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Religione

Il muratore che parlava con Dio

di Fabio Cavallari

Parlare con Dio, per lui, era come salutare ogni mattina

24 Aprile 2025

Non lo chiamava compagno, come faceva Majakovskij. Non lo chiamava neanche Signore. Parlava e basta. Ogni mattina. Arrivava in corriera. Alle cinque e dieci. Sempre lo stesso posto. Sempre la stessa faccia: già stanco o forse ancora stanco. La giacca addosso anche d’estate. Una sporta di plastica con dentro due panini, un termos, una mela mezza ammaccata e un libro mai letto. Scendeva senza fretta. Salutava tutti, ma non parlava con nessuno. L’autista, il panettiere, le signore della sartoria. Sollevava la mano e faceva un mezzo sorriso. Gli mancava un dente. A fine anno, forse, se lo sarebbe fatto mettere. Forse. Non entrava al bar. Non prendeva il caffè. Diceva che gli dava acidità. Ma forse era per non spendere. Si sedeva sul secchio del cemento. Sempre lo stesso. Un minuto. Due. Guardava in alto. E diceva piano: “Oggi ho male alla schiena. Il tempo gira a pioggia. E il sacco è finito.” Poi taceva. E iniziava. Prendeva i guanti, sempre umidi. Li tirava su con fatica, come chi infila ogni mattina la stessa obbedienza. Versava il cemento a occhio, senza misurare. Lo conosceva a memoria. Mescolava lento, senza fretta. Le mani forti, le spalle curve. Pochi gesti, sempre uguali. Lanciava la cazzuola, livellava, batteva due volte. Poi un mattone, poi un altro. Il muro saliva piano, come un pensiero che non si dice. Non parlava quasi mai durante il lavoro. Ogni tanto un cenno, una risposta secca, un’indicazione. Ma niente di più. Il sudore gli colava sulla fronte e scendeva giù, senza che lui se lo asciugasse. La polvere gli entrava negli occhi, ma non si lamentava. Aveva il passo fermo di chi sa cosa deve fare. Non costruiva case. Sollevava muri. Tracciava confini che altri avrebbero abitato. Ma per lui era tutto lì. Ogni giorno. Mattone su mattone. Come una litania che non si dice mai due volte allo stesso modo, ma porta lo stesso dolore. Nessuno gli aveva mai chiesto a chi parlasse. Ma tutti lo sapevano. Era Dio. O qualcosa come Dio. Lui non lo nominava. Non pregava. Non chiedeva nulla. Solo parlava. Come si parla a un padre che se n’è andato ma si spera che ascolti. “Oggi non mi va. Ma farò quello che c’è da fare.” Una volta un collega gli chiese: “Ma ci credi?” E lui disse: “No. Però ci parlo.” Era un gesto. Non di fede, ma di ordine. Come chi si sistema la sedia prima di uscire. Come chi piega il tovagliolo, anche se mangia da solo. Un giorno non parlò. Era tardi. Il cantiere era già pieno. Gli operai già all’opera. Nessuno ci fece caso. Ma lui inciampò. Un mattone gli sfuggì. Non si ruppe. Lo guardò a lungo. Lo sollevò con lentezza. E disse soltanto: “Scusami.” Da allora non ha più saltato un giorno. Perché parlare con Dio, per lui, era come salutare ogni mattina. Come portarsi dietro il panino, anche se non ha fame. Come sistemarsi il colletto prima di scendere dalla corriera. Era un modo di abitare il mondo. Una postura. Una fedeltà senza appartenenza. Parlare con Dio è un gesto che non cerca risposta. Ma la presenza. È dire che la materia non basta. Che non tutto si aggiusta con la cazzuola. Che anche la fatica, anche la polvere, chiedono uno sguardo. Non serve crederci. Basta non smettere di dirlo. Perché anche il dubbio, se ripetuto ogni giorno, diventa una forma di liturgia.

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