
Giornalismo
Servono ancora gli intellettuali?
Quando la parola critica abbandona la scena pubblica
Servono ancora gli intellettuali? La parola critica ha abbandonato la scena. Non perché sia morta, ma perché si è venduta. Non è stato il potere a disinnescare il pensiero. È stato il pensiero a disinnescarsi da solo.
Ha smesso di interrogare. Ha rinunciato a ferire. La cultura non disturba più. Si adatta. Si dispone. Quello che un tempo era un gesto libero, oggi è solo retorica da palco, didascalia da social, eco del consenso. C’è stato un tempo in cui chi scriveva, pensava, insegnava o dirigeva una rivista, disturbava. Non cercava approvazione. Non modulava. Non si adattava. Nominarlo il reale era un gesto pericoloso. Oggi si preferisce la modulazione tiepida del commentatore, la mezza frase, il linguaggio doppiamente corretto. L’intellettuale è diventato ospite televisivo, consulente d’immagine, professionista dell’opinione. E il potere, naturalmente, ringrazia.
Servono ancora gli intellettuali? Pasolini diceva che il dovere di uno scrittore era vedere ciò che gli altri non vogliono vedere. E raccontarlo. Anche da solo. Anche odiato. Chi oggi si prende questo rischio? Chi rompe l’equilibrio dei propri follower? Chi osa parlare fuori campo, fuori comfort?
Nel frattempo, la scena pubblica è diventata una farsa. Il conflitto è rissa, il dibattito è intrattenimento. Si premia chi urla, chi estremizza, chi semplifica. La complessità non fa share. La parola pensata non genera clic. Il pensiero si misura con i numeri, non con la sua verità.
Eppure, il silenzio dell’intellettuale non è solo un vuoto. È una resa calcolata. È un patto tacito con il sistema che lo sostiene. È complicità mascherata da equilibrio. Chi oggi tace, spesso lo fa non per paura, ma per convenienza. Il miglior alleato dell’autoritarismo è l’intellettuale che sa, ma non dice.
Ciò che chiamiamo “opinione pubblica” è ormai un’arena dove la parola non ha più forza trasformativa. Chi pensa davvero, viene derubricato a nostalgico. Chi dissente, a polemico. Chi tenta di salvare il dubbio. Ma il pensiero – quello vero – è destabilizzante. Non deve servire, deve inquietare. La parola critica non è una posa. È un’urgenza etica.
Ciò che può fermare l’imbarbarimento del linguaggio, è quello che precede la politica, e ne misura la dignità. Se il potere convive così bene con il silenzio degli intellettuali, è perché ha compreso una cosa che dovremmo ricordare tutti: il silenzio non è mai neutro.
È sempre una scelta. La parola, quando è autentica, non fa carriera. Ma fa storia.
Il silenzio, scriveva Camus, è l’ultima trincea della menzogna. Per questo la parola, quando è autentica, resta un gesto di resistenza.
Servono ancora gli intellettuali? Oggi sembrano scomparsi. Non disturbano, non interrogano, non rompono il silenzio. Certo, quelli che tali si definiscono, strepitano in Tv, fanno bagarre nelle interviste, ma è solo show! Chi sa, spesso tace. Chi pensa, si adatta. Ma il pensiero, quando è vero, non consola. Inquieta. Il silenzio, scriveva Camus, è l’ultima trincea della menzogna. Per questo la parola, quando è autentica, resta un gesto di resistenza.
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