Italia
Divide et impera: il paese, anche quello dello spettacolo, ora che tutto è spettacolo, ti cadrà ai piedi
Molti si lamentano per l’abbassamento del livello cvulturale della RAI. Ma è un fenomeno che riguarda l’intera vita sociale del paese. A chi vuoi che interessi un festival dedicato a Rossini?
Qualcuno si è lamentato che la la televisione nazionale, la RAI, non abbia dato spazio all’inaugurazione del ROF, il Rossini Opera Festival di Pesaro. Se è per questo non è che il Festival di Bayreuth o di Salisburgo abbiano oggi più spazio alla radio, non parliamo della televisione, in Italia. E sono festival di assai più grande interesse internazionale. Non parliamo poi di altri festival, per gli italiani quasi sconosciuti, come Aix-en-Provence, Glyndebourne, San Sebastán. Ma è solo in parte vero, perché radio3 ha trasmesso la diretta dello spettacolo, l’opera Zelmira. E ogni tanto qualcosa si ascolta anche da Bayreuth e da Salisburgo. Zelmira è una partitura interessantissima, e per molti aspetti rivoluzionaria, in cui sono fondati i modelli di almeno mezzo secolo di melodramma italiano ed europeo. Ebbe, non a caso, più fortuna in Europa che in Italia. Seguirono Semiramide, MoÏse et Pharaon ou Le passage de la la Mer Rouge, Mosè e Faraone, o Il passaggio del Mar Rosso, riscrittura del Mosè in Egitto, L’assedio di Corinto, riscrittura del Maometto II, Il Conte Ory, Guglielmo Tell.
Qualcun altro avanza il dubbio che la disattenzione della RAI sia un segno dei tempi, e non una questione politica, quasi a voler espungere la politica dalle questioni culturali, che invece sono, quasi sempre, anche, o addirittura soprattutto, questioni politiche. Come se la politica “sporcasse” l’innocenza della cultura. Un po’ come quando si dice che i magistrati “fanno politica” quando ricordano agli opportunamente smemorati politici che ci sono leggi da rispettare e osservare e adempiono dunque alla loro funzione di magistrati: mac è proprio questo che dà fastidio, che un magistrato faccia il magistrato. Ora, mi chiedo, una televisione nazionale che segua solo il consenso del telespettatore non è forse cosa che riguardi la politica? In Gran Bretagna l’autonomia della BBC è garantita non solo per legge – il rapporto tra legge scritta e legge tramandata in Gran Bretagna è complicato – ma di fatto. L’occupazione della RAI compiuta, invece, dai partiti è da decenni un dato di fatto ch’è diventato legge. Erano spartite perfino le compagnie teatrali: se i protagonisti erano DC i comprimari dovevano essere PCI, le comparse PSI o PRI e così via.
L’intero paese era stato spartito, non solo i teatri e la RAI. Poi arriva la rivoluzione di Berlusconi, l’unica vera rivoluzione che sia stata attuta in Italia negli ultimi decenni, anche se la rivoluzione era già in atto nei fatti, Berlusconi le dà solo il sigillo di Stato: l’intero paese è diventato così un’azienda, anche la scuola, soprattutto la scuola. La logica di qualunque azienda è il profitto. Ma se introduci la logica del profitto anche negli apparati dello Stato – e la comunicazione è un apparato – hai definitivamente chiuso l’esperienza di uno Stato di cittadini per trasformarlo in uno Stato di consumatori. Questo è successo in Italia. Si è tentato di farlo anche altrove, per esempio nella magistratura, e lo si tenta ancora, ma in genere non riuscendovi o riuscendovi solo in parte. A questo punto la comunicazione di una democrazia non si distingue da quella di un’autocrazia, l’unica differenza è che l’autocrazia ha l’arroganza di dichiararlo, l’attuale finzione di una democrazia lo maschera con la propaganda della libertà – finta – di opinione. Niente di nuovo. Adorno, Horkheimer l’avevano già bene analizzato nella Dialettica dell’illumiismo. Il problema non riguarda solo la televisione, la stampa, ma anche l’editoria, il cinema, i teatri, le istituzioni musicali, tutto l’apparato culturale del paese. E quindi anche l’istruzione.
