagiato la destra in tutto il mondo somiglia di più alla figura del padre padrone che impone ordine e disciplina. Quel padre che punisce il figlio ribelle per rimetterlo al suo posto, mentre cerca – magari sbagliando-di trovare la propria strada.
È fondamentale tenere a mente questa differenza, per evitare che i movimenti progressisti- come purtroppo già accade- finiscano per adottare questa seconda idea di sicurezza nel tentativo di riconquistare i voti della classe lavoratrice.
Allo stesso tempo, è importante chiedersi perché è avvenuto questo cambiamento, ovvero la progressiva disillusione nei confronti delle proteste. La risposta rimane in parte elusiva, ma si possono fare alcune considerazioni.
Negli ultimi cinquant’anni, i cambiamenti tecnologici e sociali hanno portato a una maggiore individualizzazione della società. Basti pensare alle modalità di fruizione della cultura: se un tempo avvenivano in cornici sociali – come il cinema o i concerti – oggi le piattaforme digitali hanno sostituito questi momenti, contribuendo a ciò che è stato chiamato il “Secolo Antisociale”.
Parallelamente, anche le forme di organizzazione politica e sociale di massa – come i partiti progressisti e i sindacati – sono entrate in crisi, incapaci di adattarsi a una realtà più frammentata e con nuovi bisogni.
Questi due fenomeni sono, in fondo, due facce della stessa medaglia. Lo mostra bene anche la ricerca scientifica, che negli ultimi anni ha studiato sempre di più il contagio complesso: un modello che, prendendo ispirazione dall’epidemiologia, analizza come si diffondano opinioni, comportamenti, idee. Uno degli aspetti più interessanti è che la struttura dei gruppi- oltre che l’influenza dei singoli- è cruciale per sostenere queste dinamiche.
L’indebolimento delle strutture collettive può quindi spiegare in parte perché oggi le proteste siano meno efficaci o meno partecipate. I partiti sono sempre meno radicati, i sindacati più deboli, e molte organizzazioni operano solo a livello locale e disorganizzato. Il risultato è che le proteste rischiano di diventare performance: visibili, rumorose, ma politicamente sterili; a volte persino fastidiose per chi ne subisce le conseguenze. Questa dinamica può aiutare a capire perché la destra riesca a intercettare, con successo, il crescente fastidio verso le manifestazioni.
Come invertire la rotta è, ancora una volta, una domanda aperta. Ma c’è una cosa che vale la pena ricordare. Se è vero che, in una società così frammentata, indignarsi non serve a nulla, allora ha ancora senso farlo?
La domanda è sbagliata. L’atto stesso dell’indignazione è il segnale che l’individuo ha dei valori e delle idee che vanno oltre il suo orticello. L’indignazione è la prova che ci interessa qualcosa che ci supera, che riguarda gli altri e la società. Di questi tempi, non è poco.
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