Italia
Lettera a Maria De Filippi
Maria De Filippi non educa sentimentalmente un Paese, ma da anni ne mette in scena le relazioni. Questa lettera interroga ciò che accade quando l’amore diventa formato, quando il sentimento passa dall’esperienza all’inquadratura, e su cosa resta fuori campo.
Maria,
ti scrivo da uno studio che non è il tuo, da una luce che non accende riflettori, da un silenzio che in televisione non passa mai.
Ti scrivo perché da anni attraversi le vite degli altri senza alzare la voce. Stai lì, seduta, e lasci che l’amore si racconti come può, con parole sbagliate, con frasi imparate a memoria, con emozioni che arrivano prima del pensiero. Guardandoti, sembra tutto semplice. Come se bastasse esporsi per capire, scegliere per crescere, parlare per guarire.
Non ti scrivo per accusarti. Sarebbe facile e inutile. Ti scrivo perché da tempo metti in scena le relazioni di un Paese senza mai rivendicare un ruolo educativo. Mostri. Ascolti. Accompagni. Tieni insieme persone che, fuori, non starebbero mai nella stessa stanza. Eppure qualcosa, mentre ti guardo, continua a restare fuori campo.
Mi chiedo che fine faccia il tempo lungo dell’amore. Quello che non si risolve in una scelta, in un sì o in un no, in un applauso. Mi chiedo dove vadano a nascondersi le esitazioni che non servono a nulla, le parole dette male, le pause che non portano da nessuna parte. Quelle che non insegnano, non migliorano, non diventano esempio. Tu le tagli con precisione. Non per cattiveria. Per necessità. Il formato non perdona.
E allora la mia non è una critica, ma una domanda che ti riguarda e che riguarda tutti noi. Cosa accade quando il sentimento passa dall’esperienza all’inquadratura. Se impariamo qualcosa dell’amore o solo a riconoscerne le forme leggibili. Se impariamo ad ascoltare o soprattutto a esporci. Se impariamo a restare dentro una relazione o a scegliere il momento giusto per uscire di scena.
Tu non giudichi mai. È una postura rara. Ma a volte mi chiedo se questa sospensione continua non finisca per somigliare a una tregua permanente. Tutto è comprensibile, tutto è raccontabile, tutto è legittimo. Eppure l’amore, quello che fa male davvero, quello che non funziona, quello che non consola, ha bisogno anche di attrito. Di un inciampo. Di una parola che non torna.
Forse ti scrivo perché sei una delle poche che potrebbe permettersi di mostrare anche ciò che non serve. Un amore che non cresce. Una scelta che non arriva. Una storia che non insegna nulla. Forse ti scrivo perché so che potresti farlo e non lo fai. Non per mancanza di coraggio, ma per fedeltà a un patto che conosci meglio di chiunque altro.
Resta allora questa domanda, semplice e non pacificata. Cosa resta, Maria, quando le telecamere si spengono. Cosa resta delle relazioni quando non c’è più nessuno da convincere, nessuno da scegliere, nessuno da applaudire.
Non ti chiedo una risposta. Ti chiedo solo di tenere aperta la domanda. Anche per noi.
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