La proclamazione del “merito” è una scimmiottatura acchiappabischeri della vecchia scuola, di cui a parole imita il funzionamento, ma di fatto ne assume solo la maschera. La valutazione massima concessa al 99% dei maturati è una dichiarazione di fallimento educativo, non perché tutti o quasi abbiano ottenuto l’approvazione, questo se mai sarebbe il risultato di un processo educativo efficiente, ma perché non riproduce la reale differenza dei livelli cognitivi dei ragazzi: non siamo uguali, non è dunque strano che ci siano differenze di cognizione, di maturità critica, strana se mai appare questa omologazione generale. Poiché la disparità del rendimento degli studenti è sempre stata un elemento di efficienza del processo educativo, l’azzeramento delle differenze o è una rivolta politica, come nel ’68, o un adescamento per invitare il giovane ad occuparsi d’altro che di critica al potere, e cioè di procurarsi un titolo come garanzia di occupazione. Ma, en passant, già l’abolizione del valore legale del titolo favorirebbe chi lo stravantato merito lo possiede per davvero. Altrove, in Europa e nel mondo, in genere, non a caso, non conta di fatti il titolo, ma in quale università, per esempio, lo hai conseguito, o se mi fai vedere che cosa sei capace di fare, invece di esibirmi la lode o l’amicizia del tale o del tal altro potente.
Il paese è in declino, e lo si vede dappertutto, ma perché da decenni ha smesso di essere un paese, ed è diventato un serraglio di clienti. Da situazioni simili si esce o con una violenta e radicale rivoluzione, o con la paziente riformulazione delle logiche che soprassiedono all’andamento e funzionamento di tutte le strutture del paese, pubbliche e private. La triste realtà è che non siamo disposti a fare nemmeno questo. Voglio vedere come risponderemo alla richiesta dei “burocrati” di Bruxelles di adeguare la RAI agli standard di libertà e pluralismo delle altre strutture di comunicazione degli altri paesi. Ricordo agli smemorati che quando ci fu la guerra all’IRAK, in Gran Bretagna si oppose, denunciando la truffa delle inesistenti armi di distruzione di massa, proprio la BBC, diretta in quel momento da un laburista. Ma anche il capo del governo, Blair, era laburista. E non poté zittire la BBC. Negli stessi anni – a proposito di diritto civile – la metropolitana di Londra – quella che i londinesi chiamano Subte – introdusse una doppia tessera di abbonamento per i/le trans, una con foto nelle abituali vesti borghesi, l’altra con la foto del travestimento femminile, perché nessun controllore della rete o agente di polizia, o dell’ordine pubblico, osasse opporre qualcosa, quando veniva loro esibita la tessera.
La democrazia, quella vera, è anche questo: rispetto, integrale, della molteplicità e della diversità. Non so se noi siamo maturi per diventarlo, attaccati ancora come siamo alle opposte bande di guelfi e ghibellini, e all’ossessione infantile di una patente d’identità morale – a parole, di fatto al riconoscimento di appartenenza a un clan. Quando l’esercito della neonata monarchia italiana diroccò a Roma una parte delle mura cittadine, a Porta Pia, e prese la città per farne la capitale del Regno, i cattolici, indignati, si precipitarono a interrogare colui che credevano il loro sostenitore nazionale, Alessandro Manzoni, e gli chiesero che cosa ne pensasse: Manzoni, calmo, rispose: “Finalmente è finito un equivoco”. Aveva del resto accettato, insieme a Verdi, di essere eletto Senatore del Regno. Il guaio è che pochi, pochissimi cattolici italiani si chiamano Alessandro Manzoni, il quale non credette mai che convertirsi al cattolicesimo significasse anche abiurare alle idee liberali dell’illuminismo francese, e in particolare milanese: suo nonno era Cesare Beccaria. Manzoni non è stato l’unico. Ma nonostante tutti lo leggano a scuola, non è certo lui un modello culturale per gli italiani. Né lo sono i Fogazzaro, i Gramsci, i Gobetti, i Moravia, i Pasolini, i Calvino, i Brancati, i De Gasperi. e tanti altri, cattolici e no, ma tutti, come lui, inascoltati. Il paese preferisce altri cammini.
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